Categoria: Storia

Il tempo al tempo del Coronavirus

1.

In quasi tutte le trasmissioni sul Coronavirus, talk show o servizi di telegiornale, ricorre un discorsetto che non mi convince del tutto: quello secondo cui, passato questo periodo di quarantena ed emergenza, la nostra vita sociale ne guadagnerà. Avremo, si dice, maggiore attenzione per le politiche della salute, una più accorta consapevolezza delle nostre abitudini, riscopriremo il valore delle relazioni, del rispetto e delle regole di convivenza, riporteremo il fattore umano al centro della nostra civiltà, e altro ancora. Insomma, direbbe Lucio Dalla, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno.

L’emergenza del Coronavirus, penso, lascerà certamente molte tracce nelle nostre esistenze, individuali e sociali; se non altro produrrà, come già accade, un’ingente quantità di aneddoti e racconti. Tutti ricorderanno come avranno vissuto nei mesi del Coronavirus – sperando che siano soltanto mesi. Ma alla fine di questa emergenza, temo, tutto tornerà pian piano come prima. All’agio e al benessere nessuno vorrà rinunciare, nemmeno per riscoprire valori e tantomeno per mettere in discussione discutibili abitudini. Del resto, non siamo diventati davvero ambientalisti, consci dei limiti delle nostre risorse, dopo le domeniche senza auto del 1973.

2.

Tuttavia, c’è stata un’osservazione di Stefano Massini, in Otto e mezzo del 13 marzo 2020 (qui), su cui mi piace ritornare.

Lo scrittore osservava che stiamo facendo una diversa esperienza del tempo, non solo (aggiungo io) perché chiusi in casa cerchiamo in tutti i modi il modo migliore di “far passare” il tempo, riscoprendo letture e visioni in streaming, ma perché per la prima volta nella nostra esistenza non sappiamo quando un certo fenomeno avrà fine. Non sappiamo quando tutto ritornerà come prima. All’inizio si trattava di giorni, poi di settimane, ora saranno sicuramente mesi: due, tre, cinque, nove – o più? Non lo sappiamo.

Massini osservava che siamo abituati, noi umani-digitali, a gestire il tempo secondo i nostri desideri, ad esempio a programmare l’arrivo di un acquisto di un prodotto sul web: ad avere ciò che vogliamo quando lo vogliamo. Poter manipolare il tempo – tutto now! – accelera la soddisfazione. Non ci eravamo ben resi conto che la nostra organizzazione sociale aveva posto il tempo al servizio dei nostri desideri; mentre ora ci ritroviamo costretti dalle circostanze a essere noi a chiedere al tempo che cosa possiamo fare. Stiamo tutti in silente attesa, come un bravo maggiordomo che aspetta un cenno del padrone. Certo, possiamo ingannare il tempo, riempirlo in modo creativo, cercando che cosa guardare e cosa leggere da casa (con PornHub che regala piacere a distanza: qui), ma non abbiamo possibilità di programmarlo. Le agende durano al massimo una settimana, poi è il nulla.

3.

Un professore all’università di Tehran, Alireza Ajdari, giusto un anno fa mi spiegava, con ironia, che nella pratica discorsiva iraniana i tempi verbali sono quattro, non tre: passato, presente, futuro e poi “Era dello Scià”. Come se il periodo della monarchia di Reza Pahlavi fosse una enorme parentesi avulsa dalla storia del paese. Oggi per noi è il futuro un agglomerato avulso dal nostro presente: una zona buia. Il tempo di colpo non è un dato su cui possiamo contare; e nemmeno una quantità che possiamo calcolare. I giorni e i mesi davanti a noi si riducono a un generico “dopo il Coronavirus”. Non sappiamo con chi trascorreremo la Pasqua; possiamo al massimo sperare di sapere dove passare il Natale.

