Categoria: Società

Il tempo al tempo del Coronavirus

1.

In quasi tutte le trasmissioni sul Coronavirus, talk show o servizi di telegiornale, ricorre un discorsetto che non mi convince del tutto: quello secondo cui, passato questo periodo di quarantena ed emergenza, la nostra vita sociale ne guadagnerà. Avremo, si dice, maggiore attenzione per le politiche della salute, una più accorta consapevolezza delle nostre abitudini, riscopriremo il valore delle relazioni, del rispetto e delle regole di convivenza, riporteremo il fattore umano al centro della nostra civiltà, e altro ancora. Insomma, direbbe Lucio Dalla, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno.

L’emergenza del Coronavirus, penso, lascerà certamente molte tracce nelle nostre esistenze, individuali e sociali; se non altro produrrà, come già accade, un’ingente quantità di aneddoti e racconti. Tutti ricorderanno come avranno vissuto nei mesi del Coronavirus – sperando che siano soltanto mesi. Ma alla fine di questa emergenza, temo, tutto tornerà pian piano come prima. All’agio e al benessere nessuno vorrà rinunciare, nemmeno per riscoprire valori e tantomeno per mettere in discussione discutibili abitudini. Del resto, non siamo diventati davvero ambientalisti, consci dei limiti delle nostre risorse, dopo le domeniche senza auto del 1973.

2.

Tuttavia, c’è stata un’osservazione di Stefano Massini, in Otto e mezzo del 13 marzo 2020 (qui), su cui mi piace ritornare.

Lo scrittore osservava che stiamo facendo una diversa esperienza del tempo, non solo (aggiungo io) perché chiusi in casa cerchiamo in tutti i modi il modo migliore di “far passare” il tempo, riscoprendo letture e visioni in streaming, ma perché per la prima volta nella nostra esistenza non sappiamo quando un certo fenomeno avrà fine. Non sappiamo quando tutto ritornerà come prima. All’inizio si trattava di giorni, poi di settimane, ora saranno sicuramente mesi: due, tre, cinque, nove – o più? Non lo sappiamo.

Massini osservava che siamo abituati, noi umani-digitali, a gestire il tempo secondo i nostri desideri, ad esempio a programmare l’arrivo di un acquisto di un prodotto sul web: ad avere ciò che vogliamo quando lo vogliamo. Poter manipolare il tempo – tutto now! – accelera la soddisfazione. Non ci eravamo ben resi conto che la nostra organizzazione sociale aveva posto il tempo al servizio dei nostri desideri; mentre ora ci ritroviamo costretti dalle circostanze a essere noi a chiedere al tempo che cosa possiamo fare. Stiamo tutti in silente attesa, come un bravo maggiordomo che aspetta un cenno del padrone. Certo, possiamo ingannare il tempo, riempirlo in modo creativo, cercando che cosa guardare e cosa leggere da casa (con PornHub che regala piacere a distanza: qui), ma non abbiamo possibilità di programmarlo. Le agende durano al massimo una settimana, poi è il nulla.

3.

Un professore all’università di Tehran, Alireza Ajdari, giusto un anno fa mi spiegava, con ironia, che nella pratica discorsiva iraniana i tempi verbali sono quattro, non tre: passato, presente, futuro e poi “Era dello Scià”. Come se il periodo della monarchia di Reza Pahlavi fosse una enorme parentesi avulsa dalla storia del paese. Oggi per noi è il futuro un agglomerato avulso dal nostro presente: una zona buia. Il tempo di colpo non è un dato su cui possiamo contare; e nemmeno una quantità che possiamo calcolare. I giorni e i mesi davanti a noi si riducono a un generico “dopo il Coronavirus”. Non sappiamo con chi trascorreremo la Pasqua; possiamo al massimo sperare di sapere dove passare il Natale.

Il futuro, in queste condizioni, non è né deducibile né ipotizzabile. Quando tutto si ferma, il futuro esce dal nostro orizzonte cognitivo. Se qualcuno domanda quando finirà l’emergenza Covid-19, l’unica risposta è quella dell’apologo di Uccellacci e uccellini di Pasolini: Boh!

4.

Nell’Era del Coronavirus, mi sono detto, siamo noi a servire il tempo perché ci troviamo palesemente, e non più metaforicamente, in balia del non sapere. Il socratico “sappiamo di non sapere” non è più un artificio metodologico: è proprio così. In questi giorni scopriamo che l’universo della precisione di Alexandre Koyré esiste fino a un certo punto. Siamo ritornati (momentaneamente?) nel mondo del pressappoco. Anche quelli di noi che si sentono bene non sanno se per caso non siano portatori asintomatici: ospitiamo microrganismi patogeni, e potremmo trasmetterli, senza avere sentore alcuno della malattia.

Tutti noi abbiamo vissuto l’epopea del progresso scientifico e tecnologico, ci siamo nati e cresciuti dentro. Abbiamo sempre inconsciamente escluso la totale ignoranza. Se infatti è vero che sono indefinite le cose che non sappiamo, è anche vero che abbiamo a disposizione strumenti che ci permettono di averne conoscenza con poco sforzo e quasi immediatamente. In questo senso, Wikipedia è il modello del possiamo-sempre-conoscere-tutto. Ma nell’Era del Coronavirus no. Nemmeno gli scienziati sanno che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Cercano di sapere, perché è il loro mestiere, e noi speriamo che ci riescano presto. Ma a ogni occasione dichiarano la precarietà di ogni loro previsione, come a proposito della durata dell’immunizzazione dopo l’infezione (qui).

5.

Se così nell’era del Coronavirus il tempo e il sapere sono un terreno buio davanti a noi, per quali vie un tantino illuminate possiamo camminare?

La via epistemologica, abbiamo detto, è quella del futuro indeterminato. Sulla via fenomenologica, però, possiamo sospendere ogni giudizio e zittire ogni angoscia (già, esiste anche la via psichiatrica), non pensare al futuro e spremere il presente di ogni suo succo.

Poi c’è la via poetica, che spesso consola e a volte insegna. E così m’è venuta in mente una canzone di Fabrizio De André e Francesco De Gregori del 1972: Canzone per l’estate. È un discorso rivolto a un tizio – il classico uomo comune, borghese o imborghesito, o proletario soddisfatto – che vive la propria esistenza con ordine e programma, dentro una quotidianità consolata da azioni ripetute: la moglie che lava i piatti, la figlia vanitosa, il cane e le rose in giardino, “ogni giorno un altro giorno da contare”, e soprattutto niente per potersi vergognare (riascoltatela). Insomma, chi più chi meno quel tizio siamo tutti noi. Ma a quest’uomo viene rivolta un’ironica domanda: com’è che non riesci più a volare?

Riascoltando la canzone, parrebbe che De André e De Gregori oggi ce la canterebbero così: “Beh, con tutta la vostra scienza com’è che non riuscite nemmeno a sapere quanti giorni dovete rimanere chiusi in casa?”. Ma sappiamo che la metafora del riuscire a volare è un implicito consiglio: non menatevela con la vostra vita in perenne ricerca di “tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente”; il giorno in cui arrivasse uno sgambetto della natura, come un inconoscibile virus, la vostra vita perfettamente ordinata e programmata rischierebbe di saltarvi in aria. Meglio se imparate a camminare anche per ignoti sentieri, senza sapere dove e quando arriverete. Conviene imparare a volare.

La teoria del tumulto ne “I promessi sposi”, e il populismo italiano

Rileggo I promessi sposi e arrivo al Capitolo XIII, nel quale Manzoni prosegue il racconto dei tumulti per il pane detti ‘di San Martino’ (dei quali ricorre il 390esimo anniversario in questi giorni). Mi colpisce il noto brano nel quale l’autore discetta sulle dinamiche dei moti popolari (“Ne’ tumulti popolari c’è sempre…”) . Potete vederlo qui (consiglio di tenerlo in una finestra vicina). Mentre leggo odo un’eco semantica, o se preferite interpretativa, insomma, mi pare si tratti di riflessioni che di questi giorni attraversano, come nuvole estive, la semiosfera, o il phaneron, se preferite un termine peirceano, insomma quel luogo che sta un po’ nelle nostre teste e un po’ in quelle degli altri, il territorio del senso che costituisce la mente collettiva o enciclopedia.

E d’improvviso mi si manifesta una metafora alla quale io, personalmente, non avevo pensato: la rete socialmediatica non è un canale di comunicazione, è uno spazio urbano (e questo è stato detto e ridetto), ma la visione continua col mostrarmi chel’affermazione populismo (inteso nel suo complesso di flussi comunicativi) non è altro che una sommossa che ha luogo in questo spazio. Una rivolta che fa perno su criticità e malumori ampiamente diffusi, inizialmente spontanei, che vengono poi cavalcati da capipopolo, appunto i leader populisti.

In questa lettura mi supporta (o mi obnubila, dirà forse qualcuno…) l’esperienza diretta dei moti del 1977 a Bologna, quando appunto si parlava di ‘movimento’ come insieme di pratiche non riconducibili a organizzazioni politiche stabili e strutturate. In quei mesi fui parte e osservatore in azioni collettive di rivolta spontanea, e non posso non cogliere le similitudini con il racconto manzoniano.

Estremisti, moderati e massa oscillante

Ma prendiamo il testo.

All’inizio, Manzoni distingue nel popolo in sommossa tre componenti. Gli estremisti, i moderati e la massa priva di direzione. I primi sono coloro che:

… o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura.

E’ facile identificarli nella metafora del presente. Sono quelli che vedono sempre il peggio nei motivi e nelle azioni degli oppressori di turno e promuovono le reazioni più estreme contro di loro. In Italia, oltre alle minacce “in galera”, l’espulsione immediata e la “castrazione chimica”, costoro muovono le ruspe e le motovedette, ma non ancora i carri armati. Ogni fatto negativo, più giova loro quanto più è terribile. Stupri violenti connessi alla droga, corruzione e malgoverno, rapine a mano armata in case private, povertà ‘estrema’, sono altrettante spinte a prendere decisioni sempre più drastiche.

Vi sono poi i moderati, che spingono in senso contrario. Anch’essi non sempre hanno motivi nobili, nonostante il Manzoni, da proto-democristiano, si schieri in ogni caso con loro (“Il cielo li benedica”). In ogni caso non perseguono alti fini, ma sono “…taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci.”

Soltanto tra i motivi degli estremisti, però, compare quello razionale: “per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato”.

Mi si perdoni se nelle due suddivisioni degli estremisti (i fanatici e gli scellerati) mi pare di vedere i due principali attori politici del momento. In entrambi (ma con prevalenza tra i fanatici) non mancano tuttavia coloro che sono spinti dal terzo motivo: “un maledetto gusto del soqquadro”, il disordine per il disordine, la distruzione (creativa?) per sé stessa; direbbe qualcuno: la rivolta come espressione desiderante e liberazione della libido. Per esempio la ‘decrescita felice’ o i movimenti nimby come espressione di un andare contro che prescinde dal configurare le conseguenze pragmatiche dell’azione.

Estremismo e moderazione, quindi, sono in un certo senso tendenze polarizzate, assiologizzate, presenti in ogni moto popolare, in ogni corpo elettorale. Nessuna di queste due parti, comunque, possiede una strategia, ma hanno la capacità di agire secondo un programma narrativo comune che si manifesta nel momento performativo (“In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni.”) Forse chi segue un ‘disegno scellerato’, invece, la strategia ce l’ha, sia pure confusa e incompleta. Comunque sia, questi due poli, pur privi di concerto, possono produrre una performanza razionale. Si tratta di una razionalità per così dire a posteriori, quasi naturalistica, risultato di un attrattore che si manifesta quando la massa è già massa, ma non le preesiste. In effetti, considerando le strategie di formazione delle opinioni che emergono in rete, è vero che il grosso del lavoro è oggi la costruzione della massa-rete (individui in contatto indiretto, solo virtuale), e solo successivamente, attraverso l’analisi dei ‘big data’, la si dirige verso obiettivi comuni. Obiettivi che non interessano a chi fa da polo di raccolta del consenso, in quanto non si mira veramente a raggiungere qualcosa, ma solo alla manipolazione della massa. Continuiamo a stupirci dell’inconsistenza dei programmi populisti, che cambiano, si contraddicono, si mescolano e si cancellano continuamente, diffondendo effetti che spesso vanno in direzioni contrapposte, che poi vengono negati e alterati con dichiarazioni del tutto false, ma l’obiettivo del manipolatore populista è solo mantenere il proprio potere manipolatorio il più a lungo possibile. I suoi obiettivi sono vaghi, si può dire che sia un raccoglitore di ciò che capita a tiro, un nomade che non si cura di ciò che lascia alle spalle1.

