The Dirty Turn: la rivoluzione linguistica della Lega nel linguaggio politico italiano

Il linguaggio verbale della politica

Il discorso verbale della politica è uno dei suoi aspetti più significativi.
Alcuni elementi specifici del linguaggio settoriale dei politici lo rendono più facilmente analizzabile di altri. Specificamente, il linguaggio della politica appare il risultato di alcune tensioni o attrattori, a volte cooperanti a volte in relazione dialettica. Di quest’ultimo tipo per esempio è l’opposizione tra l’esigenza di formare un idioma distintivo del proprio schieramento e della propria formazione, e la necessità, contrastante, di avere un terreno in comune con tutte le forze politiche che partecipano al dibattito mediatico e parlamentare. L’osservazione di Habermas sulla necessità di un certo accordo tra gli interlocutori per poter condurre un dialogo, anche di dura opposizione, non esprime altro infatti che la natura sociale del linguaggio.

Le spinte cooperative sono quelle dettate dalla necessità da parte del ceto politico nel suo complesso di distinguere il proprio ruolo sociale da altri quali gli operatori della comunicazione e gli esperti dei diversi settori partecipanti al dibattito mediatico.

Ogni politico e ogni partito, quindi, da una parte vuole e tende a formare un proprio linguaggio, dall’altra deve condividerne almeno una porzione con gli altri partiti per poter dialogare con loro.

Ogni idioletto politico, quindi, ha un proprio bilanciamento tra i due fattori. I linguaggi molto distintivi, cioè più spostati verso il polo identitario che verso quello comune, contrassegnano formazioni più distinte anche per programmi, immagine e posizionamento. Inoltre, la necessità di esprimere un’identità fa sì che il singolo enunciatore non imiti il linguaggio degli avversari o degli alleati, mantenendo costante una certa purezza linguistica,

L’aspetto comunque più evidente del discorso politico è la sua distinzione rispetto al linguaggio comune dei media. Una sola frase pronunciata da un politico, in genere si può distinguere da una frase usate nella cronaca, nel commento politico e nella pubblicità.

Queste caratteristiche di facile distinzione e isolamento rendono relativamente agevole l’analisi del discorso politico verbale. Del tutto diverso sarebbe l’aspetto visivo o sincretico, dove le contaminazioni con altri stili di discorso sono più evidenti.

La rivoluzione linguistica della Lega Nord

In questo quadro, la Lega, già Lega Nord, fin dalle sue origini si è fortemente caratterizzata. Il primo artefice del linguaggio leghista fu il suo fondatore, Umberto Bossi, che rivoluzionò il discorso politico italiano sotto diversi aspetti. I più significativi sono il regionalismo, l’uso di espressioni volgari e le enunciazioni minacciose.

L’Italia, come è noto, usa il toscano solo per scrivere, e presenta un marcato regionalismo nella pronuncia, tale per cui è possibile riconoscere la provenienza linguistica di quasi tutti i parlanti, fatta eccezione per chi ha seguito un corso di dizione. Ciò nonostante, durante la cosiddetta Prima Repubblica la condivisione di una lingua nazionale ha portato i politici a cercare di adeguare il proprio accento, sostenuti anche da una generale educazione di livello universitario e dalla disciplina linguistica dei partiti, tutti (con poche eccezioni) nazionali. Le eccezioni come l’incancellabile pronuncia di De Mita o l’italiano con deciso accento germanico di alcuni parlamentari altoatesini, erano poche. Qualche rappresentante della Sardegna manteneva un forte accento, ma nessuno indulgeva a termini dialettali.

Bossi e la Lega Nord sono il primo partito macro-regionale che rompe l’unità linguistica. Accenti, modi di dire e termini dialettali vengono non solo usati, ma ostentati. Come ogni scelta linguistica, anche questa produce un doppio effetto. Da una parte la fonia regionale indubbiamente abbassa lo status sociale e culturale del parlante (“non sa l’italiano”), dall’altra però, trattandosi comunque di esponenti politici, parlamentari, ministri, inevitabilmente alza lo status di quella pronuncia, la legittima.

