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Come far diventare fatalisti dei ricercatori

Quando ci troviamo di fronte a quelle grandi impostazioni culturali che a volte si chiamano ideologie, altre volte mentalità, altre ancora attitudini o filosofie o concezioni, ci si trova spesso a discutere da quali cause originano. Prendiamo il fatalismo (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Fatalismo e http://en.wikipedia.org/wiki/Fatalism).

Mi è capitato di recente, nell’ambito di una ricerca universitaria, di trovarmi a coordinare un gruppo di lavoro. Oltre un anno fa, all’approvazione della Legge Gelmini, (30/12/2010) entrò in vigore una norma che cambiava alcune regole amministrative. Questo faceva sorgere dei dubbi interpretativi sull’applicazione della legge. Richiesi dunque un chiarimento. Il chiarimento è arrivato al sottoscritto oggi, 24 gennaio 2012.

In oltre dodici mesi, il coordinatore e il team di ricerca hanno prima verificato di non poter sapere se potevano o no fare una cosa. Dunque abbiamo atteso. Non sapevamo né SE qualcuno avrebbe risposto né, se mai lo avesse fatto, QUANDO. Non sapevamo neppure CHI avrebbe dovuto rispondere né SE avrebbe dovuto farlo.

Questa situazione costruisce inevitabilmente, anche nelle menti razionali e pragmatiche di ricercatori professionisti quali (indegnamente, indegnamente) noi siamo, un paradigma fatalista. Per prima cosa, il non poter sapere ci ha resi indecisi e contradditori. Infatti, ignoravamo se una regola che avrebbe cambiato il nostro comportamento era o non era valida. Ma dovevamo comunque decidere cosa fare, perché avevamo l’impegno di condurre la nostra ricerca. L’assenza di risposta ci metteva nella condizione di dover decidere qualcosa senza avere i dati completi per farlo. E’ questa l’essenza del fatalismo: non poter sapere e quindi non poter né fare né non fare. Dunque, a tratti ci comportavamo come se la risposta fosse positiva, a tratti all’opposto. Inoltre, abbiamo maturato una progressiva sfiducia nei confronti dell’autorità che governa il nostro lavoro. La nostra sensazione è stata che questa Autorità fosse lontana e del tutto disinteressata a quanto facevamo. Infine, spesso abbiamo rinunciato a fare cose che avrebbero potuto esporci a rischi in caso di risposta negativa. Ci siamo comportati come i più fatalisti musulmani dell’Africa profonda, che alla mia parola ‘domani’ rispondevano inevitabilmente: “Domani? Domani se Iddio vuole!”

Questa è una dimostrazione pratica di come il fatalismo sia prodotto da comportamenti sociali, nella fattispecie la mancanza di informazione su quanto si può o non si può fare da parte di chi ‘governa’ un sistema. Il fatalismo in questo caso è prodotto in modo causale, diretto, inevitabile, in un sistema rigido di cause ed effetti. La forme mentali, se stiamo a questi fatti, si determinano come comportamenti forzati dal sistema.

Queste riflessioni possono essere applicate all’attuale periodo che l’Italia attraversa.