Il moderato, a sua volta, vive in un certo senso di riflesso, per reazione a un moto del quale comincia a temere le conseguenze, a confrontarle con i limiti che la sua morale o il timore per la sua sicurezza gli impongono. Come tante volte si è detto, purtroppo la dinamica stessa dei moti, e ancor più delle rivoluzioni, porta alla progressiva estremizzazione, almeno finché non intervengono accadimenti traumatici, in presenza dei quali le due opzioni, estremismo e moderazione, ogni volta si contrappongono. Fino alla immancabile controrivoluzione o restaurazione che pone fine alla sovversione stessa.

In mezzo tra estremisti e moderati, e questo è il punto più interessante, sta però quella componente senza la quale la rivolta non può manifestarsi in tutta la sua potenza: “la massa, e quasi il materiale del tumulto”. Essa viene introdotta come “un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo”. Questi sono, si direbbe in un’elezione, gli ‘swinging voters’, i soggetti che pencolano di qua e di là, gli indecisi, i non convinti, dunque convincibili. Questa massa, oggi, costituisce il corpo sociale della modernità liquida, che si può plasmare in una o un’altra forma, ed è il vero obiettivo da conquistare per chi è (in qualsiasi modo) teso verso la rivolta o verso un almeno momentaneo freno.

E Manzoni, con la consueta precisione, ce ne propone una sintetica tipologia:

un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro.

Il passo appare mirabilmente adatto a descrivere l’elettore medio dei partiti populisti, ma anche l’italiano modello dei media nazionali, sia pure con minore precisione. La locuzione “qualcheduna grossa”, “qualche cosa grossa”, nel senso di ‘grande’ ma anche di ‘rozza’, dipinge molto bene quel desiderio di scoprire il grande complotto che tutto spiegherà e infliggere alla classe dominante la grande punizione che tutto sistemerà, finalmente, in una visione semplice, che in realtà è (appunto) semplicistica, rozza. News truculente e pietistiche si alternano nei media a stimolare in modo oscillante, appunto, ferocia e misericordia. Quello che si persegue in entrambe è un sentimento da “provar con pienezza”, proprio perché al popolo, se qualcosa manca, è proprio il comprendere pienamente un mondo che è troppo complesso per le categorie che possiede, e, giustapponendo sempre pro e contro, è come se soffocasse l’infantile naturale anelo a uno sfogo pieno dell’emozione2.

Le due anime e il corpo liquido

Emerge nel brano manzoniano un altro tratto che risuona con la sfera mediatica di questi mesi: l’opposizione tra politica e mercato e l’ingenuità dei seguaci del populismo.

La ragione del tumulto di San Martino, infatti, è di per sé rivelatrice dell’ignoranza popolare: il gran cancelliere Ferrer, nel tentativo di calmare le tensioni sociali legate alla penuria di pane, fissa un calmiere, che però è talmente basso da costringere i fornai a lavorare in perdita; insomma, è fuori mercato e non può durare. Tuttavia, viene interpretato dal popolo come la prova che la penuria era una finzione architettata ad arte e che finalmente è arrivata l’abbondanza. Quando, a fronte del rischio che i forni chiudano, il calmiere viene ritirato (e inevitabilmente si torna all’austerity, diremmo oggi), ecco che il popolo è ormai convinto di essere stato preso per i fondelli dai potenti, e si ribella. La massa ribelle è però oscillante, può essere spinta da una posizione all’altra con il minimo sforzo, anche se si tratta di posizioni antitetiche:

Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato?

Dell’Italia di questi anni, tanti sono gli esempi di chi è stato portato in trionfo e poco dopo proposto per lo squartamento, da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Bossi. Ma colpisce l’elenco di posizioni, che non possono non ricordare a chi pratica un po’ di semiotica il modello attanziale o comunque le funzioni di Propp: attori VS spettatori; strumenti VS ostacoli. E’ quasi letterale. Queste banderuole che sono gli individui formanti la massa, non mutano solo le proprie idee: mutano le loro stesse funzioni. Fino a perdere il proprio ruolo attanziale. Stare zitti, finirla, sbandarsi e tornare a casa e infine il grado zero della narratività: “cos’è stato?” Da scrittore con men che 25 lettori, questo passaggio al discorso diretto lo trovo magnifico. “Cos’è stato?” Come dire “Io non c’ero, e se c’ero, dormivo”. E questa notazione è assolutamente umana. Mi ricorda i giorni dopo l’11 e 12 marzo 1977, quando partecipai a due manifestazioni, a Bologna e a Roma, entrambe trasformatesi in scontri tra partecipanti e forze dell’ordine, dopo le quali, rintronato come dopo una battaglia (dalla quale non erano state molto diverse) mi ritrovai a casa, dove, ovviamente, quei fatti erano solo pochi minuti di notizie nei telegiornali. Ecco, non era successo quasi niente. Credo che questo sia ciò che prova sempre l’individuo coinvolto in drammi di massa, nei quali vive emozioni fortissime, ma che, svanita l’emozione, sembrano quasi non essere mai accaduti, soprattutto quando non hanno conseguenze sulla vita quotidiana. Una massa così mobile è per ciascuno dei due partiti l’oggetto della contesa:

Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere.

Che cosa sono le anime nemiche, nel panorama dei conflitti tra manipolatori mediatici? Sono quei sistemi di credenze, quelle costellazioni di valori, quelle sequenze argomentative, che si installano nel nostro cervello e ci fanno propendere per l’una o l’altra parte. Manzoni probabilmente usa la metafora delle due anime in chiave di possessione demoniaca, ma oggi possiamo vederla in un’ottica di diffusione di contenuti virali, o meglio ancora di iniezione di valori.

Effettivamente, le opinioni e gli stili di vita sono sempre più spesso rappresentati come un dispositivo che si installa in un involucro vuoto. L’uomo liquido si apre a macchine semiotiche che lo orientano di qua o di là, lo possiedono temporaneamente. Il comando che lo apre è come quello della caverna di Alì Babà: per chi ce l’ha è semplice e efficace. Tuttavia,così come si fa possedere da un sistema di valori, allo stesso modo può sostituirlo con un altro, pur che abbia la password. Password che può essere un banale lavoro, per chi ha come prospettiva solo la disoccupazione, o l’adesione a un partito o movimento o altro gruppo che offra a chi è solo un riconoscimento sociale, o l’illusione di una ‘cosa grossa’ che presto arriverà, o magari un po’ di denaro da spendere.

Strategie di manipolazione

Il brano chiude con la spiegazione dei mezzi con i quali le due parti operano. Mezzi speculari, miranti a esiti opposti, ma tutti fraudolenti. Non è contemplata, in Manzoni, la possibilità che vi sia un programma d’azione razionale e legittimo, vi è solo propaganda e manipolazione dissimulata:

Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.

Le speranze e i terrori (l’industria della paura di Bauman), le voci atte a spargere passioni, a dirigere i movimenti: le fake news, l’uso strategico dei social, le montature mediatiche, le strategie del marketing più subdolo. Il testo è molto valido in termini di teoria dei feed back mediatici: il grido, il messaggio, allo stesso tempo esprime, attesta e crea la tendenza della maggioranza. Vale a dire che proviene da essa, ne fa testimonianza, e ritorna su di essa creando (rinforzando) lo stesso valore che era stato generato. Siamo al nucleo della strategia comunicazionale del populismo, che lo distingue dalle ideologie del ‘900: non si tratta più di inculcare idee nella massa, o di aprirle gli occhi sulla propria condizione di sfruttatamento, ma di raccogliere le sue stesse pulsioni, quali esse siano, rinforzarle, dare loro lo ‘spin’ voluto e re-iniettarle in essa per un nuovo ciclo.

Manzoni non dice, e forse non crede, ma, chissà, possiamo pensare che invece lo abbia pensato, di aver enunciato una meccanica della manipolazione delle opinioni. Due minoranze opposte (estremisti VS moderati), spinte verso oggetti di valore opposti da motivazioni sia razionali sia irrazionali e inconsce, danno vita a un gioco strategico conflittuale volto al controllo della maggioranza oscillante, priva di un programma narrativo, ma attirata da passioni contrastanti, ognuna delle quali può essere abbandonata per il suo opposto. Attori meccanici, tutti ciechi, o almeno miopi. Curioso, non si accenna a interventi della Provvidenza, pare il retaggio di una visione illuminista.

Resta però una domanda importante: perché la maggioranza non discrimina tra valori così diversi come estremismo e moderazione? A questo Manzoni non risponde, se non che ricercano l’occasione per provare l’uno o l’altro sentimento: detestare o adorare. Prevale l’iperonimo: provare una passione forte, qualunque essa sia. Ci ritroviamo il mondo d’oggi? Direi di sì. La stessa massa può recarsi a un concerto per adorare una pop star e a una manifestazione politica dedicata al ‘vaffanculo’, nella quale si detestano in coro i politici. Qui però si manifesta un accostamento improprio del testo manzoniano: l’adorazione non è certo moderazione. E’ solo un fanatismo unitivo di contro a un altro oppositivo.

Restando nei paraggi del testo citato (non ho la possibilità di estendere l’indagine a tutto il romanzo) cerchiamo altri elementi utili all’indagine.

Nel racconto, i moderati compaiono distinguendosi dagli estremisti, ma comunque in seno alla massa ribelle o che alla ribellione fa contorno. Renzo però è uno di essi, e la sua trasformazione può essere utile. All’inizio della scena dell’assalto alla casa del vicario, Renzo è un moderato. Al punto che rischia di essere assalito dai facinorosi (i fanatici), quando apostrofa “il vecchio mal vissuto” che propone di uccidere il vicario. E’ attratto e incuriosito dalla rivolta, ha le tasche piene di pane proveniente dal saccheggio, quindi è in parte congiunto con la sommossa, sia pure in modalità ‘liquida’, ma rifugge dalla violenza contro le persone e dall’omicidio. Manifesta il ‘timor di Dio’, che lo caratterizza per tutta l’opera. All’arrivo di Ferrer in carrozza, in Renzo si opera una trasformazione: diventa attivo, si schiera con coloro che difendono e esaltano il cancelliere per il calmiere del pane. E’ un riformista, negli anni ‘70 si sarebbe detto socialdemocratico. La sua conversione, però, è quasi casuale. I sostenitori di Ferrer sono populisti giustizialisti: infatti sono due i motivi che portano a giustificazione del loro sostegno al cancelliere: il calmiere e la speranza (spacciata dall’astuzia di Ferrer per certezza) che egli viene per portare in carcere il vicario. E Renzo, ricordandosi che aveva sentito leggere “vidit Ferrer” da Azzeccagarbugli, in calce ad alcune grida, ed avendo ricevuto rassicurazione che si tratta di un galantuomo (“È un galantuomo, n’è vero?” “Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.”), subito si schiera con i fan del funzionario spagnolo.

Le motivazioni della scelta di Renzo sono dunque entrambe basate su fake news (il calmiere non è stato dettato a Ferrer da considerazioni di tipo morale o sociale ma solo da problemi di ordine pubblico, e non ha nessuna intenzione di portare in carcere il vicario) e la firma delle grida è un segno di distinzione legato al rango del personaggio e non a una sua posizione etica. Tuttavia, il promesso di Lucia è dalla parte dei meno violenti, e quindi per Manzoni è massa ‘buona’. L’autore modello, qui come altrove nel romanzo, non riesce a celare (da buon protodemocristiano) l’opinione che ciò che conta è tenere calme le classi inferiori, non dire loro come stanno le cose. E dunque, l’equivalenza, l’assiologia estremisti VS moderati, scelte ugualmente cieche (anzi, abbiamo visto che gli estremisti sono gli unici ad avere dei disegni, dei propositi) tra le quale la massa ignorante oscilla per motivi aleatori, propende verso il polo moderato, ma non nel comportamento della massa, bensì solo nella visione dell’autore modello.

Se vogliamo avanzare un’ipotesi, possiamo basarla sui due attori che impersonano la moderazione e l’estremismo, e che sono gli unici della folla ad avere fattezze figurative. Renzo da una parte e il ‘vecchio malvissuto’ dall’altra. E la discriminazione tra le due posizioni pare derivare da una causa più remota ma non per questo meno aleatoria: se il vecchio è vissuto male (si potrebbe dire che è stato plasmato malamente dalla società), Renzo è vissuto bene, è un bravo ragazzo. Tuttavia, la causa che determina il loro valore etico si sposta solo a monte, non viene spiegata. Resta esterna alla ragione del soggetto. In Manzoni, d’altra parte, il libero arbitrio è sempre affermato, così come vuole la religione cattolica, ma le vicende della vita esercitano spinte alle quali non sempre è facile opporsi, come nei racconti di Fra Cristoforo, della monaca di Monza e dell’Innominato.

