Autore: Salvatore Zingale

Due fratelli, lo stesso abito

Che cosa hanno in comune i fratelli di Charles Sanders Peirce e di Diego Armando Maradona? —

Il fratello di Charles Sanders Peirce:

«Mi ricordo bene di quand’ero ragazzo e mio fratello Herbert, ora nostro rappresentante diplomatico a Christiania, era poco più di un bambino: un giorno tutta la famiglia era a tavola, e da una lampada a spirito, o forse da uno scaldavivande, cadde un po’ di alcool incendiato sul vestito di mussola di una delle signore; Herbert balzò in piedi all’istante e fece tutto quello che doveva essere fatto e ogni suo movimento si adattava nel modo più abile allo scopo. Lo interrogai in proposito e mi disse che dalla morte della signora Longfellow aveva spesso passato in rassegna nell’immaginazione tutti i particolari di ciò che si sarebbe dovuto fare in una emergenza simile. Ecco un esempio notevole di un abito prodotto da esercizi nell’immaginazione». (Peirce, CP 5.487).

Così scriveva il filosofo americano in una nota del saggio A Survey of Pragmaticism (1905-1907). Christiania è l’odierna Oslo. L’antefatto accaduto al fratello Herbert accadde a Cambridge nel 1861: la seconda moglie del poeta H.W. Longfellow, mentre sigillava alcuni plichi, lasciò cadere sul suo vestito alcune gocce infuocate di ceralacca; le fiamme l’avvolsero rapidamente procurandole ustioni mortali.

Il paragrafo dove è inserita la nota è quello in cui Peirce definisce l’abito come «la tendenza a comportarsi effettivamente in un modo simile in circostanze simili nel futuro», tenendo conto che «ognuno esercita un maggiore o minore controllo su se stesso modificando i propri abiti».

 

Il fratello di Diego Armando Maradona:

«Quel goal lo avevo sognato tutta la vita, e finalmente mi riuscì, addirittura in un mondiale. Prima di quel mondiale avevo giocato moltissime partite in Italia, in Argentina e nel mondo, ma mai ero riuscito a realizzare quel goal. 

Nel 1979 con la nazionale argentina andammo a giocare a Wembley, la cattedrale del calcio. Ecco, non da così lontano, quasi da metà campo, feci una giocata quasi identica. Quando il portiere – Clemence, non Shilton – uscì, lo fece allo stesso modo in cui è poi sarebbe uscito Shilton nel mondiale del 1986. Con la parte esterna del piede sinistro calciai la palla sul secondo palo, ma andò fuori. Quando ritornai in Argentina, il mio fratello più piccolo mi disse: “Perché non hai dribblato il portiere?”. E io: “Guarda che ho fatto del mio meglio, la cosa migliore che potessi fare!”. E lui: “No, avevi il tempo e lo spazio per dribblare anche il portiere”.

Questa sua osservazione mi rimase in mente, come un pensiero costante. Al mondiale, mi ricordai di quello che lui mi aveva detto solo quando andai a esultare e a urlare “goal!”. Si vede che quel calcolo mi era rimasto in mente».

Questo ha raccontato il campione argentino descrivendo e commentando il secondo gol segnato all’Inghilterra nei mondiali di calcio il 22 giugno 1986 allo Stadio Azteca di Città del Messico.

Il testo qui citato è una mia trascrizione, con aggiustamenti ma fedele, tratta da una intervista ascoltabile sul canale YouTube di Paolo Potenza (<https://youtu.be/wdf2Wus6U3k>, consultato il  10 settembre 2020).

A più di un secolo di distanza, il fratello di Maradona di fatto consiglia al Pibe de Oro di acquisire, con esercizi nell’immaginazione, il medesimo abito su cui per anni si era esercitato il fratello di uno dei fondatori della semiotica moderna, il filosofo dell’abduzione.

 

 

Il tempo al tempo del Coronavirus

1.

