La teoria del tumulto ne “I promessi sposi”, e il populismo italiano

Rileggo I promessi sposi e arrivo al Capitolo XIII, nel quale Manzoni prosegue il racconto dei tumulti per il pane detti ‘di San Martino’ (dei quali ricorre il 390esimo anniversario in questi giorni). Mi colpisce il noto brano nel quale l’autore discetta sulle dinamiche dei moti popolari (“Ne’ tumulti popolari c’è sempre…”) . Potete vederlo qui (consiglio di tenerlo in una finestra vicina). Mentre leggo odo un’eco semantica, o se preferite interpretativa, insomma, mi pare si tratti di riflessioni che di questi giorni attraversano, come nuvole estive, la semiosfera, o il phaneron, se preferite un termine peirceano, insomma quel luogo che sta un po’ nelle nostre teste e un po’ in quelle degli altri, il territorio del senso che costituisce la mente collettiva o enciclopedia.

E d’improvviso mi si manifesta una metafora alla quale io, personalmente, non avevo pensato: la rete socialmediatica non è un canale di comunicazione, è uno spazio urbano (e questo è stato detto e ridetto), ma la visione continua col mostrarmi chel’affermazione populismo (inteso nel suo complesso di flussi comunicativi) non è altro che una sommossa che ha luogo in questo spazio. Una rivolta che fa perno su criticità e malumori ampiamente diffusi, inizialmente spontanei, che vengono poi cavalcati da capipopolo, appunto i leader populisti.

In questa lettura mi supporta (o mi obnubila, dirà forse qualcuno…) l’esperienza diretta dei moti del 1977 a Bologna, quando appunto si parlava di ‘movimento’ come insieme di pratiche non riconducibili a organizzazioni politiche stabili e strutturate. In quei mesi fui parte e osservatore in azioni collettive di rivolta spontanea, e non posso non cogliere le similitudini con il racconto manzoniano.

Estremisti, moderati e massa oscillante

Ma prendiamo il testo.

All’inizio, Manzoni distingue nel popolo in sommossa tre componenti. Gli estremisti, i moderati e la massa priva di direzione. I primi sono coloro che:

… o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura.

E’ facile identificarli nella metafora del presente. Sono quelli che vedono sempre il peggio nei motivi e nelle azioni degli oppressori di turno e promuovono le reazioni più estreme contro di loro. In Italia, oltre alle minacce “in galera”, l’espulsione immediata e la “castrazione chimica”, costoro muovono le ruspe e le motovedette, ma non ancora i carri armati. Ogni fatto negativo, più giova loro quanto più è terribile. Stupri violenti connessi alla droga, corruzione e malgoverno, rapine a mano armata in case private, povertà ‘estrema’, sono altrettante spinte a prendere decisioni sempre più drastiche.

Vi sono poi i moderati, che spingono in senso contrario. Anch’essi non sempre hanno motivi nobili, nonostante il Manzoni, da proto-democristiano, si schieri in ogni caso con loro (“Il cielo li benedica”). In ogni caso non perseguono alti fini, ma sono “…taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci.”

Soltanto tra i motivi degli estremisti, però, compare quello razionale: “per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato”.

Mi si perdoni se nelle due suddivisioni degli estremisti (i fanatici e gli scellerati) mi pare di vedere i due principali attori politici del momento. In entrambi (ma con prevalenza tra i fanatici) non mancano tuttavia coloro che sono spinti dal terzo motivo: “un maledetto gusto del soqquadro”, il disordine per il disordine, la distruzione (creativa?) per sé stessa; direbbe qualcuno: la rivolta come espressione desiderante e liberazione della libido. Per esempio la ‘decrescita felice’ o i movimenti nimby come espressione di un andare contro che prescinde dal configurare le conseguenze pragmatiche dell’azione.