Adorare infine è meglio che detestare, la moderazione è meglio dell’estremismo, anche se entrambi i comportamenti sono derivati da ideologie strumentali, guidati da impulsi inconsci. Vi è un naturalismo di fondo che muove i personaggi manzoniani, probabilmente intrinseco alla forma romanzo così come nasce in occidente.

Il naturalismo, come si è visto, si associa a un certo meccanicismo. La folla, la società, si muove come una grande macchina, un sistema, potremmo dire, nel quale la visione complessiva è negata al singolo, o almeno a chi fa parte della massa3. Tornando alla metafora che associa questo testo al presente, se la sviluppiamo fino a conclusione, ne risulta un misto di cinismo e civismo (Lacan trarrebbe forse un senso dalla somiglianza dei significanti).

Da una parte il populismo si rivela una narrazione effimera e perdente, capace solo di agitare la massa ma senza poterla soddisfare per la propria fallacia pragmatica e logica (l’abbondanza è illusoria, è solo una finzione, le regole del mercato e i poteri della classe dominante prevalgono). Ma dall’altra la moderazione è una narrazione consolatoria, qualcosa che si promuove per tenere buono il popolo. Il cinismo è nel dire che ciò che si può scegliere è solo se oscillare drammaticamente tra abbondanza e carestia (le elargizioni populiste e i conseguenti dissesti) o assestarsi su una inevitabile polarizzazione sociale (il controllo degli eccessi popolari). Il civismo è nel riconoscere che, tra le due scelte, la seconda è meno violenta, meno gravida di odio e rancore e più capace di migliorare lo stato delle cose. E forse (anche se questo non so se Manzoni lo ritenesse importante) anche di ridurre le menzogne che vengono usate per dirigere il popolo.

1 In questo credo che il populismo vada distinto dal totalitarismo in quanto il secondo ha obiettivi chiari, anche se spesso non espliciti, e un modello di società ideale. Il primo ovviamente può trasformarsi nel secondo, e il secondo possiede spesso caratteristiche del primo, sia pure non dominanti.

2 Sarebbe interessante su questo punto un’analisi dell’atteggiamento del populismo verso i numeri. L’ipotesi è che nel linguaggio populista i numeri siano accettati solo quando sono magnificatori del potere del soggetto (“Cacceremo mezzo milione di immigrati” https://www.huffingtonpost.it/2018/01/23/salvini-cacceremo-mezzo-milione-di-immigrati_a_23340743/ Ci sono tot miliardi per i vari programmi del governo https://www.nextquotidiano.it/di-maio-soldi-tria/. Quando i numeri sono invece intesi come misure precise di qualcosa, ecco che vengono sminuiti, e i miliardi vengono espressi, quasi come se fosse un diminutivo, come decimali (https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13404099/manovra-salvini-di-maio-aprono-su-deficit-con-europa-non-e-questione-decimali.html). In ogni caso, i numeri vengono destituiti della loro funzione di misura quantitativa, e diventano meri operatori retorici. Questa operazione rientra nel quadro più generale della comunicazione populista, che mira sempre a distaccare il discorso dall’esperienza, a usarlo non come mezzo per conoscerla e rappresentarla, bensì come strumento per manipolarla e nasconderla.

3 In generale, si vedano soprattutto le descrizioni storiche delle guerre e della peste, Manzoni non assegna mai a un personaggio la visione lucida e completa di una situazione, delle sue cause e dei suoi effetti. Ognuno si muove seguendo i propri obiettivi e principi, quali più egoistici e terreni, quali più nobili e santi, ma nessuno possiede l’onniscienza eroica che si trova in altri romanzi dell’ottocento.

Da Andreotti a Di Maio: la comunicazione politica ieri e oggi

Farà sicuramente parte degli abiti acquisiti dai semiotici quello di vedere opposizioni ovunque, dunque qualche volta anche sforzate, ma quella che mi balza agli occhi in queste settimane in cui in Italia si cerca di formare un governo mi pare solare.

Penso infatti al contrasto tra le trattative della cosiddetta Prima Repubblica e quelle attuali, per come si relazionano con i media e per le logiche argomentative e i contratti di veridizione che prevalgono.

Ieri

1. Un tempo le trattative erano quasi segrete, a volte segrete per davvero; i comunicati dei partiti erano stesi in un linguaggio oscuro che veniva interpretato dagli specialisti. Nessun segretario di partito si sarebbe mai spinto a fare la profferta di un’alleanza in televisione o su un giornale. Le trattative avvenivano privatamente, e solo a contratto stipulato si facevano dichiarazioni alla stampa. Il resto era ammantato dal mistero e oggetto di ipotesi, congetture, rivelazioni più o meno attendibili.

2. Quanto alle logiche, vi era una larga porzione di implicito che non veniva neppure sollevato, ma che era assodato. Si trattava di una cultura nella quale si riteneva sconveniente anche la semplice sottolineatura dei rapporti forza. I segretari della DC e del PCI non si sarebbero mai autodefiniti ‘capo politico’ o ‘leader’. Queste ostentazioni sarebbero apparse ridicole. Il segretario era eletto dal congresso del partito, e rispondeva regolarmente agli organi dirigenti. Il PCI, per tradizione, aveva segreterie di ferro, in diversi casi interrotte solo dalla morte, ma mai e poi mai un comunista si sarebbe arrogato la definizione di ‘leader’ o ‘capo’. Inoltre, nessuno si sarebbe mai permesso di definirsi ‘candidato premier’. La Costituzione era data per nota. L’Italia era (ed è) una repubblica parlamentare, e il presidente del Consiglio dei ministri non viene eletto direttamente. Allo stesso modo, le dimensioni della rappresentanza erano note e per questo taciute. Mai un democristiano aveva bisogno di dire “Siamo il primo partito italiano”. Lo sapevano tutti, come sapevano che era il partito di maggioranza relativa, che non avrebbe mai potuto governare da solo.

3. Altro punto erano la posizioni esplicitate. Si trattava ancora di una cultura nella quale la parola ufficiale di un dirigente di partito, esprimente una posizione a volte faticosamente raggiunta dopo discussioni e mediazioni interne, aveva comunque una sua solidità. Anche perché nessun leader era un capo assoluto, neppure nel PCI o nel MSI, ufficialmente i partiti con riferimenti ideologici più autoritari. Non parliamo della DC, divisa in innumerevoli correnti e sempre attraversata dal farsi e disfarsi di alleanze e consorterie.

Diciamo che c’era una decisa divisione tra uno spazio privato, interno, che era quello degli organi dirigenziali dei partiti, e lo spazio pubblico, da una parte dei congressi, e dall’altra delle istituzioni.

Questo era dovuto anche a un sistema mediatico molto più ridotto (due-tre reti TV generaliste pubbliche, e poi pian piano le TV Mediaset, a partire dagli anni ‘80), niente internet, le prime radio private in FM. Quotidiani e settimanali erano più o meno come ora, però più autorevoli. I quotidiani di partito erano molto più letti. Tuttavia, non erano i media a manipolare la politica, tutt’al più il contrario. Per dare alcuni esempi, trovate qui sotto tre testi tratti da trasmissioni politiche RAI. Appare abbastanza evidente come il discorso dei politici sia più o meno di tipo parlamentare o comiziale, sommesso, controllato e basato sul registro verbale. Si noti che Aldo Moro addirittura legge il suo discorso, cosa oggi inconcepibile. A parte le osservazioni vane su come cambiano i tempi, leggere un testo scritto implica che lo sia sia scritto, dunque ponderato e corretto. Implica una riflessione. Le dichiarazioni twittate o dette a una videocamera, di poche parole e senza preparazione apparente, non per questo non possono essere preparate e persino discusse, ma l’effetto è di enunciazioni rapide, improvvisate, sparate sul momento.

Oggi

Oggi, in seguito a un processo di progressiva trasposizione della politica sui media, in particolare la TV generalista e internet, i tre punti sopra elencati si sono rovesciati, e lo si evidenzia chiaramente dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018.

1. Le trattative segrete sono ovviamente sempre praticate, ma vengono spesso anticipate da dichiarazioni pubbliche, o interviste, a volte estremamente dettagliate. Vi è una specie di esibizionismo comunicativo, del quale spesso si è parlato a proposito dei reality show. Si tratta di un impulso socio-psicologico che si contrappone al pudore e alla privacy e che i nuovi media hanno riportato alla luce. D’altra parte, si può supporre che l’eccesso di rappresentazione sia per i leader anche un modo di scrivere le loro affermazioni in una sorta di registro mediatico, proprio perché si trovano ad agire in un ambiente molto più insicuro di quanto appare. La tendenza a formare partiti personali, e a dare loro l’aspetto di organizzazioni verticistiche, nelle quali vige il Führerprinzip, è di fatto mera apparenza. In ogni organizzazione politica, in particolare quando una parte dei membri è eletta dal popolo, sono ovviamente necessarie mediazioni. Questo è ancor più vero per le coalizioni, che si reggono su contratti fiduciari. Ma soprattutto, la caduta delle fedeltà ideologiche consente spostamenti intra e inter-partito, scissioni, cambi di gabbana, smentite e ribellioni quasi incontrollabili. L’espulsione dal partito, un tempo pena ignominiosa, oggi fa ridere. Al punto che formazioni come i 5stelle hanno introdotto ammende monetarie (non propriamente costituzionali, probabilmente) per assicurare la disciplina di partito. Le esternazioni mediatiche, riservate al leader a causa del personalismo dei media visuali, rappresentano anche un modo per fermare dei punti prima e indipendentemente dal confronto interno.

2. Le argomentazioni mediatiche oggi adottate sono anch’esse molto diverse dal passato. Oggi i rapporti di forza sono da una parte continuamente ribaditi (“Siamo il primo partito”, “Abbiamo avuto 11 milioni di voti”; “Siamo la prima coalizione”, “Abbiamo il maggior numero di elettori”, “Abbiamo perso” “Siamo all’opposizione”), dall’altra appaiono svanire quando si viene ai fatti.

I ragionamenti che giustificano le scelte tattiche (quelle strategiche sono assai incerte) sono assenti, i leader o capi non motivano le loro decisioni. Le trattative tendono ad essere presentate come “contratto”, “punti del programma”, e predominano semplificazioni del tipo “fare cose buone”, “fare il bene del Paese”, che in sostanza non hanno alcun significato pratico.

Se il quadro del passato era quello di un sistema chiuso dentro le mura dei partiti, soggetti impenetrabili e impermeabili, quello di oggi appare un sistema in cui modelli ultra-semplificati vengono continuamente ri-enunciati, ribaditi, ma la forza dell’enunciazione maschera un grande vuoto dell’enunciato. Fuori dal gergo semiotico, si parla a voce alta ma non si dice niente. Se la retorica della Prima Repubblica era quella di una classe politica consociata e imbalsamata ma fermamente al potere, a fronte di un’opposizione che non poteva governare, quella di oggi appare come un’esibizione rituale di forza animalesca priva di efficacia.

3. Per quanto riguarda le logiche dei contenuti politici, la situazione attuale è in apparenza quella di perdita di coerenza e di una cancellazione delle norme di comportamento codificate. A parte le espressioni (come invitare gli avversari politici a “pulire i cessi”, impensabili anche nelle più accese tribune politiche), le alleanze e gli impegni sembrano non creare vincoli e le promesse nascere già destinate ad essere infrante. Si può invitare apertamente un partito a rompere un’alleanza, si può cambiare un programma anche nei suoi punti più significativi, si può pretendere apertamente la presidenza del Consiglio in assenza di qualsiasi supporto costituzionale, si può dire il contrario di quanto si è detto il giorno prima, si possono dichiarare trattative chiuse per sempre e riaprirle il giorno dopo. Si può proporre apertamente al Presidente della Repubblica di ricevere un incarico per presentare un governo alle Camere, sapendo di non avere la fiducia ma per gestire il periodo pre-elettorale. Questo sistema genera un effetto generale di fuzzyness, le posizioni politiche diventano sempre più nebulose, prive di un profilo preciso, ai leader restano solo una voce e una faccia, ma progressivamente si svuotano di sostanza. Nella (cosiddetta) prima repubblica, i programmi di governo erano vaghi, ma i principi generali erano granitici (per esempio, la DC era per la NATO e con gli USA, il PCI era per l’URSS e anti-atlantico) e le promesse clientelari (stipulate sottobanco o quasi) generalmente rispettate. Lo Stato era occupato da una maggioranza eterna che si poteva permettere anche azioni illegali, quando giustificate dalla ragion di stato.