In quasi tutte le trasmissioni sul Coronavirus, talk show o servizi di telegiornale, ricorre un discorsetto che non mi convince del tutto: quello secondo cui, passato questo periodo di quarantena ed emergenza, la nostra vita sociale ne guadagnerà. Avremo, si dice, maggiore attenzione per le politiche della salute, una più accorta consapevolezza delle nostre abitudini, riscopriremo il valore delle relazioni, del rispetto e delle regole di convivenza, riporteremo il fattore umano al centro della nostra civiltà, e altro ancora. Insomma, direbbe Lucio Dalla, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno.

L’emergenza del Coronavirus, penso, lascerà certamente molte tracce nelle nostre esistenze, individuali e sociali; se non altro produrrà, come già accade, un’ingente quantità di aneddoti e racconti. Tutti ricorderanno come avranno vissuto nei mesi del Coronavirus – sperando che siano soltanto mesi. Ma alla fine di questa emergenza, temo, tutto tornerà pian piano come prima. All’agio e al benessere nessuno vorrà rinunciare, nemmeno per riscoprire valori e tantomeno per mettere in discussione discutibili abitudini. Del resto, non siamo diventati davvero ambientalisti, consci dei limiti delle nostre risorse, dopo le domeniche senza auto del 1973.

2.

Tuttavia, c’è stata un’osservazione di Stefano Massini, in Otto e mezzo del 13 marzo 2020 (qui), su cui mi piace ritornare.

Lo scrittore osservava che stiamo facendo una diversa esperienza del tempo, non solo (aggiungo io) perché chiusi in casa cerchiamo in tutti i modi il modo migliore di “far passare” il tempo, riscoprendo letture e visioni in streaming, ma perché per la prima volta nella nostra esistenza non sappiamo quando un certo fenomeno avrà fine. Non sappiamo quando tutto ritornerà come prima. All’inizio si trattava di giorni, poi di settimane, ora saranno sicuramente mesi: due, tre, cinque, nove – o più? Non lo sappiamo.

Massini osservava che siamo abituati, noi umani-digitali, a gestire il tempo secondo i nostri desideri, ad esempio a programmare l’arrivo di un acquisto di un prodotto sul web: ad avere ciò che vogliamo quando lo vogliamo. Poter manipolare il tempo – tutto now! – accelera la soddisfazione. Non ci eravamo ben resi conto che la nostra organizzazione sociale aveva posto il tempo al servizio dei nostri desideri; mentre ora ci ritroviamo costretti dalle circostanze a essere noi a chiedere al tempo che cosa possiamo fare. Stiamo tutti in silente attesa, come un bravo maggiordomo che aspetta un cenno del padrone. Certo, possiamo ingannare il tempo, riempirlo in modo creativo, cercando che cosa guardare e cosa leggere da casa (con PornHub che regala piacere a distanza: qui), ma non abbiamo possibilità di programmarlo. Le agende durano al massimo una settimana, poi è il nulla.

3.

Un professore all’università di Tehran, Alireza Ajdari, giusto un anno fa mi spiegava, con ironia, che nella pratica discorsiva iraniana i tempi verbali sono quattro, non tre: passato, presente, futuro e poi “Era dello Scià”. Come se il periodo della monarchia di Reza Pahlavi fosse una enorme parentesi avulsa dalla storia del paese. Oggi per noi è il futuro un agglomerato avulso dal nostro presente: una zona buia. Il tempo di colpo non è un dato su cui possiamo contare; e nemmeno una quantità che possiamo calcolare. I giorni e i mesi davanti a noi si riducono a un generico “dopo il Coronavirus”. Non sappiamo con chi trascorreremo la Pasqua; possiamo al massimo sperare di sapere dove passare il Natale.

Il futuro, in queste condizioni, non è né deducibile né ipotizzabile. Quando tutto si ferma, il futuro esce dal nostro orizzonte cognitivo. Se qualcuno domanda quando finirà l’emergenza Covid-19, l’unica risposta è quella dell’apologo di Uccellacci e uccellini di Pasolini: Boh!

4.

Nell’Era del Coronavirus, mi sono detto, siamo noi a servire il tempo perché ci troviamo palesemente, e non più metaforicamente, in balia del non sapere. Il socratico “sappiamo di non sapere” non è più un artificio metodologico: è proprio così. In questi giorni scopriamo che l’universo della precisione di Alexandre Koyré esiste fino a un certo punto. Siamo ritornati (momentaneamente?) nel mondo del pressappoco. Anche quelli di noi che si sentono bene non sanno se per caso non siano portatori asintomatici: ospitiamo microrganismi patogeni, e potremmo trasmetterli, senza avere sentore alcuno della malattia.