La volgarità, sia i doppi sensi sessuali (“la Lega ce l’ha duro”) sia la coprolalia (uso improprio della bandiera nazionale), ha uno spettro semantico anche più ampio. Rappresenta una rozzezza anch’essa plebea, ma connota un ‘parlar chiaro’, un aspetto di popolarità, di orgoglio, appunto, delle classi lavoratrici. La strafottenza del popolo è certamente uno degli aspetti del linguaggio proletario, basti ricordare la famosa risata dell’anarchico (http://vulcanostatale.it/2017/01/una-risata-vi-seppellira/).

Le minacce (famosa quella dei mitra, ma si veda http://www.atuttadestra.net/index.php/archives/32519) sono anch’esse significative. Dopo la nascita della Repubblica, il clima fu per decenni piuttosto teso. Da una parte il PCI era strettamente collegato con Mosca ed era un partito rivoluzionario. Dall’altra, sia pure non in modo palese, non mancavano correnti golpiste e formazioni controrivoluzionarie (si veda il caso Gladio). Ogni accenno all’uso di armi sarebbe stato preso sul serio. Se Berlinguer (lasciamo stare Togliatti…) avesse anche solo usato la parola mitra, le conseguenza sarebbero state gravissime.
Un paragone di questo tipo è assai significativo.
Molti commentatori hanno sottolineato a sottolineano la deriva del linguaggio politico verso scelte lessicali e retoriche sempre più forti e offensive. Tuttavia pochi ne traggono un’altra conclusione, e cioè che l’uso crescente di espressioni forti e di insulti, in un contesto nel quale la messa in pratica di azioni violente è comunque esclusa e, soprattutto, le due parti che se ne dicono di tutti i colori dopo pochi giorni diventano alleati o amici, progressivamente depotenzia le iperboli linguistiche, riducendole a semplici volgarità quotidiane. E’ un modo di fare come quello di certe coppie, che si insultano e si minacciano per poi scambiarsi bacini e carezze dieci minuti dopo, o dei bambini che si prendono a pugni per poi giurarsi eterna amicizia. L’effetto sulla ricezione non è tanto e solo la legittimazione di un lessico volgare e rozzo, quanto la delegittimazione della dimensione veridittiva. La conseguenza più negativa per i politici è che le loro affermazioni progressivamente perdono di forza e di considerazione. Gli annunci propagandistici che mai si avverano erodono lentamente il terreno sotto i piedi come l’acqua del mare sulla battigia. Da una parte, quindi, Bossi inaugura l’era di minacce dai significati denotativi tremendi, dall’altra, però, anche quella del politico che è più una maschera, un cabarettista, che parla per farci meravigliare della propria audacia lessicale, ma le cui affermazioni non hanno conseguenze pratiche.

La rivoluzione linguistica leghista ovviamente ebbe impatto sul linguaggio generale della politica italiana. Sotto questo aspetto sia Matteo Renzi sia Beppe Grillo sono in qualche modo imitatori, o meglio interpreti della svolta linguistica bossiana.

Grillo rappresenta la deriva più chiaramente comica della retorica bossiana, essendo egli stesso un professionista del cabaret. Il suo lavoro teatrale assume ben presto una forte caratterizzazione di satira politica che contiene elementi di proposta, fino a trasformarsi nella fondazione di un movimento vero e proprio. Uno degli eventi che ha inventato, il noto “Vaffa… Day” è un’ottima sintesi del tipo di discorso politico inaugurato dal comico genovese.

Matteo Renzi è l’ala moderata di sinistra del linguaggio bossiano, ma la sua azione linguistica d’esordio, l’uso del termine ‘rottamazione’ rivolto alla dirigenza del PD, ne condensa lo stile. Renzi inaugura una modalità di discorso pubblico del tutto nuovo per la sinistra post-comunista. I passaggi che mira a far passare sui media sono battute di tono cabarettistico, di solito non più che ironiche, miste a boutade non minacciose ma roboanti (come creare una Silicon Valley in Italia o superare l’economia della Germania). Le considerazioni linguistiche non bastano a spiegare le sorti divergenti delle formazioni politiche dei due leader, ma certamente le promesse non realizzate pesano di più per un capo di governo che per un rappresentante dell’opposizione.

Da Bossi a Salvini

L’erede di Bossi all’interno della Lega è tuttavia Matteo Salvini, che prende in mano un partito fortemente indebolito e lo porta ad essere una forza politica con una solida base elettorale e una posizione ancor più influente nell’attuale maggioranza di governo.