Estremismo e moderazione, quindi, sono in un certo senso tendenze polarizzate, assiologizzate, presenti in ogni moto popolare, in ogni corpo elettorale. Nessuna di queste due parti, comunque, possiede una strategia, ma hanno la capacità di agire secondo un programma narrativo comune che si manifesta nel momento performativo (“In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni.”) Forse chi segue un ‘disegno scellerato’, invece, la strategia ce l’ha, sia pure confusa e incompleta. Comunque sia, questi due poli, pur privi di concerto, possono produrre una performanza razionale. Si tratta di una razionalità per così dire a posteriori, quasi naturalistica, risultato di un attrattore che si manifesta quando la massa è già massa, ma non le preesiste. In effetti, considerando le strategie di formazione delle opinioni che emergono in rete, è vero che il grosso del lavoro è oggi la costruzione della massa-rete (individui in contatto indiretto, solo virtuale), e solo successivamente, attraverso l’analisi dei ‘big data’, la si dirige verso obiettivi comuni. Obiettivi che non interessano a chi fa da polo di raccolta del consenso, in quanto non si mira veramente a raggiungere qualcosa, ma solo alla manipolazione della massa. Continuiamo a stupirci dell’inconsistenza dei programmi populisti, che cambiano, si contraddicono, si mescolano e si cancellano continuamente, diffondendo effetti che spesso vanno in direzioni contrapposte, che poi vengono negati e alterati con dichiarazioni del tutto false, ma l’obiettivo del manipolatore populista è solo mantenere il proprio potere manipolatorio il più a lungo possibile. I suoi obiettivi sono vaghi, si può dire che sia un raccoglitore di ciò che capita a tiro, un nomade che non si cura di ciò che lascia alle spalle1.

Il moderato, a sua volta, vive in un certo senso di riflesso, per reazione a un moto del quale comincia a temere le conseguenze, a confrontarle con i limiti che la sua morale o il timore per la sua sicurezza gli impongono. Come tante volte si è detto, purtroppo la dinamica stessa dei moti, e ancor più delle rivoluzioni, porta alla progressiva estremizzazione, almeno finché non intervengono accadimenti traumatici, in presenza dei quali le due opzioni, estremismo e moderazione, ogni volta si contrappongono. Fino alla immancabile controrivoluzione o restaurazione che pone fine alla sovversione stessa.

In mezzo tra estremisti e moderati, e questo è il punto più interessante, sta però quella componente senza la quale la rivolta non può manifestarsi in tutta la sua potenza: “la massa, e quasi il materiale del tumulto”. Essa viene introdotta come “un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo”. Questi sono, si direbbe in un’elezione, gli ‘swinging voters’, i soggetti che pencolano di qua e di là, gli indecisi, i non convinti, dunque convincibili. Questa massa, oggi, costituisce il corpo sociale della modernità liquida, che si può plasmare in una o un’altra forma, ed è il vero obiettivo da conquistare per chi è (in qualsiasi modo) teso verso la rivolta o verso un almeno momentaneo freno.

E Manzoni, con la consueta precisione, ce ne propone una sintetica tipologia:

un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro.

Il passo appare mirabilmente adatto a descrivere l’elettore medio dei partiti populisti, ma anche l’italiano modello dei media nazionali, sia pure con minore precisione. La locuzione “qualcheduna grossa”, “qualche cosa grossa”, nel senso di ‘grande’ ma anche di ‘rozza’, dipinge molto bene quel desiderio di scoprire il grande complotto che tutto spiegherà e infliggere alla classe dominante la grande punizione che tutto sistemerà, finalmente, in una visione semplice, che in realtà è (appunto) semplicistica, rozza. News truculente e pietistiche si alternano nei media a stimolare in modo oscillante, appunto, ferocia e misericordia. Quello che si persegue in entrambe è un sentimento da “provar con pienezza”, proprio perché al popolo, se qualcosa manca, è proprio il comprendere pienamente un mondo che è troppo complesso per le categorie che possiede, e, giustapponendo sempre pro e contro, è come se soffocasse l’infantile naturale anelo a uno sfogo pieno dell’emozione2.

Le due anime e il corpo liquido

Emerge nel brano manzoniano un altro tratto che risuona con la sfera mediatica di questi mesi: l’opposizione tra politica e mercato e l’ingenuità dei seguaci del populismo.

La ragione del tumulto di San Martino, infatti, è di per sé rivelatrice dell’ignoranza popolare: il gran cancelliere Ferrer, nel tentativo di calmare le tensioni sociali legate alla penuria di pane, fissa un calmiere, che però è talmente basso da costringere i fornai a lavorare in perdita; insomma, è fuori mercato e non può durare. Tuttavia, viene interpretato dal popolo come la prova che la penuria era una finzione architettata ad arte e che finalmente è arrivata l’abbondanza. Quando, a fronte del rischio che i forni chiudano, il calmiere viene ritirato (e inevitabilmente si torna all’austerity, diremmo oggi), ecco che il popolo è ormai convinto di essere stato preso per i fondelli dai potenti, e si ribella. La massa ribelle è però oscillante, può essere spinta da una posizione all’altra con il minimo sforzo, anche se si tratta di posizioni antitetiche:

Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato?