Tutti noi abbiamo vissuto l’epopea del progresso scientifico e tecnologico, ci siamo nati e cresciuti dentro. Abbiamo sempre inconsciamente escluso la totale ignoranza. Se infatti è vero che sono indefinite le cose che non sappiamo, è anche vero che abbiamo a disposizione strumenti che ci permettono di averne conoscenza con poco sforzo e quasi immediatamente. In questo senso, Wikipedia è il modello del possiamo-sempre-conoscere-tutto. Ma nell’Era del Coronavirus no. Nemmeno gli scienziati sanno che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Cercano di sapere, perché è il loro mestiere, e noi speriamo che ci riescano presto. Ma a ogni occasione dichiarano la precarietà di ogni loro previsione, come a proposito della durata dell’immunizzazione dopo l’infezione (qui).

5.

Se così nell’era del Coronavirus il tempo e il sapere sono un terreno buio davanti a noi, per quali vie un tantino illuminate possiamo camminare?

La via epistemologica, abbiamo detto, è quella del futuro indeterminato. Sulla via fenomenologica, però, possiamo sospendere ogni giudizio e zittire ogni angoscia (già, esiste anche la via psichiatrica), non pensare al futuro e spremere il presente di ogni suo succo.

Poi c’è la via poetica, che spesso consola e a volte insegna. E così m’è venuta in mente una canzone di Fabrizio De André e Francesco De Gregori del 1972: Canzone per l’estate. È un discorso rivolto a un tizio – il classico uomo comune, borghese o imborghesito, o proletario soddisfatto – che vive la propria esistenza con ordine e programma, dentro una quotidianità consolata da azioni ripetute: la moglie che lava i piatti, la figlia vanitosa, il cane e le rose in giardino, “ogni giorno un altro giorno da contare”, e soprattutto niente per potersi vergognare (riascoltatela). Insomma, chi più chi meno quel tizio siamo tutti noi. Ma a quest’uomo viene rivolta un’ironica domanda: com’è che non riesci più a volare?

Riascoltando la canzone, parrebbe che De André e De Gregori oggi ce la canterebbero così: “Beh, con tutta la vostra scienza com’è che non riuscite nemmeno a sapere quanti giorni dovete rimanere chiusi in casa?”. Ma sappiamo che la metafora del riuscire a volare è un implicito consiglio: non menatevela con la vostra vita in perenne ricerca di “tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente”; il giorno in cui arrivasse uno sgambetto della natura, come un inconoscibile virus, la vostra vita perfettamente ordinata e programmata rischierebbe di saltarvi in aria. Meglio se imparate a camminare anche per ignoti sentieri, senza sapere dove e quando arriverete. Conviene imparare a volare.

Il filosofo dell’inventiva. Il mio Mab a puntate (1, 2)

Prima puntata. Domenica 4 marzo 2018

In questi giorni sto riscrivendo, in forma di saggio, il testo che avevo preparato per una relazione orale. Più volte ho stampato il mio testo, correggendolo e variandolo. È una procedura comune a molti di noi, nulla di speciale. Eppure, in questo caso c’è qualcosa di nuovo. In questo lavoro non mi sento solo, è come se accanto a me ci fosse il Mab, che mi suggerisce di mettere o togliere una virgola, che mi consiglia dove è meglio usare i due punti, che mi ricorda di controllare i riferimenti bibliografici. Quando annoto correzioni o aggiungo integrazioni sui colonnini laterali del foglio, non sembra la mia mano a scrivere, ma la sua: quella del Bonfa.

Mab e Bonfa erano i due modi in cui chiamavamo Massimo Bonfantini. Il secondo nomignolo era ironico; del primo andava fiero. Tanto che compare nel sottotitolo del suo vero ultimo libro, una raccolta di poesie (Musement. Il canzoniere di Mab). Mab come acronimo: Massimo A. Bonfantini, dove la A. sta per Achille.