Ora pare che né i principi né le promesse abbiano consistenza. I contenuti dell’agenda politica si manifestano emergendo senza preparazione né preavviso e le decisioni sembrano venir prese in una quasi totale dipendenza dalla circostanza del momento.

Conclusione

In generale, considerando l’esistenza della Repubblica Italiana di circa settant’anni, si può tracciare una demarcazione tra un primo periodo nel quale la sicurezza atlantica è stato il punto fermo e imposto dal controllo internazionale, e un secondo periodo nel quale la sfera di appartenenza prioritaria è diventata quella europea, ma il vincolo non è stato imposto in modo così deciso. Il primo periodo ha avuto il suo momento di crisi nel 1978, con il PCI a un passo dal governo, sventato dall’avvento di Craxi e dall’operazione Moro. Il secondo ha il suo momento critico nel 2018, in questi mesi, con i partiti populisti anti-europei sulla soglia di Palazzo Chigi. Gli attori in causa e i metodi non possono più essere gli stessi, e le decisioni non vengono prese sulla base di equilibri geopolitici da apparati civili/militari. Ora sono i soggetti finanziari, già intervenuti nel 2001 in una situazione simile, quelli che possono prendere l’iniziativa. I prossimi mesi ci diranno cosa accadrà. I lettori considerino però che il distacco dell’Europa dalle vicende italiane spesso è solo apparente, e raramente disinteressato. L’Italia fu fortemente sollecitata dagli altri stati europei, prima ad entrare nel sistema monetario e poi nell’Euro, per evitare che il suo sistema industriale si avvantaggiasse di una valuta più debole. Ora il problema è superato in quanto il nostro sistema industriale è stato decisamente ridimensionato, ma è impensabile che i partner europei non siano consapevoli della perdita di PIL italiano nei loro confronti (dal 2000 è stata del 23,6% vedi), vale a dire del vantaggio competitivo che hanno acquisito. Il governo francese si sta dolorosamente preparando alla fine del Quantitative Easing, l’Italia è ferma, immobile, addirittura a rischio di governi che dichiarano di voler accrescere la spesa pubblica. Aspettare ancora a sollevare a Bruxelles il tema della guerra economica interna alla UE e della necessità di limitarla è sempre più pericoloso.

Questi punti sono poco più che ipotesi, che andrebbero verificate con una ricerca più solida. Possono essere utili per avere un quadro più ampio del presente e una conoscenza più approfondita del passato.

Alcuni link, reperiti con una prima selezione:

https://www.youtube.com/watch?v=W-YQmv9hWM4 (Berlinguer 1972)

https://www.youtube.com/watch?v=2S8OrXwYIN0 (Almirante 1975)

https://www.youtube.com/watch?v=fB-W9GNVe_o (Moro 1976)

https://www.youtube.com/watch?v=thHL4_EIQGA (Di Maio 6/5/2018) (Annunziata)

Il centrodestra propone di andare in Parlamento senza un accordo: http://www.la7.it/laria-che-tira/video/matteo-salvini-in-diretta-dal-quirinale-conto-di-trovare-una-maggioranza-07-05-2018-240940

Nutella e catastrofi

Quando i semiotici discettano di effetti della comunicazione spesso si concentrano sui cosiddetti ‘effetti di senso’, che vengono per lo più intesi come spostamenti o variazioni nel sistema semantico-pragmatico dei valori, o enciclopedia individuale, collettiva, ecc.

Se si parla di costruire brand equity, di valori della marca, in genere si sottolinea come si tratti di processi a lungo termine, di abiti costruiti in anni di comunicazione costante e coerente.

Circola inconsapevolmente un’idea della brand come qualcosa di etereo, astratto, che al massimo viene influenzata dalle varie brand experiences che il consumatore può vivere.

E’ sempre uno shock quando la brand diventa il driver di comportamenti di massa improvvisi e incontrollati. E’ questo il caso di un supersconto sulla Nutella lanciato dalla catena francese, che vedete documentato in questa pagina web di Le Progrèshttp://www.leprogres.fr/loire-42/2018/01/25/la-guerre-pour-du-nutella

Uno sconto promozionale del 70% ha evidentemente rimosso un ostacolo di prezzo che calmierava l’acquisto della famosa crema di nocciole. Nutella è un prodotto a lunga conservazione, e il lotto scontato era ad esaurimento, dunque la congiungimento con l’Oggetto di Valore era, come si usa dire, first come first served. Valeva dunque la pena acquistare diverse confezioni contemporaneamente. Evidentemente Nutella è stata in grado di superare il nazionalismo alimentare dei francesi e si sono scatenate scene drammatiche, documentate anche sul sito della BBC: http://www.bbc.com/news/world-europe-42826028

Di solito riporto sempre casi di questo genere quando insegno comunicazione commerciale, per chiarire che il messaggio di marketing non è necessariamente un oggetto semiotico allusivo e complesso. Non sono solo i raffinati fashion movies di Chanel a muovere il mercato con lente e potenti strategie di brand, ma un semplice volantino stampato a grandi caratteri può mettere in moto ondate di acquisti spasmodici. Sono casi esemplari nei quali una leva, quasi sempre il prezzo, viene applicata con forza (il 70% di sconto) e scatena il potenziale di appeal in questo caso dell’etichetta, non del brand corporate (non sarebbe la stessa cosa con qualsiasi prodotto Ferrero). Ma è sempre la forza della brand che scatena l’energia esplosiva dei comportamenti.

Considerando l’evento da un punto di vista più generale, come fenomeno sociale, è interessante perché ci fa capire quanto sono elevati i potenziali latenti delle marche commerciali. Non sempre siamo in grado di rilevarli perché le relazioni tra prezzo-distribuzione-frequenza di acquisto-potere d’acquisto si situano in una omeostasi controllata e costante. Vale a dire che il consumatore di Nutella la acquista senza dover attuare comportamenti anomali perché ha sempre lo stesso prezzo, la trova in certi punti vendita, la consuma entro parametri normali e può permettersi di comprare la quantità che mediamente usa. Ma sotto i comportamenti regolari scorrono per così dire le correnti libidiche che legano il consumatore al prodotto, e che hanno potenziali molto variabili. Il produttore in qualche modo può inferire quanto una label sia sexy attraverso diversi strumenti di analisi del consumer behaviour, ma questi esperimenti sono sicuramente verifiche significative.

Di qui si potrebbe partire per una analisi semiotica della Nutella, ma preferisco linkare un vecchio film del 1974 di Dušan Makavejev, indicando la sequenza della cioccolata, che inizia a 1.30.33 https://www.youtube.com/watch?v=Ue_0lDD3MpY

In conclusione, è evidente che il consumo di massa rappresenta tuttora un ambito che incanala impulsi solo in apparenza moderati. Aggressività e competizione sembrano essere controllate dalle norme sociali solo superficialmente. In sostanza il regime di ‘abbondanza per tutti’ della società dei consumi non pare da solo capace di garantire una vera assimilazione dei principi di tolleranza e reciproco rispetto, spesso considerati conseguenze naturali del benessere. E’ solo una tregua nell’homo homini lupus,  basata sull’accesso equanime a un vasto insieme di risorse. Sospettare che un restringimento anche minimo di questo accesso, cioè un’ineguaglianza che ecceda una data soglia, possa portare a drammatiche tensioni sociali, non sembra oggi un pensiero così peregrino. Verrebbe da dire che il passaggio da integrazione ad apocalisse è probabilmente descrivibile come una catastrofe. Ovviamente nel senso di Thom (https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_delle_catastrofi).

 

 

Sull’origine delle fake news e la corsa alla loro repressione

  È da leggere questo approfondimento della BBC (http://www.bbc.com/news/business-42769096) che ricostruisce sinteticamente l’origine del termine ‘fake news’, e spiega almeno una delle filiere di produzione. È curioso come l’economica digitale abbia favorito il sorgere in luoghi periferici del mondo, solitamente a basso reddito, colonie che si dedicano ad attività illegali o para-legali ricompensate dai proventi generati dalla rete. In Africa si trovano località che vivono di ricatti sessuali sul web (http://www.bbc.com/news/magazine-37735369). Il servizio proviene da una fonte accreditata, la BBC, ma certamente gli adolescenti macedoni non possono essere l’unica fonte di disinformazione.

C’è comunque un aspetto da tenere presente nella questione fake news. Spesso le fonti di queste notizie ‘false e tendenziose’ sono gruppi spontanei o singoli, magari privi di scrupoli e avidi, ma comunque estranei a ogni forma di organizzazione e non costituiti come imprese. La rete ancora oggi consente a qualsiasi soggetto di condividere contenuti alla pari (o quasi) di grandi organizzazioni. Questo non piace affatto a tali organizzazioni. È noto come i grandi editori di news tentino in ogni modo di salvaguardare il loro profitto nel grande tramonto della carta stampata. Tra i tanti argomenti a loro favore c’è la professionalità della produzione di informazione. Che comporta dei costi. Mandare una persona nel posto dove accadono i fatti è ancora oggi il modo più sicuro di capire che cosa succede. Le notizie, prima di essere pubblicate, devono essere verificate da almeno due fonti indipendenti. Ecc. Gli argomenti a favore di una libera diffusione dell’informazione, tuttavia, non sono meno validi. È vero che il rischio di avere informazione inaccurata, incompleta, mal confezionata e persino falsa, è molto maggiore quando la fonte è incontrollabile o addirittura anonima. Ma è un rischio minore di quello di un sistema di informazione completamente controllato dai cosiddetti vested interests. Il giornalismo è spesso un’attività che si scontra con interessi potenti. Prendiamo il caso dei Panama Papers (https://panamapapers.icij.org/ ): la gestione di un dossier così scottante fu passata subito da Süddeutsche Zeitung all’ International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) (https://www.icij.org/), anche per avere più forza nell’analizzarlo e pubblicarlo.

Stiamo quindi attenti a partecipare alla lapidazione dei produttori di fakes, e all’allarme contro il malvagio Putin, o alla paura di trovarci a fianco di Trump. Qualcuno soffia sulla ‘caccia alle fakes’ perché vuole frenare o bloccare la parità di accesso alla rete. Qualcuno vuole introdurre sistemi di ‘certificazione’ o di ‘controllo’ sui produttori di contenuti. La semplice introduzione di gerarchie fisse nei motori di ricerca o in social come FB, basate su (per ipotesi) essere o meno una testata accreditata, porterebbero all’esclusione di fonti indipendenti, non ‘certificate’.  I signori della rete, come Zuckerberg, sono chiamati a decisioni molto difficili. Prima di criticare è bene riflettere. Oggi alcuni governi democratici sono tacitamente invidiosi dell’internet ‘alla cinese’, vale a dire completamente controllata dallo stato.È chiaro che nessuno sa cosa fanno precisamente la CIA o l’NSA con l’internet ‘all’americana’ (quindi con la rete tout court), ma i twitter di Trump hanno almeno un aspetto positivo: o veramente non esiste un filtro tra il Presidente USA e il pubblico, oppure è stata montata una sceneggiatura da Oscar. Sarò ingenuo, ma ancora propendo per la prima ipotesi.

Le fake news e il loro ambiente

La UE in armi contro le fake
Mercoledì 17 gennaio 2018 il Parlamento della UE a Strasburgo discuterà in seduta plenaria sull’influenza della propaganda russa nei paesi UE e i suoi supposti tentativi di influenzare le elezioni in alcuni stati membri attraverso l’uso della disinformazione. https://multimedia.europarl.europa.eu/en/russia-influence-of-propaganda-on-eu-countries_I149371-A_a

Non è dunque fuori luogo che il dizionario Collins abbia scelto come ‘parola dell’anno’ del 2017″fake news”, come riporta la BBC (http://www.bbc.com/news/uk-41838386). La definizione del Collins è “informazione falsa, spesso sensazionale, disseminata sotto le spoglie di notizia di stampa (news reporting)”. “L’espressione -continua BBC- è associata con dichiarazioni del Presidente Donald Trump quando se la prendeva con i media”.

L’interesse semiotico per il concetto è evidente: tutto ciò che serve a mentire è affar nostro, secondo la famosa affermazione di Eco. Proviamo allora a riflettere sinteticamente sul fenomeno.

Che la menzogna, abbia le gambe corte o meno, sia cosa antica quanto l’uomo è innegabile. Ci sono però molte categorie di menzogne. Fake news, nello specifico, è messaggio ‘disseminated’, propagato ad arte, non semplice bugia in risposta a domande scomode. Le menzogne diffuse per un disegno, ben preciso o genericamente mirato, sono strumenti che il mentitore adopera per procurare danno agli avversari e vantaggi a sé e la sua parte.