Il futuro, in queste condizioni, non è né deducibile né ipotizzabile. Quando tutto si ferma, il futuro esce dal nostro orizzonte cognitivo. Se qualcuno domanda quando finirà l’emergenza Covid-19, l’unica risposta è quella dell’apologo di Uccellacci e uccellini di Pasolini: Boh!

4.

Nell’Era del Coronavirus, mi sono detto, siamo noi a servire il tempo perché ci troviamo palesemente, e non più metaforicamente, in balia del non sapere. Il socratico “sappiamo di non sapere” non è più un artificio metodologico: è proprio così. In questi giorni scopriamo che l’universo della precisione di Alexandre Koyré esiste fino a un certo punto. Siamo ritornati (momentaneamente?) nel mondo del pressappoco. Anche quelli di noi che si sentono bene non sanno se per caso non siano portatori asintomatici: ospitiamo microrganismi patogeni, e potremmo trasmetterli, senza avere sentore alcuno della malattia.

Tutti noi abbiamo vissuto l’epopea del progresso scientifico e tecnologico, ci siamo nati e cresciuti dentro. Abbiamo sempre inconsciamente escluso la totale ignoranza. Se infatti è vero che sono indefinite le cose che non sappiamo, è anche vero che abbiamo a disposizione strumenti che ci permettono di averne conoscenza con poco sforzo e quasi immediatamente. In questo senso, Wikipedia è il modello del possiamo-sempre-conoscere-tutto. Ma nell’Era del Coronavirus no. Nemmeno gli scienziati sanno che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Cercano di sapere, perché è il loro mestiere, e noi speriamo che ci riescano presto. Ma a ogni occasione dichiarano la precarietà di ogni loro previsione, come a proposito della durata dell’immunizzazione dopo l’infezione (qui).

5.

Se così nell’era del Coronavirus il tempo e il sapere sono un terreno buio davanti a noi, per quali vie un tantino illuminate possiamo camminare?

La via epistemologica, abbiamo detto, è quella del futuro indeterminato. Sulla via fenomenologica, però, possiamo sospendere ogni giudizio e zittire ogni angoscia (già, esiste anche la via psichiatrica), non pensare al futuro e spremere il presente di ogni suo succo.

Poi c’è la via poetica, che spesso consola e a volte insegna. E così m’è venuta in mente una canzone di Fabrizio De André e Francesco De Gregori del 1972: Canzone per l’estate. È un discorso rivolto a un tizio – il classico uomo comune, borghese o imborghesito, o proletario soddisfatto – che vive la propria esistenza con ordine e programma, dentro una quotidianità consolata da azioni ripetute: la moglie che lava i piatti, la figlia vanitosa, il cane e le rose in giardino, “ogni giorno un altro giorno da contare”, e soprattutto niente per potersi vergognare (riascoltatela). Insomma, chi più chi meno quel tizio siamo tutti noi. Ma a quest’uomo viene rivolta un’ironica domanda: com’è che non riesci più a volare?

Riascoltando la canzone, parrebbe che De André e De Gregori oggi ce la canterebbero così: “Beh, con tutta la vostra scienza com’è che non riuscite nemmeno a sapere quanti giorni dovete rimanere chiusi in casa?”. Ma sappiamo che la metafora del riuscire a volare è un implicito consiglio: non menatevela con la vostra vita in perenne ricerca di “tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente”; il giorno in cui arrivasse uno sgambetto della natura, come un inconoscibile virus, la vostra vita perfettamente ordinata e programmata rischierebbe di saltarvi in aria. Meglio se imparate a camminare anche per ignoti sentieri, senza sapere dove e quando arriverete. Conviene imparare a volare.

Da Andreotti a Di Maio: la comunicazione politica ieri e oggi

Farà sicuramente parte degli abiti acquisiti dai semiotici quello di vedere opposizioni ovunque, dunque qualche volta anche sforzate, ma quella che mi balza agli occhi in queste settimane in cui in Italia si cerca di formare un governo mi pare solare.