Salvini, rispetto a Bossi, lavora per un partito su base nazionale, e quindi non sottolinea, a parte l’accento, gli aspetti regionalisti del suo discorso, almeno sui media nazionali. Il suo linguaggio è più povero e meno immaginifico di quello bossiano, ha abbandonato i guerrieri medievali, i valligiani Bergamaschi che calano a valle, i riti del Dio Po, ecc. Gli attacchi personali e il ‘parlar fuori dai denti’ vengono però ulteriormente rafforzati. Con Salvini, gli insulti e i paragoni offensivi sono più mirati, le enunciazioni meno roboanti ma più ficcanti. Si prenda a esempio “Sapete che la Russia ha scelto di sospendere le adozioni con tutti i paesi stranieri tranne che con l’Italia, perché qui non ci sono coppie gay che possono adottare un bambino. Se è così, viva la Russia.” (https://it.wikiquote.org/wiki/Matteo_Salvini#cite_note-immigrati-29). Mentre il mondo possibile di Bossi era più un mito che un programma politico, le affermazioni di Salvini quasi sempre rinviano a posizioni precise attraverso un lessico rozzo e spesso insultante (es. “La Boldrini è l’ipocrisia, il nulla fatto donna”. [44]). Sulla frastica di Salvini vedi https://it.wikiquote.org/wiki/Matteo_Salvini https://aforismi.meglio.it/aforismi-di.htm?n=Matteo+Salvini&pag=9 https://le-citazioni.it/autori/matteo-salvini/.

Le espressioni volgari, nel linguaggio della Lega salviniana (peraltro parlante quasi con una sola voce), non mancano, come ai tempi di Bossi, ma sono ormai sdoganate (un’espressione come “fuori dalle palle”, che detta da Fanfani avrebbe portato a una crisi di governo, oggi in Italia passa inosservata). Anch’esse, però, sono usate strategicamente, quasi sempre contro qualcuno o qualcosa di preciso. Mentre Bossi faceva teatro, Salvini provoca e insulta con obiettivi espliciti. Se il parlare di Bossi faceva pensare a uno che ha bevuto un po’ e si mette a fare comizi all’osteria, quello di Salvini ricorda un bullo circondato dalla sua banda al tavolo del bar che finge di non aver visto una persona che è entrata e la insulta ad alta voce per provocarla. C’è uno slittamento da una vanteria da commediante a una sistematica azione provocatoria.

E infatti, come ogni provocazione che voglia essere tale, agli insulti si accompagnano le minacce.
Salvini infatti condisce il suo discorso con minacce di interventi pratici. Non i fantomatici mitra valligiani, ma interventi circostanziati, come le espulsioni dei clandestini, le ruspe e le schedature contro i nomadi, la castrazione chimica, ecc. Alcune di queste minacce si sono già concretizzate in fatti.
E proprio questa strategia è innovativa. Salvini mira a porre fine all’epoca delle promesse non mantenute, accompagnando fatti alle enunciazioni. Non certo ogni discorso, ma una certa percentuale di essi si deve trasformare in azione, per poter rivendicare la propria coerenza.
“Un fatto ogni mille parole”, infatti, rispetto a “Zero fatti ogni mille parole”, costituisce già un deciso avanzamento verso “Fatti, non parole”, l’ideale irraggiungibile di ogni politico democratico.
Naturalmente parliamo di ‘fatti’ in un’accezione mediatico-politica, in una situazione mediatica, quella italiana, nella quale l’agenda mediatica equipara eventi e discorsi. Mentre, per tradizione, il giornalismo dà la precedenza ai fatti rispetto alle dichiarazioni, quello italiano mette in risalto molto spesso semplici propositi o annunci. Così, la promessa di Di Maio di dare il reddito di cittadinanza (che ad oggi non è neppure un progetto di legge) a chi lavorerà otto ore al giorno, diventa notizia di prima pagina (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-06-22/di-maio-per-avere-reddito-cittadinanza-8-ore-lavoro-gratis-settimana–115355.shtml?uuid=AEsPelAF).

Oltre alla cosiddetta ‘post-verità’, o forse come variante di essa, assistiamo così a una sorta di ‘fattualità esemplare’, per la quale un’azione unica diventa segno della sua classe, e vale come se fosse diventata la regola. (https://it.wikipedia.org/wiki/Post-verit%C3%A0 https://en.wikipedia.org/wiki/Post-truth_politics). Si tratta di un effetto noto dei media, e sono appunto i media a costituire la variante decisiva nella configurazione del discorso salviniano.