Fake News e Gossip
Non si devono confondere fake news e pettegolezzo. La differenza può sfuggire, perché spesso la fake si maschera da gossip. Vengono rivelati affari privati di persone importanti che (si presume) esse non vorrebbero far sapere. Ma sono falsi. Quando riguarda un personaggio, dunque, la fake è equivalente alla calunnia o diffamazione a mezzo stampa. Assieme alla calunnia, tuttavia, viaggia anche la sorella, l’adulazione, che viene in genere stigmatizzata nelle dittature e nelle democrature, dimenticando i servizi elogiativi su questo o quel politico che compaiono su magazine e siti web di paesi democratici, le raffinate photoshoppature dei manifesti elettorali, le interviste inginocchiate di giornalisti e host televisivi compiacenti.

Calunnia o adulazione, il gossip non è fake news. Esse però lo parassitano, si mascherano con la sua effigie. La diceria in cui consiste il pettegolezzo (sul quale mi permetto di rinviare a “Per una semiotica del gossip”, in Gossip. Moda e modi del voyerismo contemporaneo, BUP 2010) non è fake news, in quanto il valore del pettegolezzo è nella sua autenticità. Il gossip fiorisce proprio quanto più rivela aspetti veri, per quanto spiacevoli, di una società che li cela. Il gossip può a volte essere calunnia, diffamazione, maldicenza, ma non può esserlo sempre o a lungo. Infatti, nel momento in cui l’iniziatore del pettegolezzo mente, la rete dei pettegoli si divide in chi inganna e in chi è ingannato, e se colui che rivende una notizia falsa senza sapere che è falsa viene sbugiardato, rompe il legame di fiducia con il propagante e cessa di ascoltarlo o comunque di propagare le sue notizie. Siccome il gossip si basa sulla diffusione riservata dei messaggi in una rete sociale, la rottura del contratto fiduciario distrugge una porzione della rete. Per questo il pettegolezzo preferisce l’iperbole, la deformazione, alla menzogna tout court. Questo non toglie che porzioni di una rete di gossip possano dedicarsi, per un certo tempo e con un certo numero di complici, alla denigrazione o al mobbing.

Fake News e mass media
Avendo provato a definire come fake e gossip si distinguono e si mescolano, è però necessario allargare l’orizzonte ai media, in quanto le fake sono solo un fenomeno mediatico, mentre il gossip esiste sia nei gruppi sociali sia su media ad esso dedicati.

Le fake news come fenomeno mediatico si rifanno certamente alla propaganda, politica o bellica, definibile come “tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto.” (http://www.treccani.it/enciclopedia/propaganda/). La propaganda, tuttavia, non è necessariamente menzognera, anche se il termine implica comunque “un certo grado di occultamento, manipolazione, selettività rispetto alla verità” (ib.). In situazioni di forte contrapposizione tra parti, come guerre, conflitti sociali e politici o campagne elettorali, l’intensità e la falsità della propaganda tendono ad aumentare, in ossequio al tanto criticato ma altrettanto praticato assioma machiavelliano sul fine e sui mezzi. Durante la prima guerra del Golfo CNN produsse probabilmente notizie del tutto false (https://www.youtube.com/watch?v=jTWY14eyMFg), ma praticamente tutte le guerre sono accompagnate dalla propaganda. Allo stesso modo, le campagne di disinformazione hanno attraversato tutti i decenni della guerra fredda, e continuano tuttora, trovando nella rete un ambiente particolarmente adatto. Non c’è molto da meravigliarsi se la Russia attua o favorisce campagne di informazione in rete: Putin viene dal KGB sovietico, che è l’inventore della dezinformatzija (https://it.wikipedia.org/wiki/Disinformazione), validamente emulata dai servizi occidentali.

La rivoluzione dell’accesso
Le fake news, soprattutto, nascono e vivono nella rete, e il loro impatto è dovuto al cambiamento epocale che il “news report” ha subito nei processi produttivi, distributivi e ricettivi dell’informazione. Dalla nascita dei mass media all’avvento di internet le notizie erano tali perché provenienti da una fonte che corrispondeva a un’organizzazione; oggi invece non solo le fonti si sono moltiplicate immensamente, ma si sono polverizzate fino a corrispondere, in molti casi, a iniziative individuali. Blogger, youtuber, social networker anche molto famosi, sono spesso singoli individui, che danno vita a organizzazioni se e quando i profitti lo permettono. Non solo, ma creare un sito web o un account corrispondente a una qualsiasi pseudo-organizzazione è facilissimo. Le fonti delle notizie possono apparire e scomparire nella rete come bollicine nell’acqua.

A questo si aggiunga che gli oggetti digitali (testi di qualsiasi tipo) si possono duplicare infinitamente senza perdita di qualità, e in gran parte si possono anche manipolare senza lasciare traccia o quasi. Immagini e video possono essere ritoccati e alterati molto facilmente, rendendo possibile la trasformazione di una notizia vera in fake, l’assemblaggio di falsità e verità, la mimetizzazione delle fonti, e altri trucchi.

Dal lato della ricezione, quindi, non c’è da meravigliarsi se troviamo una grande confusione nella validazione delle fonti. Il pubblico generico non è stato educato ad analizzarle e giudicarle, forse anche perché i pochi grandi emittenti non avevano molto interesse a farlo. La diffidenza nei confronti dei media ‘ufficiali’, quindi, non si è diffusa nell’opinione pubblica solo a causa dei tweet di Trump o della propaganda putiniana o nordcoreana, ma in parte è giustificata da casi evidenti di produzione di notizie false e di un generalizzato uso dello spin e dell’agenda setting a vantaggio dei punti di vista degli emittenti e dei loro stake holders.

Echo chambers e nebulizzazione delle fonti
Tutti questi fattori, e altri, hanno contribuito a creare una situazione di confusione nella quale il post proveniente da una fonte ignota o da un passaparola assume la stessa o maggiore validità di quello di un autorevole quotidiano. Il fenomeno delle echo chambers (https://en.wikipedia.org/wiki/Echo_chamber_(media)) è legato alla tendenza di ogni individuo ad aggregarsi ad altri che la pensano in maniera analoga, ma si fonda anche sulla costante svalutazione dell’autorevolezza dei media ‘ufficiali’. E non è un fenomeno del tutto nuovo. Negli anni 60-70, in Italia e non solo, gli ambienti alternativi avevano costruito reti di controinformazione che si ponevano proprio come fonti alternative ai poteri dell’informazione. Di conseguenza la nozione di informazione si è dilatata fino a perdere la precisione del contorno: oggi la notizia è quello che un utente riceve dai canali news ai quali è connesso abitualmente, o in risposta a stringhe che digita su Google. Se non ha una competenza specifica sulla qualità e tipologia delle fonti, sulla produzione di notizie e sulle tecniche di manipolazione, se non ha il tempo e l’attitudine per il debunking, il suo sistema di opinioni e credenze rischia di essere colonizzato da credenze false fino al ridicolo. Sia detto per inciso, la formazione liberal, laica e politically correct, che si astiene dall’insegnamento di principi ideologici, etici o tradizionali, se non è accompagnata da una rigorosa educazione alla critica razionale, alla logica argomentativa, alla retorica e alle strategie di propaganda, non fornisce alla persona gli strumenti per formare adeguatamente la propria opinione. Il saggio “Come rendere chiare le nostre idee”, di Charles Peirce, a mio parere uno dei più bei testi mai scritti su questo argomento, oggi è ancora pienamente attuale.

Siamo tutti broadcaster
La storia dei media, dalle affissioni alla TV generalista, è stata quella di una continua estensione dell’audience, fino alla ‘mondovisione’. La tecnologia dell’accesso praticamente consente a tutti i soggetti riceventi di essere anche emittenti: il costo di produzione e distribuzione dell’informazione si riduce in pratica a zero. Oggi non c’è nessun ostacolo tecnico a che un video prodotto in casa da un non professionista venga visto da un miliardo di persone.

In una tale situazione, un soggetto organizzato può, utilizzando alcuni accorgimenti informatici come i bot, piccoli programmi che simulano il comportamento umano, far arrivare una notizia di qualsiasi tipo a un gran numero di utenti senza rivelare la fonte. E’ l’ordine di grandezza che è cambiato: i partecipanti a una comunicazione personale di un privato cittadino, prima di internet, erano quelli ai quali poteva inviare una lettera o telefonare, al massimo poteva usare la pubblica affissione, stampare libelli o distribuire volantini, ma doveva sottostare a determinate regole ed era facilmente controllabile. Mentre scrivo, i followers di Donald Trump su Twitter sono 46,4 milioni, e queste persone sono a distanza zero -in termini di filtri- dallo smartphone del Presidente degli USA. Ma la distanza è la stessa per qualunque utente. E infatti, sotto i tweet di Trump è possibile leggere i commenti di chi è d’accordo e di chi non lo è, postare foto contro le sue proposte di legge e criticare quello che scrive. In genere i media tradizionali riportano solo i tweet del presidente, e quasi nessuno sottolinea come gli utenti rispondano a questi tweet, a volte anche in modo piuttosto veemente. Internet ha abbattuto la distinzione tra comunicazione di massa e comunicazione privata. Oggi l’individuo deve difendere la propria comunicazione privata dall’invasività di messaggi gestiti come media di massa. Non esiste più un canale totalmente riservato: call center e spamming hanno colonizzato i due canali one-to-one per eccellenza, telefono e posta. La messaggistica consente di selezionare i propri contatti, ma con difficoltà.

La condivisione dei contenuti è sempre più selettiva
In questo ambiente brulicante di informazione gli individui tentano naturalmente di costruire e presidiare reti di connessione personali, non sempre echo chambers. Molti hanno alcuni servizi dai quali ricevono notizie, e una rete più o meno ampia di amici, parenti e conoscenti che gli inoltrano informazioni e ai quali le inoltrano a loro volta. Ognuno assegna un grado di credibilità a ogni pezzettino di informazione, ma non solo. Anche un grado di piacevolezza, divertimento, ecc. Se ricevo news, ad alcune credo più che ad altre. Se ricevo barzellette, alcune mi fanno ridere più di altre. Il grado di credibilità assegnato dipende dalla competenza e dall’orientamento di ogni individuo. Il gradimento è un dato soggettivo, influenzato da molti fattori, individuali e circostanziali. Ma quanto la credibilità vale il gradimento. Se ricevo su WhatsApp una barzelletta pesantemente anti-governativa, specie se è allusiva o volgare, il gradimento può dipendere anche dalla mia posizione politica, e la scelta delle persone alle quali inoltrarla dipenderà anche dalla reazione che immagino possano avere. In una società nella quale il rispetto per le opinioni altrui è tale che la mera espressione delle proprie idee può essere considerata offensiva, si genera una pressione verso una condivisione dei contenuti selettiva: ognuno finisce per esprimersi liberamente solo con chi ritiene affidabile. Ancora una spinta verso le echo chambers. Uno spazio sociale chiuso entro i confini di un orientamento ideologico diventa terreno fertile per la disseminazione di fake news, anche involontarie.

Post-verità, militanza e terroristi del post
Verità e gradimento sono aspetti cognitivi ed emotivi, mentre la comunicazione, come la semiotica ha detto da tempo, possiede un fondamentale aspetto performativo. Non solo dice, ma fa.

Se affrontiamo infatti le fake news solo dal punto di vista della verità e della condivisione andiamo poco lontano: riusciamo a spiegare perché circolano, ma non perché si diffondono con tanta pervicacia e perché suscitano tanto allarme. Spesso si sente lamentare l’ignoranza delle persone, che continuano a far girare, per esempio, notizie false che gettano in cattiva luce la classe politica italiana e in particolare il governo. Il fatto è che a molti non interessa affatto se le notizie sono vere o false. Il desiderio di fare del male ai politici, specie se visti come espressione del potere, in quanto soggetti disonesti e incapaci che si arricchiscono con il denaro dei cittadini, prevale su ogni preoccupazione di verità. Siamo appunto nel dominio della post-verità, che infatti fu parola dell’anno del 2016 secondo l’Oxford English Dictionary (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). La post-verità è legata a una parola molto meno di moda: la militanza, così importante nella formazione ideologica dei partiti e di altre affiliazioni. Il militante non si deve chiedere se la notizia che gli viene chiesto di accettare e diffondere è vera, ma solo se giova al partito e nuoce ai nemici. Se un tempo la militanza avveniva entro i partiti e le organizzazioni, oggi ogni utente di uno smartphone è un potenziale partigiano nascosto che per qualche minuto al giorno compie i suoi piccoli atti di ribellione all’interno di un processo di massa. In realtà ognuno di noi è un terrorista dormiente del whatsapp… Molti messaggi diffusi nei social sono accompagnati da inviti espliciti: “E’ una vergogna, invia questo messaggio a più persone che puoi”, e altrettanto spesso si usano espressioni come “Non troverai questa notizia sui giornali e in TV, perché non vogliono farcelo sapere!” Si tratta di una facile profezia: dato che la notizia non esiste, o è stata deformata, non si troverà certamente da nessuna parte. Raramente queste notizie forniscono indicazioni su come avere una conferma dei fatti asseriti. Ma chi siamo ‘noi’? Chi è questo enunciatore implicito al quale i messaggi fanno appello? Quando viene descritto è generalmente raffigurato come ‘il trombato’, il contribuente salassato dal fisco, l’automobilista tartassato dall’autovelox, il lavoratore licenziato, in sintesi una vittima di un sistema opprimente in genere identificato con lo Stato o i politici che lo rappresentano.

