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The Dirty Turn: la rivoluzione linguistica della Lega nel linguaggio politico italiano

Il linguaggio verbale della politica

Il discorso verbale della politica è uno dei suoi aspetti più significativi.
Alcuni elementi specifici del linguaggio settoriale dei politici lo rendono più facilmente analizzabile di altri. Specificamente, il linguaggio della politica appare il risultato di alcune tensioni o attrattori, a volte cooperanti a volte in relazione dialettica. Di quest’ultimo tipo per esempio è l’opposizione tra l’esigenza di formare un idioma distintivo del proprio schieramento e della propria formazione, e la necessità, contrastante, di avere un terreno in comune con tutte le forze politiche che partecipano al dibattito mediatico e parlamentare. L’osservazione di Habermas sulla necessità di un certo accordo tra gli interlocutori per poter condurre un dialogo, anche di dura opposizione, non esprime altro infatti che la natura sociale del linguaggio.

Le spinte cooperative sono quelle dettate dalla necessità da parte del ceto politico nel suo complesso di distinguere il proprio ruolo sociale da altri quali gli operatori della comunicazione e gli esperti dei diversi settori partecipanti al dibattito mediatico.

Ogni politico e ogni partito, quindi, da una parte vuole e tende a formare un proprio linguaggio, dall’altra deve condividerne almeno una porzione con gli altri partiti per poter dialogare con loro.

Ogni idioletto politico, quindi, ha un proprio bilanciamento tra i due fattori. I linguaggi molto distintivi, cioè più spostati verso il polo identitario che verso quello comune, contrassegnano formazioni più distinte anche per programmi, immagine e posizionamento. Inoltre, la necessità di esprimere un’identità fa sì che il singolo enunciatore non imiti il linguaggio degli avversari o degli alleati, mantenendo costante una certa purezza linguistica,

L’aspetto comunque più evidente del discorso politico è la sua distinzione rispetto al linguaggio comune dei media. Una sola frase pronunciata da un politico, in genere si può distinguere da una frase usate nella cronaca, nel commento politico e nella pubblicità.

Queste caratteristiche di facile distinzione e isolamento rendono relativamente agevole l’analisi del discorso politico verbale. Del tutto diverso sarebbe l’aspetto visivo o sincretico, dove le contaminazioni con altri stili di discorso sono più evidenti.

La rivoluzione linguistica della Lega Nord

In questo quadro, la Lega, già Lega Nord, fin dalle sue origini si è fortemente caratterizzata. Il primo artefice del linguaggio leghista fu il suo fondatore, Umberto Bossi, che rivoluzionò il discorso politico italiano sotto diversi aspetti. I più significativi sono il regionalismo, l’uso di espressioni volgari e le enunciazioni minacciose.

L’Italia, come è noto, usa il toscano solo per scrivere, e presenta un marcato regionalismo nella pronuncia, tale per cui è possibile riconoscere la provenienza linguistica di quasi tutti i parlanti, fatta eccezione per chi ha seguito un corso di dizione. Ciò nonostante, durante la cosiddetta Prima Repubblica la condivisione di una lingua nazionale ha portato i politici a cercare di adeguare il proprio accento, sostenuti anche da una generale educazione di livello universitario e dalla disciplina linguistica dei partiti, tutti (con poche eccezioni) nazionali. Le eccezioni come l’incancellabile pronuncia di De Mita o l’italiano con deciso accento germanico di alcuni parlamentari altoatesini, erano poche. Qualche rappresentante della Sardegna manteneva un forte accento, ma nessuno indulgeva a termini dialettali.

Bossi e la Lega Nord sono il primo partito macro-regionale che rompe l’unità linguistica. Accenti, modi di dire e termini dialettali vengono non solo usati, ma ostentati. Come ogni scelta linguistica, anche questa produce un doppio effetto. Da una parte la fonia regionale indubbiamente abbassa lo status sociale e culturale del parlante (“non sa l’italiano”), dall’altra però, trattandosi comunque di esponenti politici, parlamentari, ministri, inevitabilmente alza lo status di quella pronuncia, la legittima.