Dell’Italia di questi anni, tanti sono gli esempi di chi è stato portato in trionfo e poco dopo proposto per lo squartamento, da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Bossi. Ma colpisce l’elenco di posizioni, che non possono non ricordare a chi pratica un po’ di semiotica il modello attanziale o comunque le funzioni di Propp: attori VS spettatori; strumenti VS ostacoli. E’ quasi letterale. Queste banderuole che sono gli individui formanti la massa, non mutano solo le proprie idee: mutano le loro stesse funzioni. Fino a perdere il proprio ruolo attanziale. Stare zitti, finirla, sbandarsi e tornare a casa e infine il grado zero della narratività: “cos’è stato?” Da scrittore con men che 25 lettori, questo passaggio al discorso diretto lo trovo magnifico. “Cos’è stato?” Come dire “Io non c’ero, e se c’ero, dormivo”. E questa notazione è assolutamente umana. Mi ricorda i giorni dopo l’11 e 12 marzo 1977, quando partecipai a due manifestazioni, a Bologna e a Roma, entrambe trasformatesi in scontri tra partecipanti e forze dell’ordine, dopo le quali, rintronato come dopo una battaglia (dalla quale non erano state molto diverse) mi ritrovai a casa, dove, ovviamente, quei fatti erano solo pochi minuti di notizie nei telegiornali. Ecco, non era successo quasi niente. Credo che questo sia ciò che prova sempre l’individuo coinvolto in drammi di massa, nei quali vive emozioni fortissime, ma che, svanita l’emozione, sembrano quasi non essere mai accaduti, soprattutto quando non hanno conseguenze sulla vita quotidiana. Una massa così mobile è per ciascuno dei due partiti l’oggetto della contesa:

Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere.

Che cosa sono le anime nemiche, nel panorama dei conflitti tra manipolatori mediatici? Sono quei sistemi di credenze, quelle costellazioni di valori, quelle sequenze argomentative, che si installano nel nostro cervello e ci fanno propendere per l’una o l’altra parte. Manzoni probabilmente usa la metafora delle due anime in chiave di possessione demoniaca, ma oggi possiamo vederla in un’ottica di diffusione di contenuti virali, o meglio ancora di iniezione di valori.

Effettivamente, le opinioni e gli stili di vita sono sempre più spesso rappresentati come un dispositivo che si installa in un involucro vuoto. L’uomo liquido si apre a macchine semiotiche che lo orientano di qua o di là, lo possiedono temporaneamente. Il comando che lo apre è come quello della caverna di Alì Babà: per chi ce l’ha è semplice e efficace. Tuttavia,così come si fa possedere da un sistema di valori, allo stesso modo può sostituirlo con un altro, pur che abbia la password. Password che può essere un banale lavoro, per chi ha come prospettiva solo la disoccupazione, o l’adesione a un partito o movimento o altro gruppo che offra a chi è solo un riconoscimento sociale, o l’illusione di una ‘cosa grossa’ che presto arriverà, o magari un po’ di denaro da spendere.

Strategie di manipolazione

Il brano chiude con la spiegazione dei mezzi con i quali le due parti operano. Mezzi speculari, miranti a esiti opposti, ma tutti fraudolenti. Non è contemplata, in Manzoni, la possibilità che vi sia un programma d’azione razionale e legittimo, vi è solo propaganda e manipolazione dissimulata:

Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.

Le speranze e i terrori (l’industria della paura di Bauman), le voci atte a spargere passioni, a dirigere i movimenti: le fake news, l’uso strategico dei social, le montature mediatiche, le strategie del marketing più subdolo. Il testo è molto valido in termini di teoria dei feed back mediatici: il grido, il messaggio, allo stesso tempo esprime, attesta e crea la tendenza della maggioranza. Vale a dire che proviene da essa, ne fa testimonianza, e ritorna su di essa creando (rinforzando) lo stesso valore che era stato generato. Siamo al nucleo della strategia comunicazionale del populismo, che lo distingue dalle ideologie del ‘900: non si tratta più di inculcare idee nella massa, o di aprirle gli occhi sulla propria condizione di sfruttatamento, ma di raccogliere le sue stesse pulsioni, quali esse siano, rinforzarle, dare loro lo ‘spin’ voluto e re-iniettarle in essa per un nuovo ciclo.