In generale, la verità della notizia passa in secondo piano rispetto al suo impatto emotivo e pragmatico. Il singolo ricevente-emittente, indignato, si chiede semplicemente se il suo atto contribuisce alla lotta alla quale sta partecipando come guerrigliero dei social. Le fake news si diffondono perché ‘risuonano’ con un atteggiamento di rivolta, aggressività e protesta nei confronti di persone o istituzioni, non perché sono vere.

Strategie divisive
E’ evidente che in questa situazione vi sono molte opportunità per azioni strategiche di disinformazione. In occasione di elezioni, per esempio, la diffusione capillare e massiccia di fake news può effettivamente orientare la scelta di certi profili di elettori, dagli indecisi ai ‘decisori dell’ultim’ora’.

In generale, sono agevolate le strategie che si appoggiano su questioni divisive. Se troviamo un argomento, per esempio l’atteggiamento verso i migranti, che divide l’opinione pubblica in due parti comparabili, più o meno due metà, la strategia sarà di diffondere messaggi che rafforzano entrambe le posizioni. A un video che elenca stupri fatti da immigrati, corrisponderà d’altra parte la notizia di un gruppo di attivisti di ultradestra che prende a botte una coppia di colore. Il risultato è che il primo messaggio circolerà tra gli anti-immigrati, i quali trascureranno l’altro, e viceversa. Ma quello che è più importante in questo tipo di strategia è confondere la grande massa di chi non ha una posizione pregiudiziale. Chi cerca di avere un’opinione ragionevole si troverà nella necessità di ragionare, discriminare, costruire la sua posizione su distinzioni. Si produce così un modello di valori che contrappone idee nette ed emozionali (“Basta immigrazione! Fuori i clandestini!” VS “Bandire i neofascisti! Solidarietà e protezione per i migranti!”) a idee articolate e razionali (“Gestire e regolare l’immigrazione, ma garantire i diritti e la sicurezza di tutti”). Nel marketing si sostiene che i messaggi emozionali tendono a prevalere su quelli razionali. Sicuramente vi sono dati sperimentali che lo confermano, ma personalmente la vedo un po’ diversamente.

Cultura del desiderio e scelte emozionali
Ogni individuo e ogni gruppo prendono decisioni sia su basi razionali sia su basi emozionali, o mescolando le due motivazioni. Pensate a come fate la vostra scelta dal menu di un ristorante. Chiunque non abbia seri problemi mentali sa che le decisioni prese senza riflettere sono rischiose, anche se a volte gratificanti. Tuttavia le mode culturali sono molto influenti, e la nostra cultura è fortemente orientata a considerare la soddisfazione del desiderio l’obiettivo più importante della vita. E il desiderio di per sé è irrazionale, istintivo, libero, creativo e forse sovversivo. Ciò non toglie, tuttavia, che il desiderio sia anche fortemente influenzabile.

Molti di noi, per esempio, vorrebbero essere ricchi, perché in tal modo pensano che potrebbero prendere più decisioni d’impulso e soddisfare più desideri. Decidere in maniera più o meno razionale è un abito che dipende in buona parte dall’educazione e dall’ambiente in cui viviamo. Penso che dalla nascita e dallo sviluppo della società consumistica la spinta a prendere sempre più decisioni emotive sia aumentata notevolmente, non tanto per un immorale interesse dei grandi manipolatori (primo tra tutti il sistema pubblicitario) ma per il fatto che prendere decisioni impulsive ed emozionali viene collegato alla soddisfazione dei propri desideri. D’altra parte, mai una società era esistita nella quale l’unico ostacolo tra un individuo e qualsiasi bene o servizio disponibile fosse solo il denaro e il denaro stesso fosse ottenibile in tanti modi diversi e continuamente crescenti.

Se in una cultura, meglio ancora in una civiltà, l’atteggiamento verso il desiderio è questo, è determinato in modo speculare anche l’atteggiamento verso il suo opposto: il fastidio, la repulsione. Se ci riflettiamo un attimo, i prodotti che risolvono un fastidio sono pubblicizzati quanto e con gli stessi schemi di quelli che soddisfano un desiderio. E anche in questo campo non si può negare che enormi cambiamenti sono avvenuti. Dall’aria condizionata agli antidolorifici, dai deodoranti agli abiti confortevoli, sforzi immensi vengono fatti ogni giorno per risolvere i problemi dei consumatori e dei cittadini. Mi viene in mente una serie di cartoons della Disney la cui sigla si conclude ogni volta con le parole “…e il problema non esiste più!” Il leit motiv è insegnare al bambino che ogni problema si può risolvere con il ragionamento e i giusti strumenti. Entrambi però appaiono come per magia al momento giusto.

Purtroppo, materie come la logica, il decision making, la valutazione delle fonti (che persino un contadino che andava alla fiera a comprare una vacca sapeva fare…) non fanno parte dei curricula scolastici e non hanno molta audience in TV.

Vax e no-vax: un tema esemplare
Se non inquadriamo il problema delle fake news in questo orizzonte culturale epocale, non riusciremo a risolverlo. Uno dei terreni più insidiosi, per esempio, è quello delle vaccinazioni. Una vera guerra tra parti opposte è in corso in Italia e in tutto il mondo. Ma alla base vi sono due fattori fondamentali: la sfiducia nella sanità pubblica e l’ansia delle madri per la salute del proprio figlio. Il carattere statistico dell’efficacia delle campagne vaccinali e la complessità della relazione causa-effetto nella valutazione delle reazione avverse non consentono di semplificare a sufficienza la comunicazione, mancando le basi culturali nei riceventi. In particolare in Italia, metodo scientifico e teoria della probabilità restano materie estranee alla formazione scolastica. In tal modo l’echo chamber antivax è difesa da invalicabili muri di notizie di bambini vaccinati soggetti a patologie gravi e compromissione dei politici con le multinazionali dei farmaci, quest’ultime spesso non fake. E’ ovvio che le stesse mamme antivax si incatenerebbero davanti alle ASL se ci fosse un’epidemia di polio e i vaccini venissero lesinati o negati. Ma non c’è nessuna epidemia percepibile, e nessuno si è curato di introdurre la storia della sanità nei programmi scolastici, mentre i media sono pieni ogni giorno di notizie sulle grandi aziende avvelenatrici e inquinatrici. Quindi il terreno è fertile per le fake e per le quasi-fake e per le notizie semplicemente vere. E il ragionamento più semplice ed emotivamente facile prevale: il vaccino è obbligatorio (imposto da uno Stato inaffidabile e da politici compromessi), lo vedo, viene inoculato, e può far male. Questo è vero. La malattia non c’è, non è grave, è invisibile e non è detto che il bambino la prenda, e anche questo è vero. Dei due rischi, individualmente è più alto il primo. Si elimina un fastidio, dato che l’ansia da vaccino prevale sull’ansia da malattia. La teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero, sono tutte cose che nessuno si preoccupa di insegnare a scuola o spiegare in televisione.

La decisione di impulso è facile, è più piacevole. Se poi si sceglie una posizione emozionalmente, e se si frequenta l’echo chamber adatta, tutto diventa più facile ancora. Amici e nemici sono nettamente separati e si può diventare un partigiano militante: postare e condividere, commentare e rilanciare.

Semiosi della liquidità
Ancora una volta vediamo che la comunicazione, e la semiosi come flusso che costruisce l’enciclopedia individuale e collettiva, sono processi a spirale, che giro dopo giro configurano e riconfigurano credenze, opinioni, giudizi, valori. Il cambiamento epocale è, al momento, nella grande complessità di voci che parlano al singolo, spesso in maniera dissonante, su argomenti e temi del tutto diversi. E il singolo, a sua volta, formato in una cultura della rapida soddisfazione del desiderio, cerca soluzioni semplici e facili, e rifiuta i fastidi, disorientato da una complessità che non ha gli strumenti per affrontare.

E’ un dato facilmente verificabile che, in questa cultura, costruire e mantenere opinioni solide e durature, connesse tra loro da una logica legata a principi generali, cioè quella forma di mentalità (chiamiamola borghese?) prevalente fino agli ultimi decenni del secolo scorso, non viene più considerato il comportamento proprio di un individuo o cittadino maturo e consapevole. Oggi la mutevolezza dei pareri, la fluidità delle opinioni, persino la continua revisione delle credenze (ciò che si crede vero) è accettata come diritto e praticata anche da politici importanti e capi di stato. Di conseguenza, siamo tutti liquisi, continuamente aperti alle ultime notizie, alle ultime novità, ai cambiamenti, ci adattiamo alle stagioni come il leoncello dantesco “che muta parte dalla state al verno”.

Conclusioni
Concludere questo saggio (che ha già mentito sulla propria lunghezza)  lamentando la crisi dell’occidente sarebbe di scarso supporto al lettore, che spero voglia formarsi un’opinione personale più che ricevere un’ennesima soluzione istantanea. Rinunciando perciò alla mia quota personale di liquidità, assumo l’onere di qualche proposta.

E’ necessario che uno sforzo massiccio venga fatto non verso la repressione delle fake news, che è difficile, probabilmente impossibile, e soprattutto pericolosa per la libertà di espressione. Purtroppo politici di alto livello si sono già espressi in questa direzione in tutto il mondo, domandando leggi ‘anti fake’. Ma se combattere il comunismo e il capitalismo erano già imprese piuttosto ardue, pensare di farla finita con la menzogna appare francamente un obiettivo un po’ al di sopra delle attuali capacità di qualsiasi governo.

Per combattere le fake bisogna somministrare potenti ricostituenti culturali all’opinione pubblica, attraverso i media e il sistema educativo. Bisogna insegnare a pensare meglio, a capire, bisogna spiegare che la verità è qualcosa che si indaga. Bisogna, insomma “rendere chiare le nostre idee”.

Carogne e telecamere

È ben noto a chiunque si occupi di comunicazione che il registro visivo prevale nell’attenzione e negli effetti sul registro verbale. A parte le discussioni filosofiche sul realismo, questo è antropologicamente sensato: il vedere porta intimazioni di verità più forti del simbolico, cioè ci fidiamo più delle immagini che delle parole. Di fronte a un grosso cane che ringhia e ci mostra i denti, il cartello “Cane non pericoloso” ci dà poca fiducia. Detto questo, la vicenda della finale di Coppa Italia di calcio di sabato 3 maggio 2014, con l’irruzione sulla scena mediatica di Genny, detto ‘a carogna, è un esempio da manuale. Genny parla col proprio corpo e con il proprio abito, e questo linguaggio, ancora una volta, prevale su ogni altro canale espressivo.