La volgarità, sia i doppi sensi sessuali (“la Lega ce l’ha duro”) sia la coprolalia (uso improprio della bandiera nazionale), ha uno spettro semantico anche più ampio. Rappresenta una rozzezza anch’essa plebea, ma connota un ‘parlar chiaro’, un aspetto di popolarità, di orgoglio, appunto, delle classi lavoratrici. La strafottenza del popolo è certamente uno degli aspetti del linguaggio proletario, basti ricordare la famosa risata dell’anarchico (http://vulcanostatale.it/2017/01/una-risata-vi-seppellira/).

Le minacce (famosa quella dei mitra, ma si veda http://www.atuttadestra.net/index.php/archives/32519) sono anch’esse significative. Dopo la nascita della Repubblica, il clima fu per decenni piuttosto teso. Da una parte il PCI era strettamente collegato con Mosca ed era un partito rivoluzionario. Dall’altra, sia pure non in modo palese, non mancavano correnti golpiste e formazioni controrivoluzionarie (si veda il caso Gladio). Ogni accenno all’uso di armi sarebbe stato preso sul serio. Se Berlinguer (lasciamo stare Togliatti…) avesse anche solo usato la parola mitra, le conseguenza sarebbero state gravissime.
Un paragone di questo tipo è assai significativo.
Molti commentatori hanno sottolineato a sottolineano la deriva del linguaggio politico verso scelte lessicali e retoriche sempre più forti e offensive. Tuttavia pochi ne traggono un’altra conclusione, e cioè che l’uso crescente di espressioni forti e di insulti, in un contesto nel quale la messa in pratica di azioni violente è comunque esclusa e, soprattutto, le due parti che se ne dicono di tutti i colori dopo pochi giorni diventano alleati o amici, progressivamente depotenzia le iperboli linguistiche, riducendole a semplici volgarità quotidiane. E’ un modo di fare come quello di certe coppie, che si insultano e si minacciano per poi scambiarsi bacini e carezze dieci minuti dopo, o dei bambini che si prendono a pugni per poi giurarsi eterna amicizia. L’effetto sulla ricezione non è tanto e solo la legittimazione di un lessico volgare e rozzo, quanto la delegittimazione della dimensione veridittiva. La conseguenza più negativa per i politici è che le loro affermazioni progressivamente perdono di forza e di considerazione. Gli annunci propagandistici che mai si avverano erodono lentamente il terreno sotto i piedi come l’acqua del mare sulla battigia. Da una parte, quindi, Bossi inaugura l’era di minacce dai significati denotativi tremendi, dall’altra, però, anche quella del politico che è più una maschera, un cabarettista, che parla per farci meravigliare della propria audacia lessicale, ma le cui affermazioni non hanno conseguenze pratiche.

La rivoluzione linguistica leghista ovviamente ebbe impatto sul linguaggio generale della politica italiana. Sotto questo aspetto sia Matteo Renzi sia Beppe Grillo sono in qualche modo imitatori, o meglio interpreti della svolta linguistica bossiana.

Grillo rappresenta la deriva più chiaramente comica della retorica bossiana, essendo egli stesso un professionista del cabaret. Il suo lavoro teatrale assume ben presto una forte caratterizzazione di satira politica che contiene elementi di proposta, fino a trasformarsi nella fondazione di un movimento vero e proprio. Uno degli eventi che ha inventato, il noto “Vaffa… Day” è un’ottima sintesi del tipo di discorso politico inaugurato dal comico genovese.