La capacità di Salvini, rispetto a Bossi, è quella di una costanza e coerenza nello stile di discorso trasversale a qualsiasi media, oltre a una presenza quantitativa massiccia, specie sui social (vedi http://www.repubblica.it/politica/2018/06/14/news/matteo_salvini_e_il_politico_europeo_piu_popolare_su_facebook-199008668/ http://www.datamediahub.it/2018/06/12/lo-spazio-mediatico-dei-leader-politici/#axzz5JRZ58o00).

Salvini dice le stesse cose in Parlamento, ai microfoni dei TG, nei comizi e sui social. Bossi non era così pervasivo e non era così disinvolto. Siamo indubbiamente di fronte a una nuova generazione di comunicatori che applica le regole basiche della pubblicità: pochi contenuti e lessico chiaro, ‘tone of voice’ costante, ripetizione incessante. Inoltre, la retorica del fait accompli, in un sistema mediatico nel quale già una dichiarazione assume rilevanza straordinaria, offre spessore alle sua argomentazione.

Dove va il discorso politico italiano?

Il discorso della Lega, oggi, è dunque il proseguimento e l’evoluzione di quello della Lega Nord di ieri, con un interprete che l’ha ulteriormente innovato mantenendolo duro e polemico ma aggiungendo spessore e regolarità, e rendendolo più acuminato. I dati oggi ci dicono che se Berlusconi ha dato il via al cambiamento del linguaggio della politica, per quanto riguarda il verbale (ovviamente sempre sui media), la vera rivoluzione è stata quella leghista.

Qualcuno si potrà domandare come il linguaggio di questa neo-destra populista tipicamente italiana potrà evolversi e se mai ne nascerà un altro capace di opporvisi validamente.
Certamente un primo terreno di confronto sarà tra le promesse e i fatti conseguenti. Certe minacce, come espellere centinaia di migliaia di migranti, saranno messe da parte, altre, più gestibili, potranno esse realizzate, ma resta il punto debole del populismo, vale a dire la sua pretesa di cambiare la realtà senza considerare se si hanno i mezzi per farlo. Così, possiamo immaginare uno scenario nel quale a un certo punto la realizzazione di un programma fallisce visibilmente e porta a una crisi grave, e uno scenario di progressiva svolta moderata nella quale il populismo si stempera in un riformismo più o meno accentuato o in un conservatorismo di ritorno.

Quanto a un nuovo linguaggio, a mio parere vi è una sola possibilità. Se il successo del linguaggio populista sta nella semplificazione, quello di un linguaggio anti-populista sta nella complessificazione. Tuttavia, la possibilità di comunicare la complessità della realtà contemporanea dipende dalla capacità di comprensione dei riceventi, ma la demografia e il basso livello di istruzione post-secondaria in Italia non rendono probabile un rapido cambiamento. Un cambiamento, tuttavia, nel medio e lungo termine è inevitabile. Gli strumenti logici e semiotici di descrizione e analisi degli eventi (politici, sociali, economici, scientifici, ecc) messi a disposizione a partire dagli inizi del ‘900, sia pure lentamente, si diffondono. Si pensi alla consapevolezza del funzionamento della teoria della probabilità, un elemento fondamentale per lo sviluppo socio-culturale, o alla teoria dei giochi.

Quello che andrebbe fatto, dunque, è dar vita a un movimento per l’intelligenza e la cultura, senza curarsi della popolarità iniziale. Un punto però mi sento di sottolineare, che esula dall’analisi del discorso. Un linguaggio rozzo e una pratica brutale non corrispondono necessariamente a un pensiero rozzo e a un’azione inefficace. La cultura e l’intelligenza, dunque, per quanto possano usare strumenti sofisticati per l’analisi e l’elaborazione dei dati, devono comunque mirare a soluzioni che siano le più semplici ed efficaci possibili. La sinistra e il liberalismo dovrebbero ricordare che la loro nascita e il loro successo, a partire dalle rivoluzioni borghesi, sono stati fondati su una descrizione dell’esistente molto più adeguata di quella precedente.

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