Peraltro, a Genny non è stata data, nell’occasione, altra possibilità di esprimersi. E il corpo tatuato e il cranio rasato di Genny esprimono il look del coatto globale, molto simile oggi in tutto il mondo. In più, la sua t-shirt comunicava la solidarietà con un uomo condannato in via definitiva per l’assassinio di un poliziotto. La t-shirt come mezzo di comunicazione ha una lunga storia, ma è sufficiente ricordare l’uso provocatorio che ne fecero i punk. Insieme, t-shirt e tatuaggio sono testi sulla superficie del corpo, sul confine tra interno ed esterno.

t-shirt punk

http://www.polyvore.com/chaos_queen_punk_shirt_kult/thing?id=16810380

Il malavitoso che esprime attraverso il proprio corpo una sfida alla società e alle istituzioni lo fa per ostentare da una parte il suo coraggio e il suo sfregio alla società ‘perbene’, e dall’altra l’impunità di cui gode. Non è lo stesso linguaggio del picciotto o del boss mafioso, che invece assumono l’apparenza borghese, e anzi di eleganza e distinzione, per segnalare la posizione interna alla società che fingono di avere. Coraggio e sfregio sono funzionali, nel coatto, al ruolo di capo che assume rispetto a un gruppo, in questo caso gli ultras, nel quale per primeggiare deve mostrare di essere il più duro, il più, appunto, ‘carogna’. Il coatto non teme di assumere su di sé i valori negativi della società: “Io sono carogna, brutto, minaccioso, violento” dice col linguaggio del corpo. Questo muro di dichiarazioni di guerra serve a proteggere gruppi minoritari ed emarginati che trasformano in aggressività la loro debolezza sociale e culturale. Possono aver luogo in società garantiste nelle quali l’habeas corpus è rispettato. Nei regimi totalitari, nei quali le forze dell’ordine possono agire repressivamente senza particolari vincoli, queste manifestazioni in genere sono meno presenti.
Tornando a questioni mediatiche, la scena dello stadio, riportata per sole immagini, ha visto il livello verbale di spiegazione (“non c’è stata trattativa”, si è detto, “solo comunicazione”) sopraffatto dalla descrizione visiva, nellaquale la corporeità di Genny ha preso il sopravvento. Che Genny si presentasse come coatto e capo dei tifosi è apparso chiaro e, per metonimia, quello che esprime il capo rappresenta quello che esprime il suo gruppo. Inoltre, tutti hanno visto una star del calcio, Marek Hamsik, che appare in spot e programmi TV, parlare con lui. Perciò tutte le spiegazioni verbali fatte a posteriori dai rappresentanti delle forze dell’ordine non hanno potuto evitare la lettura che ha prevalso su quasi tutti gli organi di informazione:

Genny su l’Unità

http://www.unita.it/italia/genny-a-carogna-camorra-ultras-napoli-fiorentina-coppa-italia-mastiffs-droga-misso-rione-sanita-boss-1.566969

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Come spesso accade nei media, tutto questo ha anche elementi tecnici: le telecamere che vengono posizionate negli stadi sono apparecchiature estremamente potenti, che hanno riportato la scena ad altissima definizione. Di contro, nessuno dei partecipanti era microfonato, perché nessuno in questi casi ci pensa. Dunque non esistono testimonianze audio del colloquio, che forse sarebbero state utili a chiarire quanto è avvenuto. In generale, si nota nella gestione di questi eventi una debolezza negli aspetti mediatici che testimonia di una arretratezza imbarazzante in chi si occupa di ordine pubblico. Pochi secondi di immagini nel mondo mediatizzato possono fare cadere governi o muovere enormi interessi economici e politici, soprattutto oggi con la capacità di moltiplicazione infinita che offre la rete. Questi pochi secondi di video hanno già portato a dichiarazioni di ministri, prefetti, dirigenti sportivi; addirittura potrebbero spingere ad approvare leggi o decreti, e probabilmente si apriranno inchieste giudiziarie. Dall’altra, è stata offerta a una subcultura che ha imbarazzanti contatti con la malavita organizzata l’opportunità di presentare e propagandare in modo efficace i propri valori. Quando i nostri responsabili dell’ordine pubblico capiranno fino in fondo che il loro lavoro è strettamente connesso con i mass media? I media non si gestiscono solo con i filmati logati “Polizia” e spediti ai TG e con le conferenze stampa con i referti sequestrati sul tavolo, ma con una continua consapevolezza che ogni azione di ordine pubblico ha un risvolto mediatico. Ogni operatore di polizia in ogni momento deve sapersi comportare come se fosse sotto l’occhio di una telecamera, perché è così e lo sarà sempre di più.

“Bisogna guardare il Tabellone!”: il Piano Neve secondo Trenitalia

Chi tra noi abita nel centro nord della nostra lunga penisola sta lentamente riemergendo dall’ondata di neve che ci ha travolto. Quantità di neve abbondante, mai vista nel recente passato: i bolognesi devono risalire al 1985 (ma alcuni sostengono che il 1977 sia l’anno di paragone) per trovare una nevicata così corposa e Bologna non è sicuramente il luogo dove ne è caduta di più in assoluto.
l’emergenza neve crea inevitabilmente disagi, mettendo in crisi soprattutto i trasporti, ma la chiusura prolungata delle scuole e delle università (a volte anche oltre il necessario, a mio parere) ha ridotto la mobilità urbana ed extraurbana dei cittadini e quindi tutti noi abbiamo vissuto per qualche giorno in un tempo altro, evitando gli spostamenti in automobile, facendo la spesa al negozio sotto casa e, vestiti come se si dovesse affrontare la grande scalata del Monte Bianco innevato, ci siamo mossi a piedi nel nostro riquadro di città. Abbiamo capito presto come era organizzato il Piano Neve del Comune: quali erano, per esempio, le strade principali che venivano ripulite dagli spazzaneve continuamente per facilitare la mobilità dei mezzi pubblici; quelle secondarie, liberate dalla neve solo durante una pausa tra le precipitazioni; e quelle ultrasecondarie, in cui non sarebbe mai passato nessuno e quindi lasciate alle pale dei volonterosi cittadini che probabilmente abitano nei dintorni. Una volta compreso tutto questo, i percorsi personali all’interno della città si sono modificati, cioè ci siamo create nuove mappe di percorrenza che dipendevano da fattori diversi da quelli usuali: stato dei marciapiedi, cumuli di neve, attraversamenti possibili e impossibili e così via. Se è indubbio che le nostre città non sono costruite “per reggere a una situazione meteo del genere”, come ci hanno ripetuto continuamente i meteorologi, è anche vero che una delle caratteristiche umane è quella dell’adattabilità e nuove situazioni possono comportare nuovi stimoli conoscitivi.
Situazioni di emergenza risultano però più accettabili se il cittadino intravede buon senso degli enti preposti a gestire l’emergenza e se non si sente preso in giro, come invece è successo con il Piano Neve di Trenitalia.
Situazione tipica di un viaggiatore che viaggia abbastanza regolarmente. Controllo da casa della presenza del treno prescelto dal sito di Trenitalia (perché in tempi di emergenza non si sa mai…); spostamento verso la stazione per tempo; arrivo in stazione, sguardo al tabellone e…, magia delle magie, il tuo treno non viene neppure indicato nella lista dei treni. Si guarda più attentamente e si scopre che il prossimo treno utile è tra uno o due ore e con 80 minuti di ritardo. Nel mentre, sai che ci sono tre treni da orario (perché te lo ricordi dal sito che hai consultato un’ora prima) ma che non compaiono. Che ne è successo? Sono stati cancellati? Il tabellone non è aggiornato? Incominci a dubitare della tua memoria… Cerchi conferme e quindi, seguendo un usuale percorso interpretativo di verifica delle ipotesi, ti guardi intorno per cercare un addetto alle informazioni. Non ce ne sono molti in giro ma quello che è più sorprendente è la risposta che forniscono ai viaggiatori disorientati e rinfreddoliti: “Bisogna guardare il Tabellone”. Lì sta la Verità ferroviaria, ciò che accadrà nell’immediato futuro, se si riuscirà a viaggiare (se poi le porte del treno si apriranno, se gli scambi delle stazioni non saranno bloccati dal ghiaccio, se…), quando arriverà il prossimo treno, se arriverà. Una voce metallica poi ci avverte: “ E’ in atto in Piano Neve di Trenitalia, i viaggiatori sono pregati di prestare attenzione agli annunci e a consultare il Tabellone dei treni in arrivo e in partenza. Ci scusiamo del disagio”.
E così l’immagine che più colpisce in questi giorni di emergenza neve alle stazioni ferroviarie riguarda proprio i viaggiatori con la testa rivolta in alto e lo sguardo fisso al Tabellone, che tremano all’idea che anche quel treno che arriverà tra un’ora possa essere improvvisamente cancellato, senza spiegazione, senza congruo preavviso o pianificazione… E si chiede: “Perché non me l’hanno detto prima? Perché non c‘era sul sito di Trenitalia? Potrò mai partire e poi arrivare? E se parto e poi non arrivo?”
Da semiologia non posso che constatare che Trenitalia ci sorprende sempre e ci aiuta a tenere attive le nostre sinapsi non permettendo mai di abbandonarsi a facili interpretazioni lessicali. Ho sempre pensato che l’espressione: “Piano Neve” rimandasse al concetto di pianificazione, una serie di passi programmati per gestire l’emergenza neve; con in atto un qualcosa che si chiama “Piano Neve” ci si può aspettare ritardi, cancellazioni ma, per così dire, programmate. Non si possono far circolare tre treni per tratta all’ora ma solo uno? Va bene, ce ne faremo una ragione, ma che quello prescelto ci sia e che sia più o meno in orario. l’interpretazione che si può ricavare dal comportamento di Trenitalia è invece un’altra: quando si utilizza tale espressione si dovrebbe tremare perché siamo in emergenza e tutto è possibile, senza nessuna responsabilità di nessuno. Uomo avvisato…

Ambiente e linguaggi 2: nuovi razzismi e nazismi?

  1. Ambiente e linguaggi: allarme globale neo-razzismo?

Qualche tempo fa, su questo blog, uno degli autori, Salvatore Zingale, ha pubblicato un interessante post riguardante il tema (e relativo convegno) delle possibili azioni di comunicazione, attraverso i vari media, che possono essere portate avanti per “salvare il pianeta” e il suo ambiente.

Ho pensato allora di riprendere quel titolo su un “allarme globale”, dato che, parallelamente al tema, fondamentale, dell’ambiente “naturale” di vita e dell’inquinamento, c’è un altro tema “ambientale” strettamente correlato al primo.

C’è anche un altro “ambiente”: anch’esso soggetto a forme di inquinamento e a pericolosi contagi; e in cui si rischia talvolta di trovare un clima terribile e da un’aria irrespirabile. È l’ambiente delle situazioni sociali e dei nuovi rapporti culturali; in cui però si diffondono le fobie antiche, le tensioni delle nostre città, le loro sindromi e pericoli della vita di tutti i giorni: i razzismi, la costruzione dell’”altro” come nemico. L’identitarismo come possibile forma di avvelenamento; e, al contempo, l’attivarsi di un tipico meccanismo detonatore: la paura.

  1. Vittime del razzismo e parole razziste

Di recente si è sviluppato, sul web e, in parte, sulla carta stampata, un forte dibattito sul tema del “nuovo” razzismo, o di un ritorno di razzismo. In particolare, dopo la strage di dicembre 2011, a Firenze, con l’uccisione e il ferimento dei poveri giovani ambulanti senegalesi (Samb Modou, Diop Mor, Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike) ad opera del neonazista Casseri. Per questo motivo, il terribile episodio di assassinio razzista si è presto collegato ad una questione: quella della persistente presenza in rete di siti internazionali di cultura nazista e fascista. Ma è questo “il solito problema” che periodicamente si ripropone? Vediamo.

Ad esempio, ha suscitato scalpore la notizia del sito nazista Usa (Stormfront) ospitante un forum che ha pubblicato, sulla scia delle notizie legate agli omicidi e i ferimenti di Firenze, dichiarazioni a favore e in onore del killer di Firenze, acclamandolo come “eroe bianco” contro i “senegalesi che invadono Firenze”; pubblicando inoltre vere e proprie “liste di proscrizione”, indicando chi colpire fra politici, giornalisti, magistrati, sacerdoti, così come persone che lavorano nel mondo della cooperazione e del volontariato, o di aiuto agli immigrati. Di questo sito è stata chiesta la chiusura (vedi per un approfondimento http://www.lettera22.it/showart.php?id=11988&rubrica=12). Ma si sa che quasi non ha senso chiedere la chiusura di siti web: è davvero così, dato che, per definizione, le fonti della comunicazione in rete sono mobili e plurime? Tuttavia contro-campagne di sensibilizzazione sarebbero forse possibili? O, ancora, è da ricordare il caso del professore di filosofia di Torino che ha lanciato attraverso Facebook, oltre alla sua ammirazione per il killer di Firenze, proclami neonazisti con tanto di minacce di strage alla sinagoga.