Penso infatti al contrasto tra le trattative della cosiddetta Prima Repubblica e quelle attuali, per come si relazionano con i media e per le logiche argomentative e i contratti di veridizione che prevalgono.

Ieri

1. Un tempo le trattative erano quasi segrete, a volte segrete per davvero; i comunicati dei partiti erano stesi in un linguaggio oscuro che veniva interpretato dagli specialisti. Nessun segretario di partito si sarebbe mai spinto a fare la profferta di un’alleanza in televisione o su un giornale. Le trattative avvenivano privatamente, e solo a contratto stipulato si facevano dichiarazioni alla stampa. Il resto era ammantato dal mistero e oggetto di ipotesi, congetture, rivelazioni più o meno attendibili.

2. Quanto alle logiche, vi era una larga porzione di implicito che non veniva neppure sollevato, ma che era assodato. Si trattava di una cultura nella quale si riteneva sconveniente anche la semplice sottolineatura dei rapporti forza. I segretari della DC e del PCI non si sarebbero mai autodefiniti ‘capo politico’ o ‘leader’. Queste ostentazioni sarebbero apparse ridicole. Il segretario era eletto dal congresso del partito, e rispondeva regolarmente agli organi dirigenti. Il PCI, per tradizione, aveva segreterie di ferro, in diversi casi interrotte solo dalla morte, ma mai e poi mai un comunista si sarebbe arrogato la definizione di ‘leader’ o ‘capo’. Inoltre, nessuno si sarebbe mai permesso di definirsi ‘candidato premier’. La Costituzione era data per nota. L’Italia era (ed è) una repubblica parlamentare, e il presidente del Consiglio dei ministri non viene eletto direttamente. Allo stesso modo, le dimensioni della rappresentanza erano note e per questo taciute. Mai un democristiano aveva bisogno di dire “Siamo il primo partito italiano”. Lo sapevano tutti, come sapevano che era il partito di maggioranza relativa, che non avrebbe mai potuto governare da solo.

3. Altro punto erano la posizioni esplicitate. Si trattava ancora di una cultura nella quale la parola ufficiale di un dirigente di partito, esprimente una posizione a volte faticosamente raggiunta dopo discussioni e mediazioni interne, aveva comunque una sua solidità. Anche perché nessun leader era un capo assoluto, neppure nel PCI o nel MSI, ufficialmente i partiti con riferimenti ideologici più autoritari. Non parliamo della DC, divisa in innumerevoli correnti e sempre attraversata dal farsi e disfarsi di alleanze e consorterie.

Diciamo che c’era una decisa divisione tra uno spazio privato, interno, che era quello degli organi dirigenziali dei partiti, e lo spazio pubblico, da una parte dei congressi, e dall’altra delle istituzioni.

Questo era dovuto anche a un sistema mediatico molto più ridotto (due-tre reti TV generaliste pubbliche, e poi pian piano le TV Mediaset, a partire dagli anni ‘80), niente internet, le prime radio private in FM. Quotidiani e settimanali erano più o meno come ora, però più autorevoli. I quotidiani di partito erano molto più letti. Tuttavia, non erano i media a manipolare la politica, tutt’al più il contrario. Per dare alcuni esempi, trovate qui sotto tre testi tratti da trasmissioni politiche RAI. Appare abbastanza evidente come il discorso dei politici sia più o meno di tipo parlamentare o comiziale, sommesso, controllato e basato sul registro verbale. Si noti che Aldo Moro addirittura legge il suo discorso, cosa oggi inconcepibile. A parte le osservazioni vane su come cambiano i tempi, leggere un testo scritto implica che lo sia sia scritto, dunque ponderato e corretto. Implica una riflessione. Le dichiarazioni twittate o dette a una videocamera, di poche parole e senza preparazione apparente, non per questo non possono essere preparate e persino discusse, ma l’effetto è di enunciazioni rapide, improvvisate, sparate sul momento.