Matteo Renzi è l’ala moderata di sinistra del linguaggio bossiano, ma la sua azione linguistica d’esordio, l’uso del termine ‘rottamazione’ rivolto alla dirigenza del PD, ne condensa lo stile. Renzi inaugura una modalità di discorso pubblico del tutto nuovo per la sinistra post-comunista. I passaggi che mira a far passare sui media sono battute di tono cabarettistico, di solito non più che ironiche, miste a boutade non minacciose ma roboanti (come creare una Silicon Valley in Italia o superare l’economia della Germania). Le considerazioni linguistiche non bastano a spiegare le sorti divergenti delle formazioni politiche dei due leader, ma certamente le promesse non realizzate pesano di più per un capo di governo che per un rappresentante dell’opposizione.

Da Bossi a Salvini

L’erede di Bossi all’interno della Lega è tuttavia Matteo Salvini, che prende in mano un partito fortemente indebolito e lo porta ad essere una forza politica con una solida base elettorale e una posizione ancor più influente nell’attuale maggioranza di governo.

Salvini, rispetto a Bossi, lavora per un partito su base nazionale, e quindi non sottolinea, a parte l’accento, gli aspetti regionalisti del suo discorso, almeno sui media nazionali. Il suo linguaggio è più povero e meno immaginifico di quello bossiano, ha abbandonato i guerrieri medievali, i valligiani Bergamaschi che calano a valle, i riti del Dio Po, ecc. Gli attacchi personali e il ‘parlar fuori dai denti’ vengono però ulteriormente rafforzati. Con Salvini, gli insulti e i paragoni offensivi sono più mirati, le enunciazioni meno roboanti ma più ficcanti. Si prenda a esempio “Sapete che la Russia ha scelto di sospendere le adozioni con tutti i paesi stranieri tranne che con l’Italia, perché qui non ci sono coppie gay che possono adottare un bambino. Se è così, viva la Russia.” (https://it.wikiquote.org/wiki/Matteo_Salvini#cite_note-immigrati-29). Mentre il mondo possibile di Bossi era più un mito che un programma politico, le affermazioni di Salvini quasi sempre rinviano a posizioni precise attraverso un lessico rozzo e spesso insultante (es. “La Boldrini è l’ipocrisia, il nulla fatto donna”. [44]). Sulla frastica di Salvini vedi https://it.wikiquote.org/wiki/Matteo_Salvini https://aforismi.meglio.it/aforismi-di.htm?n=Matteo+Salvini&pag=9 https://le-citazioni.it/autori/matteo-salvini/.

Le espressioni volgari, nel linguaggio della Lega salviniana (peraltro parlante quasi con una sola voce), non mancano, come ai tempi di Bossi, ma sono ormai sdoganate (un’espressione come “fuori dalle palle”, che detta da Fanfani avrebbe portato a una crisi di governo, oggi in Italia passa inosservata). Anch’esse, però, sono usate strategicamente, quasi sempre contro qualcuno o qualcosa di preciso. Mentre Bossi faceva teatro, Salvini provoca e insulta con obiettivi espliciti. Se il parlare di Bossi faceva pensare a uno che ha bevuto un po’ e si mette a fare comizi all’osteria, quello di Salvini ricorda un bullo circondato dalla sua banda al tavolo del bar che finge di non aver visto una persona che è entrata e la insulta ad alta voce per provocarla. C’è uno slittamento da una vanteria da commediante a una sistematica azione provocatoria.

E infatti, come ogni provocazione che voglia essere tale, agli insulti si accompagnano le minacce.
Salvini infatti condisce il suo discorso con minacce di interventi pratici. Non i fantomatici mitra valligiani, ma interventi circostanziati, come le espulsioni dei clandestini, le ruspe e le schedature contro i nomadi, la castrazione chimica, ecc. Alcune di queste minacce si sono già concretizzate in fatti.
E proprio questa strategia è innovativa. Salvini mira a porre fine all’epoca delle promesse non mantenute, accompagnando fatti alle enunciazioni. Non certo ogni discorso, ma una certa percentuale di essi si deve trasformare in azione, per poter rivendicare la propria coerenza.
“Un fatto ogni mille parole”, infatti, rispetto a “Zero fatti ogni mille parole”, costituisce già un deciso avanzamento verso “Fatti, non parole”, l’ideale irraggiungibile di ogni politico democratico.
Naturalmente parliamo di ‘fatti’ in un’accezione mediatico-politica, in una situazione mediatica, quella italiana, nella quale l’agenda mediatica equipara eventi e discorsi. Mentre, per tradizione, il giornalismo dà la precedenza ai fatti rispetto alle dichiarazioni, quello italiano mette in risalto molto spesso semplici propositi o annunci. Così, la promessa di Di Maio di dare il reddito di cittadinanza (che ad oggi non è neppure un progetto di legge) a chi lavorerà otto ore al giorno, diventa notizia di prima pagina (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-06-22/di-maio-per-avere-reddito-cittadinanza-8-ore-lavoro-gratis-settimana–115355.shtml?uuid=AEsPelAF).