Ma non è di questo che voglio qui parlare. Solo del fatto che la presenza del Mab è stata per me talmente intensa, dal 1996 fino a settimana scorsa, che la sua ormai definitiva assenza produce strani effetti. Non è stato il mio professore ai tempi dell’università. Nei locali del Dams lo incrociai solo una volta; poi lo incontrai a casa sua a Milano, nell’estate del 1979, in una stanza dove non c’erano altro che libri, lui in pantaloncini corti, come un adolescente un po’ troppo “corposo”. Aveva 37 anni, i modi dello studioso serissimo e impegnato, uno che si vedeva che aveva fatto la Statale, eppure di grande disponibilità. Ero andato a trovarlo su indicazione di Eco, a chiedergli le fotocopie del capitolo sui grafi esistenziali di Peirce, perché – diceva Eco – potevano servirmi per la tesi. In effetti, quella lettura mi fece capire che io di Peirce non mi sarei mai occupato: nemmeno riuscii a capire perché quei grafi si chiamassero “esistenziali”. Eppure, io sono un appassionato di scritture visuali, di diagrammi e di grafi.

Massimo mi diede le fotocopie, che aveva già preparato, e mi chiese a che cosa mi servissero. Non ricordo la conversazione che ne seguì. Forse mi fece una lezione seduta stante, come suo solito, forse non disse nulla perché non capiva a che cosa davvero mi servisse quell’anticipo di traduzione (Peirce e la poesia visiva?), forse mi offrì un succo di frutta.

Lo rividi più di dieci anni dopo, nel 1991, quando lo invitai a tenere tre lezioni di semiotica per un corso di aggiornamento all’Istituto d’Arte di Monza, dove insegnavo. In effetti, in prima battuta, non avevo pensato a lui, ma a una giovane e promettente ricercatrice del Dams. Poi il caso volle che, per un contrattempo dell’ultimo momento, la ricercatrice del Dams si rese indisponibile, ma io non potevo fare brutta figura con i miei colleghi. Così mi ricordai che Massimo abitava a due fermate di tram da casa mia. Ma abitava ancora a Milano? Sì, anche se insegnava a Napoli. Sarebbe stato disponibile a sprecare tre pomeriggi per noi? Lo era, già al telefono mi disse subito di sì. La sua vocazione di intellettuale militante lo rendeva disponibile a qualsiasi impegno, anche in una sperduta scuola di provincia.

In quell’occasione mi regalò i primi due volumi del Club Psòmega: La forma dell’inventiva (1986) e Il pensiero inventivo (1988). In mezzo il suo la semiosi e l’abduzione (1987), che avevo già da tempo comprato per conto mio.

Cinque anno dopo, nel 1996, è lui che mi telefona, per avermi come cultore della materia al Politecnico di Milano, nel nuovo corso di laurea in Disegno industriale.

Da quel momento in poi, e fino al 19 febbraio scorso, ci siamo visti quasi tutte le settimane. Dapprima nel suo primo ufficio al Poli: uno scantinato polveroso pieno di vecchi faldoni e carta straccia; poi anche a casa sua (anche se c’erano da correggere pochi esercizi degli studenti lui mi bloccava per tutta la sera, cena compresa); alle volte nel mio ufficio grafico-editoriale, dove gli piaceva stare come se fosse alla Bompiani.

Massimo aveva sempre un programma davanti a sé. Gli inviti di Psòmega, i libri da pubblicare, le lezioni da preparare, un viaggio da organizzare. Mi accoglieva sempre con un foglietto scritto a mano: la scaletta, diceva lui. L’ordine del giorno, dicevo io. Punto per punto sbrigavamo sempre tutto. A volte erano faccende che avremmo potuto sbrigare con una telefonata, di dieci minuti, ma lui voleva sempre qualcuno davanti a sé.