Oggi

Oggi, in seguito a un processo di progressiva trasposizione della politica sui media, in particolare la TV generalista e internet, i tre punti sopra elencati si sono rovesciati, e lo si evidenzia chiaramente dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018.

1. Le trattative segrete sono ovviamente sempre praticate, ma vengono spesso anticipate da dichiarazioni pubbliche, o interviste, a volte estremamente dettagliate. Vi è una specie di esibizionismo comunicativo, del quale spesso si è parlato a proposito dei reality show. Si tratta di un impulso socio-psicologico che si contrappone al pudore e alla privacy e che i nuovi media hanno riportato alla luce. D’altra parte, si può supporre che l’eccesso di rappresentazione sia per i leader anche un modo di scrivere le loro affermazioni in una sorta di registro mediatico, proprio perché si trovano ad agire in un ambiente molto più insicuro di quanto appare. La tendenza a formare partiti personali, e a dare loro l’aspetto di organizzazioni verticistiche, nelle quali vige il Führerprinzip, è di fatto mera apparenza. In ogni organizzazione politica, in particolare quando una parte dei membri è eletta dal popolo, sono ovviamente necessarie mediazioni. Questo è ancor più vero per le coalizioni, che si reggono su contratti fiduciari. Ma soprattutto, la caduta delle fedeltà ideologiche consente spostamenti intra e inter-partito, scissioni, cambi di gabbana, smentite e ribellioni quasi incontrollabili. L’espulsione dal partito, un tempo pena ignominiosa, oggi fa ridere. Al punto che formazioni come i 5stelle hanno introdotto ammende monetarie (non propriamente costituzionali, probabilmente) per assicurare la disciplina di partito. Le esternazioni mediatiche, riservate al leader a causa del personalismo dei media visuali, rappresentano anche un modo per fermare dei punti prima e indipendentemente dal confronto interno.

2. Le argomentazioni mediatiche oggi adottate sono anch’esse molto diverse dal passato. Oggi i rapporti di forza sono da una parte continuamente ribaditi (“Siamo il primo partito”, “Abbiamo avuto 11 milioni di voti”; “Siamo la prima coalizione”, “Abbiamo il maggior numero di elettori”, “Abbiamo perso” “Siamo all’opposizione”), dall’altra appaiono svanire quando si viene ai fatti.

I ragionamenti che giustificano le scelte tattiche (quelle strategiche sono assai incerte) sono assenti, i leader o capi non motivano le loro decisioni. Le trattative tendono ad essere presentate come “contratto”, “punti del programma”, e predominano semplificazioni del tipo “fare cose buone”, “fare il bene del Paese”, che in sostanza non hanno alcun significato pratico.

Se il quadro del passato era quello di un sistema chiuso dentro le mura dei partiti, soggetti impenetrabili e impermeabili, quello di oggi appare un sistema in cui modelli ultra-semplificati vengono continuamente ri-enunciati, ribaditi, ma la forza dell’enunciazione maschera un grande vuoto dell’enunciato. Fuori dal gergo semiotico, si parla a voce alta ma non si dice niente. Se la retorica della Prima Repubblica era quella di una classe politica consociata e imbalsamata ma fermamente al potere, a fronte di un’opposizione che non poteva governare, quella di oggi appare come un’esibizione rituale di forza animalesca priva di efficacia.