Il caso del massacro di Firenze e del sito Stormfront è stato commentato anche dai media internazionali: si veda, ad esempio, l’articolo, ripreso da “Internazionale” (23/29 dicembre 2011), di Annette Langer, di Der Spiegel (http://www.spiegel.de/international/europe/0,1518,803938,00.html ). La giornalista insiste anche su un altro punto: domandandosi se Casseri fosse o meno “un cane sciolto”, anche se si considerava simpatizzante di CasaPound.Annette Langer, a proposito del caso Casseri, parla di “‘Fascist Delirium’ Online”. E sottolinea: “Meanwhile, Casseri has been become a hero of the right-wing extremist scene in the country, praised as a true Italian and a ‘white hero’ worthy of renown and respect on the racist website stormfront.org. Casseri ‘cleaned up,’ a task for which he deserves thanks, a statement on the website read. A support group on Facebook entitled ‘Gianluca died for us’ has already been ‘liked’ by more than 6,000 users. Comments include this one: ‘Florence was only the beginning. We’ll clean up all of Italy.’ A ‘fascist delirium’ has broken out in the country, daily La Stampa wrote on Wednesday.For right-wing extremists, the reasons behind the killings are obvious. The situation has long been unbearable, the multi-ethnic society ticking ‘like a time-bomb about to explode,’ anti-Semitic website NonConforme wrote.”

Tuttavia, qual è, in questo caso, il vero nodo problematico, al di là del terribile caso Casseri, o di casi che possono sembrare episodici e, appunto, periodicamente emergenti, di odio razziale e di propaganda neo-nazista?

La giornalista Langer sottolina come, più in generale, sia in atto una trasformazione, da tempo, nel mondo dell’ultradestra. Il “modello CasaPound” è guardato, dice Langer, con interesse dai gruppi di destra in Europa, e in particolare in Germania. Modello che sembra attirare proprio per i suoi caratteri di originalità: nella capacità anche di costruire una estetica relativamente nuova, rispetto agli stili tradizionali della estrema destra (nei siti e nello stile comunicativo), considerata ora come “vetero-destra”.

Da un lato, il modello CasaPound riprende (oramaida tempo) certi caratteri, sia iconografici, che di azione (occupazioni di case per scopi sociali, ecc.), “da centro sociale” (si veda l’omonimo sito). Dall’altro incrocia, invece, sul piano dei contenuti, riferimenti alla cultura e all’economia del ventennio fascista, degli “anni ’20 e ’30″ senza però mai parlare esplicitamente di fascismo, ma di linee di pensiero avanguardistiche – in vista di un modello “neo-nazionalista” e di alleanza fra nazioni “amiche” – con un linea che, secondo CasaPound, parte da “un’Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana.” Facendo riferimento al modello sociale-economico del fascismo, senza, appunto, quasi mai citarlo direttamente; occhieggiando all’anticapitalismo, all’antiglobalismo. alla necessità di controllare le banche e l’economia finanziarizzata. Fino ai riferimenti al “cancro dell’usura”, tema centrale, come noto, dello stesso Ezra Pound.

Non c’è più svastica o fascio, ma una tartaruga stilizzata. Cut and paste della tradizione della destra, camouflage e ibridazione di temi; video, giovani, e remix di questioni sociali. Più un programma ispirato all’economia autarchica.

Ad ogni modo, se quella della capacità mimetica, di trasformazione e di gestione dei simboli della comunicazione dell’estrema destra, e del suo relativo appeal – in questi giorni Casapound, dopo le polemiche sul nome del poeta ha preso provvisoriamente in prestito il nome di Carmelo Bene – è, si dirà, comunque settoriale e marginale, in grado di parlare e di avere effetto, forse, più “sui suoi membri”, ecco che una questione ben più ampia sembra emergere: quella relativa ai modi di diffusione di certi linguaggi. E, soprattutto, a quali concatenamenti culturali e sociali si legano queste forme linguistico-semiotiche. E, ancora, di quale clima culturale questi linguaggi possono fare da cassa di risonanza o, meglio, da sottofondo.

Dunque, quali sono i fili principali che si intrecciano all’interno di tale questione? E perché alcuni di questi fili sembrano essere interessanti proprio per un occhio critico e di analisi semiotica dei media: più in generale, di analisi dei modi di costruzione dei significati sociali e culturali?

Intanto, da un lato, il dibattito, subito dopo i tragici avvenimenti di Firenze, si è subito incentrato su una questione, piuttosto usuale: quella relativa alle “parole” del razzismo.

In molte discussioni e blog, (fra i quali, ad esempio, “Dis.amb.iguando” di Giovanna Cosenza), si è parlato di questo. Ed è stata ripresa la puntata della trasmissione “l’infedele” con l’intervista ad Umberto Eco sulla figura del killer nazista di Firenze: in particolare sul profilo negazionista e legato alla cultura “simbolico-tradizionale” (di ispirazione para-evoliana); intervista che, fra l’altro, ha suscitato la reazione del leghista Salvini, presente in studio, a proposito degli accostamenti fra cultura della Lega e razzismo. (http://giovannacosenza.wordpress.com/2011/12/21/eco-e-salvini-a-linfedele-su-leghisti-e-razzism/#comment-13822).

Su questo tema c’è stato anche un approfondimentomolto interessante, in particolare di Wu Ming 4, sul sito dei Wu Ming, Giap (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6365): un vero e proprio saggio, con analisi e commenti, riguardante le “misletture” di Tolkien da parte di un certo filone della destra radicale, interessato ai miti della “ricerca della Verità”. Secondo Wu Ming, Tolkien viene “ri-letto” e “rimontato” proprio per mostrare come all’interno della sua narrativa si potrebbero trovare motivi e temi cari ad una cultura e mitologia “tradizionalista” e filo-nazista. Niente di più falso, secondo gli studiosi di Tolkien.

In ogni caso, più in generale, quello che qui comunque è rilevante non è tanto il fatto che molte di queste forme di circolazione sub-culturale (idea di “tradizionalismo”; legame con il pensiero di Evola, la ricerca della Vera Verità nascosta fra le pieghe della storia e della letteratura) è, anche, certo, paccottiglia rivenduta cotta e ricotta. Piuttosto essa, con il suo modo di alludere ai contenuti di razzismo e nazismo, più o meno celato, la si ritrova in rete con una sua certa capacità di diffusione (si veda il blog: http://traditionalistblog.blogspot.com,con anche un riferimento a Casseri e alla sua produzione saggistica e, di recente, letteraria: “For Casseri, the important clash seems to have been that between Tradition and Modernity. And the important narrative may have been that of the warrior, Casseri‘s interest in whom may owe something to Evola. This may help to explain his actions, but it does not explain his targets.”). Il killer Casseri aveva scritto un pamphlet (“I protocolli del Savio di Alessandria”) contro il libro di Eco “Il cimitero di Praga”, proprio sull’interpretazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, dando di essi una sorta di lettura profetica sul presente. Ecco che, in qualche modo, ci si trova di fronte ad una una sorta di articolazione politico-culturale e comunicativa di questi temi e argomenti: una sorta di rete nella rete che, certo, nelle nicchie, si avviluppa su se tessa; ma che lancia segnali all’esterno che talvolta risuonano con le situazioni attuali.

  1. Le “parole” del razzismo?

Dicevamo che uno dei punti di discussione è stato quello, piuttosto tipico, delle “etichette” utilizzate dai media, in questi casi: le vittimeerano “dei senegalesi”: molti giornali lo hanno subito scritto, cosa del resto abbastanza usuale, come il dire “ambulanti senegalesi”, o “degli albanesi” o, molto peggio, quando si dice “dei clandestini”. O ancora “la polacca” violentata. O i “rumeni” che hanno fatto “questo o quest’altro”. E di qui sono partite le critiche.

Certo, si tratta di una questione fondamentale: quella degli stereotipi e del loro uso e abuso nei media. Ma non è tanto, o solo, l’etichetta in sé ad essere razzista, è ancora una volta la connessione fra livelli che produce il significato. Se ovviamente dico, i “poveri senegalesi” non sono razzista, ma al massimo ricado in uno stereotipo di tipo discorsivo, di uso comune; di stile semplificato di discorso, dato che non direi “i poveri bolognesi” o “milanesi” vittime di…o protagonisti di …Dunque è un problema non tanto (ovvio) di contesto e di etichette in sè; quando di uso, ripetiamo discorsivo dei termini: di come le parole si concatenano fra loro. Certo, davvero ci vorrebbe parecchia più attenzione da parte dei media; ma forse non è più questo il punto.

Qualcosa di peggio era infatti accaduto, come noto, un paio di settimane prima, in occasione dello stupro inventato a Torino e del conseguente assalto e incendio al campo Rom. Un articolo de La Stampa (seguìto poi da un “mea culpa” dello stesso quotidiano che ha fatto altrettanto discutere) che subito frettolosamente inventava la storia, anticipandone le conclusioni, dei “rom che stuprano”. In generale, dunque, c’è un problema di come si attivano gli stereotipi attraverso le parole (anche se gli esempi qui riportati sono diversi: nel caso di Firenze si parlava delle vittime, in quello di Torino, di presunti colpevoli).

Più in generale si dice che i media dovrebbero avere la capacità non solo di “essere sensibili” o “attenti” (dai modi di accostare e impaginare, al non creare “risonanze” o “tematizzazioni”, o iper-tematizzazioni, come avrebbe detto lo stesso Eco) ma anche di fare attenzione “alle situazioni” e più in generale “alle diversità culturali”; tutto questo ci pare francamente piuttosto ovvio, oggi; anche se questi criteri di base molto spesso poi non vengono rispettati.

Dunque, il problema non sono le etichette in sé ma i modi che esse hanno di esprimere e di collegarsi con i valori e i sistemi di significato; e i modi (desideri, paure, volontà) di comprendere questi significati immersi nel mondo.

  1. Rischi di escalation semiotico-razziste?

C’è però un altro puntodella discussione attuale che ci pare non emerga con la dovuta forza, e che sembra molto più importante e temibile: una sorta di possibile escalation razzistico-semiotica. Abbiamo un termometro della situazione, o la capacità di prospettare i rischi? Di cosa?

Il problema, in parte è già stato segnalato da alcuni giornalisti (vedi intervento di Langer già citato sopra) ma anche, a quanto pare, dai servizi segreti tedeschi e di altri paesi europei; sul fatto che il mix di grave crisi economica, paura per la situazione finanziaria, nuove migrazioni, anche interne all’Europa (flussi migratori di cittadini spagnoli e greci verso la Germania) e infine accuse reciproche fra paesi e comunità nazionali (“i Greci ne approfittano”, i “Tedeschi sono egoisti” ecc.) diano luogo a concatenamenti, anche discorsivi, che potrebbero fornire nuovi materiali per la costruzione di nuovi paradigmi della paura: di argomenti per un nuovo nazionalismo di ritorno che attraverserebbe tutta l’Europa, connettendosi con le paure le tensioni e gli scioperi di questi giorni.

Il male, lo ricordava qualche tempo anche fa Stefano Bartezzaghi, in un intervento su Repubblica (27 aprile 2011) a proposito di memoria e di olocausto (e si veda, su questo tema, tutto il lavoro di Valentina Pisanty sul discorso negazionista e sulla memoria della Shoah, anche con l’uscita recente del suo ultimo libro “Abusi di memoria”), il male, si diceva, “non è macroscopico, è microscopico”: è una “zona grigia” che può diffondersi e può collegare in modo inaspettato zone anche diverse delle culture.

L’abbiamo visto nel recente passato, non lontano da noi, sempre in un’Europa sconvolta dal debito e dalla crisi economica, quanto l’Etnico possa diventare assassino.

Oh, KaDeWe!

Il post di Giampaolo da Berlino mi riporta indietro di un paio di decenni, quando a Berlino, nel 1984, gli amici mi portarono al KaDeWe – oltre che alla Philarmonie, al Mauer, alla Neue Nationalgalerie di Mies, eccetera.

KaDeWe sta per “Kaufhaus des Wenstens”: “Grandi magazzini dell’Ovest”. Appena messo dentro il primo piede mi sembrò il paese della cuccagna. Niente a che vedere con le pur grandi “Kaufhäuser” che conoscevo a Francoforte e in altre città. Dentro c’era di tutto. Un lusso. Intere boutiques d’alta moda. Ristoranti. Forse anche una pizzeria. Vendite di pesce fresco come fossimo sul mediterraneo. Macellerie e panetterie. Sette piani, otto piani. Eccetera. Ma più che l’immagine di questa interminabile moltitudine di merci, ricordo una cosa piccola. Un barattolo che qualcuno mi fece notare sullo scaffale delle carni inscatolate. Rotondo. Giallo. O rosso? arancio? Non importa. Importa ciò che cosa c’era scritto su: Löwenfleich. Carne di leone.

In epoca post-coloniale e pre-globalizzata, sarebbe stato un bel souvenir. Ne volevo comprare due confezioni, una da esibire l’altra da custodire. Ma le mie deboli tasche mi dissero di no, costava troppo. Neanche una. Quanti marchi? Non ricordo. Negli occhi mi rimane solo il muso di un leone dentro un cerchio. Più o meno come quello della Metro Goldwyn Mayer.