Così, dallo scantinato al tinello della sua ultima abitazione, oltre alla semiotica, alla sua semiotica neopeirceana (così amava chiamarla), che imparai soprattutto ascoltandolo nei suoi chilometrici “monodialoghi”, a unirci sono sempre state queste due parole: inventiva e progetto. Parole e princìpi regolatori, che serpeggiavano anche quando si parlava di politica e di storia (le sue grandi passioni), di gialli e di ciclismo (i suoi maggiori divertimenti), di vino e di giornali (i suoi soliti vizi).

“Monodialogo” è un termine che escogitai io, ma non ho mai avuto il coraggio di diglielo. Lui teorizzava la dialogicità, come base di ogni forma di comunicazione e come strumento della conoscenza. Però poi parlava sempre e (quasi) solo lui, anche se non poteva prescindere da un interlocutore. L’interlocutore era il suo specchio: Massimo dava spesso l’idea di essere uno che pensava parlando, o che usava il parlare per rafforzare, verificare, chiarificare il proprio pensiero.

Ma torniamo alla storia iniziata nello scantinato del Poli, dove si ricevevano gli studenti e si svolgevano gli esami. A me fu subito chiaro che la triade semiotica-inventiva-progetto era ciò che da tempo cercavo e che la mia mente distratta non aveva ancora saputo trovare. Perché il pensiero semiotico produce inventiva e l’inventiva dà corso a ogni progetto. E perché ogni progetto è un atto semiotico. O meglio: semiosico.

Il Mab che ho conosciuto io, e che andrei volentieri ancora a incontrare ogni settimana in qualche osteria dell’Ade, è soprattutto questo: il filosofo dell’inventiva.

 

Seconda puntata. Giovedì 15 marzo 2018

Ora sono in viaggio per Napoli. In treno preparo una lezione che terrò domani al Dottorato di Architettura: Abduzione e progetto.

Sabato scorso sono stato quasi tutto il giorno a casa sua, insieme ai figli Bertrando e Carlo. Ho iniziato a mettere occhi e naso dentro i grossi faldoni di cartone del suo archivio. Ne ho guardati solo un terzo. In quei faldoni – e in una quindicina di quaderni “cinesi” – è registrata tutta la vita intellettuale di Massimo. Con un po’ di pazienza, sarebbe possibile stilare una cronistoria di ogni sua attività di studioso e organizzatore, come diceva lui: schede di lettura dai tempi della Statale, articoli per ogni tipo di rivista e giornale, programmi e locandine di conferenze, lezioni. E soprattutto il Club Psòmega.

In alcuni faldoni ho trovato diverse copie di diversi estratti di suoi articoli in riviste e libri. E altri opuscoli. Ecco, mi viene da promettere, sarà bene stilare una sua bibliografia, seguire le tracce dei diversi contributi che Massimo ha lasciato. E mi viene in mente che, a dire il vero, Massimo ha scritto un’infinità di articoli, saggi, interventi, per diverse occasioni, ma pochi libri. Non raggiungono forse la decina i volumi che lo vedono come autore unico, ma sono più di cento i libri (e i “libretti”) da lui curati o scritti insieme ad altri. Massimo era un disseminatore, più che un autore. Era decisamente egotista, come con ironica sincerità si definiva, ma il suo ego doveva sempre stare in mezzo a un consesso dialogico. Non cercava il successo editoriale, ma non mancava di scrivere per ogni occasione che gli si presentava e di coinvolgere anche l’ultimo arrivato nei suoi progetti.

Torniamo ai faldoni. In uno di questi trovo un opuscolo del 1992, un quaderno della Facoltà di Architettura di Napoli, Scuola di specializzazione in Disegno industriale. Ma non dell’Orientale, dove ai tempi Massimo insegnava, della Federico II, dove io sono ora diretto e dove domani terrò la mia lezione. In questo quaderno c’è un articolo di Massimo: L’abduzione architettonica. Insomma, mi viene da notare, ventisei anni dopo il destino mi mette ancora sulle sue tracce. E l’abduzione inventiva è il filo che ci tiene ancora insieme.