3. Per quanto riguarda le logiche dei contenuti politici, la situazione attuale è in apparenza quella di perdita di coerenza e di una cancellazione delle norme di comportamento codificate. A parte le espressioni (come invitare gli avversari politici a “pulire i cessi”, impensabili anche nelle più accese tribune politiche), le alleanze e gli impegni sembrano non creare vincoli e le promesse nascere già destinate ad essere infrante. Si può invitare apertamente un partito a rompere un’alleanza, si può cambiare un programma anche nei suoi punti più significativi, si può pretendere apertamente la presidenza del Consiglio in assenza di qualsiasi supporto costituzionale, si può dire il contrario di quanto si è detto il giorno prima, si possono dichiarare trattative chiuse per sempre e riaprirle il giorno dopo. Si può proporre apertamente al Presidente della Repubblica di ricevere un incarico per presentare un governo alle Camere, sapendo di non avere la fiducia ma per gestire il periodo pre-elettorale. Questo sistema genera un effetto generale di fuzzyness, le posizioni politiche diventano sempre più nebulose, prive di un profilo preciso, ai leader restano solo una voce e una faccia, ma progressivamente si svuotano di sostanza. Nella (cosiddetta) prima repubblica, i programmi di governo erano vaghi, ma i principi generali erano granitici (per esempio, la DC era per la NATO e con gli USA, il PCI era per l’URSS e anti-atlantico) e le promesse clientelari (stipulate sottobanco o quasi) generalmente rispettate. Lo Stato era occupato da una maggioranza eterna che si poteva permettere anche azioni illegali, quando giustificate dalla ragion di stato.

Ora pare che né i principi né le promesse abbiano consistenza. I contenuti dell’agenda politica si manifestano emergendo senza preparazione né preavviso e le decisioni sembrano venir prese in una quasi totale dipendenza dalla circostanza del momento.

Conclusione

In generale, considerando l’esistenza della Repubblica Italiana di circa settant’anni, si può tracciare una demarcazione tra un primo periodo nel quale la sicurezza atlantica è stato il punto fermo e imposto dal controllo internazionale, e un secondo periodo nel quale la sfera di appartenenza prioritaria è diventata quella europea, ma il vincolo non è stato imposto in modo così deciso. Il primo periodo ha avuto il suo momento di crisi nel 1978, con il PCI a un passo dal governo, sventato dall’avvento di Craxi e dall’operazione Moro. Il secondo ha il suo momento critico nel 2018, in questi mesi, con i partiti populisti anti-europei sulla soglia di Palazzo Chigi. Gli attori in causa e i metodi non possono più essere gli stessi, e le decisioni non vengono prese sulla base di equilibri geopolitici da apparati civili/militari. Ora sono i soggetti finanziari, già intervenuti nel 2001 in una situazione simile, quelli che possono prendere l’iniziativa. I prossimi mesi ci diranno cosa accadrà. I lettori considerino però che il distacco dell’Europa dalle vicende italiane spesso è solo apparente, e raramente disinteressato. L’Italia fu fortemente sollecitata dagli altri stati europei, prima ad entrare nel sistema monetario e poi nell’Euro, per evitare che il suo sistema industriale si avvantaggiasse di una valuta più debole. Ora il problema è superato in quanto il nostro sistema industriale è stato decisamente ridimensionato, ma è impensabile che i partner europei non siano consapevoli della perdita di PIL italiano nei loro confronti (dal 2000 è stata del 23,6% vedi), vale a dire del vantaggio competitivo che hanno acquisito. Il governo francese si sta dolorosamente preparando alla fine del Quantitative Easing, l’Italia è ferma, immobile, addirittura a rischio di governi che dichiarano di voler accrescere la spesa pubblica. Aspettare ancora a sollevare a Bruxelles il tema della guerra economica interna alla UE e della necessità di limitarla è sempre più pericoloso.

Questi punti sono poco più che ipotesi, che andrebbero verificate con una ricerca più solida. Possono essere utili per avere un quadro più ampio del presente e una conoscenza più approfondita del passato.