Manzoni non dice, e forse non crede, ma, chissà, possiamo pensare che invece lo abbia pensato, di aver enunciato una meccanica della manipolazione delle opinioni. Due minoranze opposte (estremisti VS moderati), spinte verso oggetti di valore opposti da motivazioni sia razionali sia irrazionali e inconsce, danno vita a un gioco strategico conflittuale volto al controllo della maggioranza oscillante, priva di un programma narrativo, ma attirata da passioni contrastanti, ognuna delle quali può essere abbandonata per il suo opposto. Attori meccanici, tutti ciechi, o almeno miopi. Curioso, non si accenna a interventi della Provvidenza, pare il retaggio di una visione illuminista.

Resta però una domanda importante: perché la maggioranza non discrimina tra valori così diversi come estremismo e moderazione? A questo Manzoni non risponde, se non che ricercano l’occasione per provare l’uno o l’altro sentimento: detestare o adorare. Prevale l’iperonimo: provare una passione forte, qualunque essa sia. Ci ritroviamo il mondo d’oggi? Direi di sì. La stessa massa può recarsi a un concerto per adorare una pop star e a una manifestazione politica dedicata al ‘vaffanculo’, nella quale si detestano in coro i politici. Qui però si manifesta un accostamento improprio del testo manzoniano: l’adorazione non è certo moderazione. E’ solo un fanatismo unitivo di contro a un altro oppositivo.

Restando nei paraggi del testo citato (non ho la possibilità di estendere l’indagine a tutto il romanzo) cerchiamo altri elementi utili all’indagine.

Nel racconto, i moderati compaiono distinguendosi dagli estremisti, ma comunque in seno alla massa ribelle o che alla ribellione fa contorno. Renzo però è uno di essi, e la sua trasformazione può essere utile. All’inizio della scena dell’assalto alla casa del vicario, Renzo è un moderato. Al punto che rischia di essere assalito dai facinorosi (i fanatici), quando apostrofa “il vecchio mal vissuto” che propone di uccidere il vicario. E’ attratto e incuriosito dalla rivolta, ha le tasche piene di pane proveniente dal saccheggio, quindi è in parte congiunto con la sommossa, sia pure in modalità ‘liquida’, ma rifugge dalla violenza contro le persone e dall’omicidio. Manifesta il ‘timor di Dio’, che lo caratterizza per tutta l’opera. All’arrivo di Ferrer in carrozza, in Renzo si opera una trasformazione: diventa attivo, si schiera con coloro che difendono e esaltano il cancelliere per il calmiere del pane. E’ un riformista, negli anni ‘70 si sarebbe detto socialdemocratico. La sua conversione, però, è quasi casuale. I sostenitori di Ferrer sono populisti giustizialisti: infatti sono due i motivi che portano a giustificazione del loro sostegno al cancelliere: il calmiere e la speranza (spacciata dall’astuzia di Ferrer per certezza) che egli viene per portare in carcere il vicario. E Renzo, ricordandosi che aveva sentito leggere “vidit Ferrer” da Azzeccagarbugli, in calce ad alcune grida, ed avendo ricevuto rassicurazione che si tratta di un galantuomo (“È un galantuomo, n’è vero?” “Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.”), subito si schiera con i fan del funzionario spagnolo.

Le motivazioni della scelta di Renzo sono dunque entrambe basate su fake news (il calmiere non è stato dettato a Ferrer da considerazioni di tipo morale o sociale ma solo da problemi di ordine pubblico, e non ha nessuna intenzione di portare in carcere il vicario) e la firma delle grida è un segno di distinzione legato al rango del personaggio e non a una sua posizione etica. Tuttavia, il promesso di Lucia è dalla parte dei meno violenti, e quindi per Manzoni è massa ‘buona’. L’autore modello, qui come altrove nel romanzo, non riesce a celare (da buon protodemocristiano) l’opinione che ciò che conta è tenere calme le classi inferiori, non dire loro come stanno le cose. E dunque, l’equivalenza, l’assiologia estremisti VS moderati, scelte ugualmente cieche (anzi, abbiamo visto che gli estremisti sono gli unici ad avere dei disegni, dei propositi) tra le quale la massa ignorante oscilla per motivi aleatori, propende verso il polo moderato, ma non nel comportamento della massa, bensì solo nella visione dell’autore modello.