Oltre alla cosiddetta ‘post-verità’, o forse come variante di essa, assistiamo così a una sorta di ‘fattualità esemplare’, per la quale un’azione unica diventa segno della sua classe, e vale come se fosse diventata la regola. (https://it.wikipedia.org/wiki/Post-verit%C3%A0 https://en.wikipedia.org/wiki/Post-truth_politics). Si tratta di un effetto noto dei media, e sono appunto i media a costituire la variante decisiva nella configurazione del discorso salviniano.

La capacità di Salvini, rispetto a Bossi, è quella di una costanza e coerenza nello stile di discorso trasversale a qualsiasi media, oltre a una presenza quantitativa massiccia, specie sui social (vedi http://www.repubblica.it/politica/2018/06/14/news/matteo_salvini_e_il_politico_europeo_piu_popolare_su_facebook-199008668/ http://www.datamediahub.it/2018/06/12/lo-spazio-mediatico-dei-leader-politici/#axzz5JRZ58o00).

Salvini dice le stesse cose in Parlamento, ai microfoni dei TG, nei comizi e sui social. Bossi non era così pervasivo e non era così disinvolto. Siamo indubbiamente di fronte a una nuova generazione di comunicatori che applica le regole basiche della pubblicità: pochi contenuti e lessico chiaro, ‘tone of voice’ costante, ripetizione incessante. Inoltre, la retorica del fait accompli, in un sistema mediatico nel quale già una dichiarazione assume rilevanza straordinaria, offre spessore alle sua argomentazione.

Dove va il discorso politico italiano?

Il discorso della Lega, oggi, è dunque il proseguimento e l’evoluzione di quello della Lega Nord di ieri, con un interprete che l’ha ulteriormente innovato mantenendolo duro e polemico ma aggiungendo spessore e regolarità, e rendendolo più acuminato. I dati oggi ci dicono che se Berlusconi ha dato il via al cambiamento del linguaggio della politica, per quanto riguarda il verbale (ovviamente sempre sui media), la vera rivoluzione è stata quella leghista.

Qualcuno si potrà domandare come il linguaggio di questa neo-destra populista tipicamente italiana potrà evolversi e se mai ne nascerà un altro capace di opporvisi validamente.
Certamente un primo terreno di confronto sarà tra le promesse e i fatti conseguenti. Certe minacce, come espellere centinaia di migliaia di migranti, saranno messe da parte, altre, più gestibili, potranno esse realizzate, ma resta il punto debole del populismo, vale a dire la sua pretesa di cambiare la realtà senza considerare se si hanno i mezzi per farlo. Così, possiamo immaginare uno scenario nel quale a un certo punto la realizzazione di un programma fallisce visibilmente e porta a una crisi grave, e uno scenario di progressiva svolta moderata nella quale il populismo si stempera in un riformismo più o meno accentuato o in un conservatorismo di ritorno.