Poi leggo il suo intervento. Si tratta la riscrittura di una conferenza di un paio di anni prima, un testo scritto “come un discorso parlato”. Leggendo sembra proprio di sentirlo parlare. Del resto, Massimo è del tutto dentro questo testo, soggetto dell’enunciazione che enuncia sé stesso, con tanto di data: «Adesso che sono qui che batto a macchina il testo della conferenza, è il 16 marzo 1989, mi viene in mente che …». Rileggo: sedici marzo. Ma domani è il sedici marzo. No, non penso al quarantesimo anniversario del sequestro Moro, penso che è proprio domani, 16 marzo 2018, che io terrò la lezione sull’abduzione nel progetto architettonico. Il filo è davvero forte.

Sono solo coincidenze, mi dico. E mi ripeto la nota sentenza di John Locke (non il filosofo, quello di Lost): “Non confondere le coincidenze con il destino”. Infatti, va da sé, io non coincido con Massimo, sono sempre state troppe le differenze fra di noi (di gusto, di comportamenti, di interessi); ma forse il caso ha voluto destinarmi verso i luoghi della sua filosofia.

continua…

Le scale del deficiente e le soglie di Genette

Giusto l’altro ieri, a poco più di una settimana dall’apertura, arriva il primo post sulla pagina Ocula su Facebook. l’autore è anonimo. È arrabbiato con il suo telefono cellulare, perché ci mette mezz’ora a scaricare due foto, fra cavo USB e driver da scaricare. Ed esclama, il nostro amico: “Serve una semiotica critica delle interfacce!!! Ma kattiva”.

Giusto. Merita una risposta, mi son detto. Anche se, in questo caso, mi affido più a una serie di libere associazioni.

Infatti, questa voglia di una semiotica “kattiva”, con la K dei bei tempi del ’ 77 (“Okkupazione!”), mi ha fatto venire in mente che proprio su Facebook c‘è ancora, seppur dormiente, un gruppo che si chiama “Scale della Bovisa: il progetto di un deficiente”. Un titolo kattivo.

Ma di che si tratta? E la critica semiotica dell’interfaccia?

Si tratta di questo:

Una scala dai gradini (gradoni) larghi. Tanto larghi che a guardare le persone salire e scendere (centinaia al giorno) ti sembra di vedere una colonia di sciancati. Sono scale sulle quali ti tocca fare il passo più lungo della gamba. O a fare un mezzo passo. Sono scale costrittive: quando le percorri, ti rendi conto che non sei più tu a muoverti nello spazio, ma è lo spazio (in questo caso quello della pedata, ossia dove si appoggiano i piedi) che ti guida in una danza traballante.

Ecco, anche le scale sono interfaccia. Non si cliccano, ma si calpestano. Del resto il successo del touchscreen è anche questo: riportare i gesti di interazione con gli e sugli oggetti al livello più basico, quello del toccare. Toccare e provocare. Toccare e modificare. Toccare e far accadere. Il mondo artefattuale è pieno di interfacce. Facce delle cose attraverso cui entri nelle cose, o che per lo meno ti permettono di comprendere il modo di farne uso. E tutto, prima o poi, si tocca. Anche le facce degli altri, nell’intimità.

Già, che saremmo noi senza faccia? E che sarebbe un’automobile senza cruscotto? E un computer senza monitor? Apple sta togliendo tutto, dal computer. Via il floppy, via il cd, via tastiera e mouse, via i fili e ogni corpo separato. I suoi post-computer sono (quasi) solo screen. Che poi screen non è solo lo schermo, è anche un paravento o un muro divisorio; qualcosa che copre e che protegge, che permette di controllare: to be screened.

Lo screen – specialmente se touch – è forse l’artefatto che meglio rappresenta tutti gli artefatti: perché è un dispositivo di accesso, di passaggio e di mediazione, di traduzione. Anche l’idea di affordance ci riporta al varco e al guado (the ford). Le scale sono oggetti-luoghi di accesso e traduzione. Così come lo è un peritesto, ciò che invita e intruduce al testo, come la copertina di un libro, il lembo di una confezione, un cartello segnaletico.

E già, noi semiotici mica le abbiamo pensate male. Ricordate il paratesto, il peritesto e l’epitesto? (http://it.wikipedia.org/wiki/Paratesto). Ricordate le soglie di Gérard Genette? (http://it.wikipedia.org/wiki/Soglie). Scale, porte, paraventi, segnaletiche e schermi sono tutte soglie. Il design della comunicazione, in fondo, è design dell’accesso.