Alcuni link, reperiti con una prima selezione:

https://www.youtube.com/watch?v=W-YQmv9hWM4 (Berlinguer 1972)

https://www.youtube.com/watch?v=2S8OrXwYIN0 (Almirante 1975)

https://www.youtube.com/watch?v=fB-W9GNVe_o (Moro 1976)

https://www.youtube.com/watch?v=thHL4_EIQGA (Di Maio 6/5/2018) (Annunziata)

Il centrodestra propone di andare in Parlamento senza un accordo: http://www.la7.it/laria-che-tira/video/matteo-salvini-in-diretta-dal-quirinale-conto-di-trovare-una-maggioranza-07-05-2018-240940

Lo sterminio come progetto

Nel maggio del 1983 fui invitato a partecipare ad un viaggio della memoria in alcuni campi di detenzione, tortura e sterminio di Austria e Germania. Ero ospite dell’associazione dei reduci in rappresentanza della mia scuola, l’ISA di Pisa. Oltre alla visita di alcuni infrastrutture austriache ’ minori’, centri in cui si compivano esperimenti pseudo scientifici che avevano come vittime prescelte varie categorie di infelici ed emarginati sociali, due dei cinque giorni di viaggio furono dedicati alle visite di Dachau (vicino a Monaco di Baviera) e di Mauthausen (vicino a Linz). I due campi, anche per fatti accaduti durante le fasi della liberazione si sono conservati in modi molti differenti. Dachau era, ed è, un museo in cui l’orrore è neutralizzato. Infatti, le baracche di Dachau furono tutte bruciate per un’epidemia di tifo esplosa subito dopo l’arrivo degli americani. Inoltre, nella primavera del 1983 (ma il Web dice che è ancora così) i forni crematori e l’area delle esecuzioni erano immersi in un floridissmo e fiorito giardino che annullavano l’orrore di ciò che erano stati. È ridicola mi apparve anche l’unica baracca che era stata ricostruita ex novo nello sterminato spazio del campo. Aveva appesa al suo interno la sua brava gigantografia pronta a illustrare chi e come, ai confini dell’umano, popolava quei loculi cosà lindi e profumati di ottimo legno alpino. Senza dimenticare l’immancabile cestino dei rifiuti, non solo in linea con gli standard allestitivi della museografia tedesca, ma messo là per evitare che i turisti sporcassero un luogo sacro.

Mauthausen, invece, in una giornata grigia e piovosa si manifestò subito assai più tetro. Gli austriaci sono stati ben attenti a conservare l’alea di orrore del luogo e hanno arricchito di cartelli, mappe, didascalie ogni luogo, dispositivo ed oggetto. Sì, è un luogo museificato anche quello ma aveva/ha (non ci sono più tornato) la capacità di rappresentare la caratteristica saliente di quella indicibile impresa, quella che almeno a me ha fatto maggiormente effetto. Si tratta della dimensione sistematica e industriale dello sterminio. Certo, senza gli innumerevoli cartelli di oggi la fortezza-prigione in cui si penetra non ha una faccia orribile, anche se non maschera la sua natura di spazio reclusivo duro e opprimente. Un orrore smisurato emerge invece appena si passa a guardare le mappe e si comincia a ragionare su come quello spazio era organizzato; quali funzioni avevano le varie aree; la ratio terribile della successione di passi che conducevano all’annientamento dei prigionieri nei loro ultimi e progressivi atti di spoliazione dei loro residui di identità (protesi e abiti); come la struttura, se non ne manteneva il segreto assoluto, celava la vista del massacro perché le stesse vittime non avessero piena consapevolezza dell’immediato compiersi del loro destino. L’orrore sta infatti nell’agghiacciante logica progettuale che opera per l’abominio e simultaneamente per il suo nascondimento e questo è un contenuto testimoniale che i campi mantengono ancora intatto. Solo a guardare le mappe si capisce infatti come tutto quello spazio concentrazionario convergesse con estrema lucidità programmatoria nel luogo di annientamento e tutto concorresse a tenere nascosto quel luogo, la sua funzione e i processi in corso. Quella che posto qui è una foto sintomatica in questo senso (fonte è il Web). Da una delle porte entravano i prigionieri condotti a lavarsi. Una volta chiusa la porta i vapori dello zyklon-b si liberavano dai diffusori delle docce e quando dallo spioncino della seconda porta si poteva constatare l’avvenuta formazione della tipica piramide di corpi avvinghiati nella disperata ricerca di aria respirabile la gassificazione cessava. Era il momento di far circolare aria pulita. Quindi la seconda porta si apriva e i corpi venivano tratti verso i forni. Percorso unicursuale: irreversibile ed efficientemente protetto.