Quanto a un nuovo linguaggio, a mio parere vi è una sola possibilità. Se il successo del linguaggio populista sta nella semplificazione, quello di un linguaggio anti-populista sta nella complessificazione. Tuttavia, la possibilità di comunicare la complessità della realtà contemporanea dipende dalla capacità di comprensione dei riceventi, ma la demografia e il basso livello di istruzione post-secondaria in Italia non rendono probabile un rapido cambiamento. Un cambiamento, tuttavia, nel medio e lungo termine è inevitabile. Gli strumenti logici e semiotici di descrizione e analisi degli eventi (politici, sociali, economici, scientifici, ecc) messi a disposizione a partire dagli inizi del ‘900, sia pure lentamente, si diffondono. Si pensi alla consapevolezza del funzionamento della teoria della probabilità, un elemento fondamentale per lo sviluppo socio-culturale, o alla teoria dei giochi.

Quello che andrebbe fatto, dunque, è dar vita a un movimento per l’intelligenza e la cultura, senza curarsi della popolarità iniziale. Un punto però mi sento di sottolineare, che esula dall’analisi del discorso. Un linguaggio rozzo e una pratica brutale non corrispondono necessariamente a un pensiero rozzo e a un’azione inefficace. La cultura e l’intelligenza, dunque, per quanto possano usare strumenti sofisticati per l’analisi e l’elaborazione dei dati, devono comunque mirare a soluzioni che siano le più semplici ed efficaci possibili. La sinistra e il liberalismo dovrebbero ricordare che la loro nascita e il loro successo, a partire dalle rivoluzioni borghesi, sono stati fondati su una descrizione dell’esistente molto più adeguata di quella precedente.

Da Andreotti a Di Maio: la comunicazione politica ieri e oggi

Farà sicuramente parte degli abiti acquisiti dai semiotici quello di vedere opposizioni ovunque, dunque qualche volta anche sforzate, ma quella che mi balza agli occhi in queste settimane in cui in Italia si cerca di formare un governo mi pare solare.

Penso infatti al contrasto tra le trattative della cosiddetta Prima Repubblica e quelle attuali, per come si relazionano con i media e per le logiche argomentative e i contratti di veridizione che prevalgono.

Ieri

1. Un tempo le trattative erano quasi segrete, a volte segrete per davvero; i comunicati dei partiti erano stesi in un linguaggio oscuro che veniva interpretato dagli specialisti. Nessun segretario di partito si sarebbe mai spinto a fare la profferta di un’alleanza in televisione o su un giornale. Le trattative avvenivano privatamente, e solo a contratto stipulato si facevano dichiarazioni alla stampa. Il resto era ammantato dal mistero e oggetto di ipotesi, congetture, rivelazioni più o meno attendibili.

2. Quanto alle logiche, vi era una larga porzione di implicito che non veniva neppure sollevato, ma che era assodato. Si trattava di una cultura nella quale si riteneva sconveniente anche la semplice sottolineatura dei rapporti forza. I segretari della DC e del PCI non si sarebbero mai autodefiniti ‘capo politico’ o ‘leader’. Queste ostentazioni sarebbero apparse ridicole. Il segretario era eletto dal congresso del partito, e rispondeva regolarmente agli organi dirigenti. Il PCI, per tradizione, aveva segreterie di ferro, in diversi casi interrotte solo dalla morte, ma mai e poi mai un comunista si sarebbe arrogato la definizione di ‘leader’ o ‘capo’. Inoltre, nessuno si sarebbe mai permesso di definirsi ‘candidato premier’. La Costituzione era data per nota. L’Italia era (ed è) una repubblica parlamentare, e il presidente del Consiglio dei ministri non viene eletto direttamente. Allo stesso modo, le dimensioni della rappresentanza erano note e per questo taciute. Mai un democristiano aveva bisogno di dire “Siamo il primo partito italiano”. Lo sapevano tutti, come sapevano che era il partito di maggioranza relativa, che non avrebbe mai potuto governare da solo.