Se vogliamo avanzare un’ipotesi, possiamo basarla sui due attori che impersonano la moderazione e l’estremismo, e che sono gli unici della folla ad avere fattezze figurative. Renzo da una parte e il ‘vecchio malvissuto’ dall’altra. E la discriminazione tra le due posizioni pare derivare da una causa più remota ma non per questo meno aleatoria: se il vecchio è vissuto male (si potrebbe dire che è stato plasmato malamente dalla società), Renzo è vissuto bene, è un bravo ragazzo. Tuttavia, la causa che determina il loro valore etico si sposta solo a monte, non viene spiegata. Resta esterna alla ragione del soggetto. In Manzoni, d’altra parte, il libero arbitrio è sempre affermato, così come vuole la religione cattolica, ma le vicende della vita esercitano spinte alle quali non sempre è facile opporsi, come nei racconti di Fra Cristoforo, della monaca di Monza e dell’Innominato.

Adorare infine è meglio che detestare, la moderazione è meglio dell’estremismo, anche se entrambi i comportamenti sono derivati da ideologie strumentali, guidati da impulsi inconsci. Vi è un naturalismo di fondo che muove i personaggi manzoniani, probabilmente intrinseco alla forma romanzo così come nasce in occidente.

Il naturalismo, come si è visto, si associa a un certo meccanicismo. La folla, la società, si muove come una grande macchina, un sistema, potremmo dire, nel quale la visione complessiva è negata al singolo, o almeno a chi fa parte della massa3. Tornando alla metafora che associa questo testo al presente, se la sviluppiamo fino a conclusione, ne risulta un misto di cinismo e civismo (Lacan trarrebbe forse un senso dalla somiglianza dei significanti).

Da una parte il populismo si rivela una narrazione effimera e perdente, capace solo di agitare la massa ma senza poterla soddisfare per la propria fallacia pragmatica e logica (l’abbondanza è illusoria, è solo una finzione, le regole del mercato e i poteri della classe dominante prevalgono). Ma dall’altra la moderazione è una narrazione consolatoria, qualcosa che si promuove per tenere buono il popolo. Il cinismo è nel dire che ciò che si può scegliere è solo se oscillare drammaticamente tra abbondanza e carestia (le elargizioni populiste e i conseguenti dissesti) o assestarsi su una inevitabile polarizzazione sociale (il controllo degli eccessi popolari). Il civismo è nel riconoscere che, tra le due scelte, la seconda è meno violenta, meno gravida di odio e rancore e più capace di migliorare lo stato delle cose. E forse (anche se questo non so se Manzoni lo ritenesse importante) anche di ridurre le menzogne che vengono usate per dirigere il popolo.

1 In questo credo che il populismo vada distinto dal totalitarismo in quanto il secondo ha obiettivi chiari, anche se spesso non espliciti, e un modello di società ideale. Il primo ovviamente può trasformarsi nel secondo, e il secondo possiede spesso caratteristiche del primo, sia pure non dominanti.

2 Sarebbe interessante su questo punto un’analisi dell’atteggiamento del populismo verso i numeri. L’ipotesi è che nel linguaggio populista i numeri siano accettati solo quando sono magnificatori del potere del soggetto (“Cacceremo mezzo milione di immigrati” https://www.huffingtonpost.it/2018/01/23/salvini-cacceremo-mezzo-milione-di-immigrati_a_23340743/ Ci sono tot miliardi per i vari programmi del governo https://www.nextquotidiano.it/di-maio-soldi-tria/. Quando i numeri sono invece intesi come misure precise di qualcosa, ecco che vengono sminuiti, e i miliardi vengono espressi, quasi come se fosse un diminutivo, come decimali (https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13404099/manovra-salvini-di-maio-aprono-su-deficit-con-europa-non-e-questione-decimali.html). In ogni caso, i numeri vengono destituiti della loro funzione di misura quantitativa, e diventano meri operatori retorici. Questa operazione rientra nel quadro più generale della comunicazione populista, che mira sempre a distaccare il discorso dall’esperienza, a usarlo non come mezzo per conoscerla e rappresentarla, bensì come strumento per manipolarla e nasconderla.

3 In generale, si vedano soprattutto le descrizioni storiche delle guerre e della peste, Manzoni non assegna mai a un personaggio la visione lucida e completa di una situazione, delle sue cause e dei suoi effetti. Ognuno si muove seguendo i propri obiettivi e principi, quali più egoistici e terreni, quali più nobili e santi, ma nessuno possiede l’onniscienza eroica che si trova in altri romanzi dell’ottocento.

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