Il vespaio nella foiba

A proposito della trasmissione di Vespa sulle Foibe, potrei lamentarmi delle tecniche ben note che ha impiegato per costruire una finta trasmissione “equilibrata”, e basterebbe citare il fatto che gli eccidi italiani in Slovenia sono stati relegati all’una di notte e senza discussione alcuna. Ma quello che mi è parso un imprevisto interessante, nella trasmissione di Vespa, è l’emergere di una opposizione tra il discorso giornalistico e quello storico, e le rispettive epistemologie. E in effetti i due storici invitati, la Kersevan e Pupo, seduti ai lati opposti del salotto vespasiano, invece di recitare la parte della verità italiana e iugoslava che gli era stata affibbiata, andavano un po’ troppo d’accordo tra loro, e troppo poco con il resto degli ospiti.
Per la logica del medium televisivo, si sa, “dire” non è sufficiente: occorre “mostrare”. E per il contratto di fiducia tra giornalista e ascoltatore, pilastro del giornalismo moderno, quel che si mostra è vero. Che sorpresa quando lo storico (Kersevan) ha pizzicato nel servizio giornalistico degli scherani di Vespa sui crimini atroci, commessi dai partigiani titini ai danni degli italiani, una foto che documentava l’esatto opposto: soldati regolari italiani, riconoscibili dagli elmetti, nell’atto di fucilare i contadini (li allego). Pupo, lo storico cui la trasmissione ha assegnato il ruolo di rappresentare la parte italiana non può che confermare. E che sorpresa quando dichiara che di sterminio etnico non si può certo parlare, visto che l’ideologia dei comunisti partiva da valori diversi e che le vittime non erano “genericamente” italiani, ma a ragione o a torto identificate dai partigiani con lo stato fascista. O quando taccia di rozzezza le argomentazioni dei due politici presenti: si trattava di Gasparri e Rizzo, davvero una facile accusa, ma perché sono stati invitati proprio due persone dagli evidenti disturbi cognitivi? Infine, Pupo concorda con la Kersevan sul fatto che ciclostilati e volantini che all’epoca denunciavano l’eccidio non sono veritieri sol perché d’annata, ma hanno bisogno comunque di una verifica attraverso un controllo incrociato delle fonti.
E questo mi pare davvero il nodo. Posto che quella di Vespa sia davvero una trasmissione giornalistica, occorre concludere che i criteri che costituiscono la verità interna a quel discorso sono enormemente più deboli rispetto a quelli richiesti da un qualunque storico. Il che rende problematica “la storia in prima serata”, che la faccia Vespa o Minoli. Il ritmo diluito del racconto per immagini, l’ambiguo statuto di queste, il loro carattere feticistico che blocca il rimando al significato e alle diverse interpretazioni (rubo l’etichetta a Ugo Volli, che anni fa l’impiegava a proposito della moda), rendono questa forma di narrazione estremamente diseducativa, se confrontiamo anche il numero di persone che raggiunge, privi di criteri per discriminare la qualità dell’informazione cui sono esposti. Da anni storici seri di parte italiana e slovena si confrontano per ricostruire la memoria di quei fatti e favorire la conciliazione; il rispetto dei criteri di scientificità non dà certo la certezza del risultato, ma è forse l’unica speranza possibile al riguardo.

Soldati italiani nell’atto di fucilare contadini sloveni.