Ecco allora un campo in cui la semiotica non ha da essere solo kattiva. Può perdere la K, diventando attiva. Una semiotica che fa e che fa fare. Che sa operare, o che sa dire come operare, come maneggiare le cose, come pensarle pensando a che cosa accade una volta che vengano maneggiate.

L’ignoto (spero per lui) progettista delle scale della Stazione Bovisa, quello che si è beccato del “deficiente” su FB, questo soggetto ignoto (ma temo che si tratti di più soggetti) non è solo un progettista che fa male. È un progettista che non ha pensato le cose che progettava. Cioè non pensa le cose che pensa.

Fine delle libere associazioni.

Semiotica, scienza collaborativa. Con chi?

Negli ultimi anni la semiotica – o almeno la semiotica che da noi va per la maggiore – pare che abbia sempre più voglia di contaminarsi con altre scienze: prima la sociosemiotica, poi la psicosemiotica e più recentemente l’etnosemiotica. Per qualche tempo, mi sono chiesto se non si dovesse dar vita – nell’ambito delle collaborazioni fra la semiotica e le discipline progettuali, dal design all’ingegneria – a una “ergosemiotica”. Il termine, del resto, è già stato coniato, nell’ambito della Human-computer interaction, da Gennady Uzilevsky e altri.

Perché?

Questa tendenza all’estensione non dovrebbe meravigliare più di tanto. Da sempre la semiotica è una disciplina “collaborativa”, strumento scientifico di altre scienze. E poi, ognuno di noi già di per sé sposa la semiotica ad altri mondi, spesso fra loro distanti (filosofia, letteratura, arte, medicina, media, storia, cucina, religioni, ecc.). Siamo un po’ come i profughi di Lost (ultimo episodio proprio oggi) appena precipitati sull’isola: ognuno porta con sé il proprio passato.

Il problema non sta qui. Il problema forse sta nel fatto che le “altre” discipline, per quanto aperte ad accogliere i metodi e gli sguardi semiotici, non sembrano avere esplicitamente fatto richiesta del sapere della scienza dei segni. La accolgono, ma forse senza cercarla.

Ad esempio: perché persiste una certa distanza (di sicurezza?) fra l’epistemologia e la semiotica? E fra la semiotica e le neuroscienze? E perché la semiotica dei “filosofi” mal s’accoppia con la semiotica dei “semiologi”?

Si tratta di una (mia) sconfortata impressione, di un problema, o di una cosa da nulla?

Oh, KaDeWe!

Il post di Giampaolo da Berlino mi riporta indietro di un paio di decenni, quando a Berlino, nel 1984, gli amici mi portarono al KaDeWe – oltre che alla Philarmonie, al Mauer, alla Neue Nationalgalerie di Mies, eccetera.

KaDeWe sta per “Kaufhaus des Wenstens”: “Grandi magazzini dell’Ovest”. Appena messo dentro il primo piede mi sembrò il paese della cuccagna. Niente a che vedere con le pur grandi “Kaufhäuser” che conoscevo a Francoforte e in altre città. Dentro c’era di tutto. Un lusso. Intere boutiques d’alta moda. Ristoranti. Forse anche una pizzeria. Vendite di pesce fresco come fossimo sul mediterraneo. Macellerie e panetterie. Sette piani, otto piani. Eccetera. Ma più che l’immagine di questa interminabile moltitudine di merci, ricordo una cosa piccola. Un barattolo che qualcuno mi fece notare sullo scaffale delle carni inscatolate. Rotondo. Giallo. O rosso? arancio? Non importa. Importa ciò che cosa c’era scritto su: Löwenfleich. Carne di leone.

In epoca post-coloniale e pre-globalizzata, sarebbe stato un bel souvenir. Ne volevo comprare due confezioni, una da esibire l’altra da custodire. Ma le mie deboli tasche mi dissero di no, costava troppo. Neanche una. Quanti marchi? Non ricordo. Negli occhi mi rimane solo il muso di un leone dentro un cerchio. Più o meno come quello della Metro Goldwyn Mayer.