3. Altro punto erano la posizioni esplicitate. Si trattava ancora di una cultura nella quale la parola ufficiale di un dirigente di partito, esprimente una posizione a volte faticosamente raggiunta dopo discussioni e mediazioni interne, aveva comunque una sua solidità. Anche perché nessun leader era un capo assoluto, neppure nel PCI o nel MSI, ufficialmente i partiti con riferimenti ideologici più autoritari. Non parliamo della DC, divisa in innumerevoli correnti e sempre attraversata dal farsi e disfarsi di alleanze e consorterie.

Diciamo che c’era una decisa divisione tra uno spazio privato, interno, che era quello degli organi dirigenziali dei partiti, e lo spazio pubblico, da una parte dei congressi, e dall’altra delle istituzioni.

Questo era dovuto anche a un sistema mediatico molto più ridotto (due-tre reti TV generaliste pubbliche, e poi pian piano le TV Mediaset, a partire dagli anni ‘80), niente internet, le prime radio private in FM. Quotidiani e settimanali erano più o meno come ora, però più autorevoli. I quotidiani di partito erano molto più letti. Tuttavia, non erano i media a manipolare la politica, tutt’al più il contrario. Per dare alcuni esempi, trovate qui sotto tre testi tratti da trasmissioni politiche RAI. Appare abbastanza evidente come il discorso dei politici sia più o meno di tipo parlamentare o comiziale, sommesso, controllato e basato sul registro verbale. Si noti che Aldo Moro addirittura legge il suo discorso, cosa oggi inconcepibile. A parte le osservazioni vane su come cambiano i tempi, leggere un testo scritto implica che lo sia sia scritto, dunque ponderato e corretto. Implica una riflessione. Le dichiarazioni twittate o dette a una videocamera, di poche parole e senza preparazione apparente, non per questo non possono essere preparate e persino discusse, ma l’effetto è di enunciazioni rapide, improvvisate, sparate sul momento.

Oggi

Oggi, in seguito a un processo di progressiva trasposizione della politica sui media, in particolare la TV generalista e internet, i tre punti sopra elencati si sono rovesciati, e lo si evidenzia chiaramente dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018.

1. Le trattative segrete sono ovviamente sempre praticate, ma vengono spesso anticipate da dichiarazioni pubbliche, o interviste, a volte estremamente dettagliate. Vi è una specie di esibizionismo comunicativo, del quale spesso si è parlato a proposito dei reality show. Si tratta di un impulso socio-psicologico che si contrappone al pudore e alla privacy e che i nuovi media hanno riportato alla luce. D’altra parte, si può supporre che l’eccesso di rappresentazione sia per i leader anche un modo di scrivere le loro affermazioni in una sorta di registro mediatico, proprio perché si trovano ad agire in un ambiente molto più insicuro di quanto appare. La tendenza a formare partiti personali, e a dare loro l’aspetto di organizzazioni verticistiche, nelle quali vige il Führerprinzip, è di fatto mera apparenza. In ogni organizzazione politica, in particolare quando una parte dei membri è eletta dal popolo, sono ovviamente necessarie mediazioni. Questo è ancor più vero per le coalizioni, che si reggono su contratti fiduciari. Ma soprattutto, la caduta delle fedeltà ideologiche consente spostamenti intra e inter-partito, scissioni, cambi di gabbana, smentite e ribellioni quasi incontrollabili. L’espulsione dal partito, un tempo pena ignominiosa, oggi fa ridere. Al punto che formazioni come i 5stelle hanno introdotto ammende monetarie (non propriamente costituzionali, probabilmente) per assicurare la disciplina di partito. Le esternazioni mediatiche, riservate al leader a causa del personalismo dei media visuali, rappresentano anche un modo per fermare dei punti prima e indipendentemente dal confronto interno.

2. Le argomentazioni mediatiche oggi adottate sono anch’esse molto diverse dal passato. Oggi i rapporti di forza sono da una parte continuamente ribaditi (“Siamo il primo partito”, “Abbiamo avuto 11 milioni di voti”; “Siamo la prima coalizione”, “Abbiamo il maggior numero di elettori”, “Abbiamo perso” “Siamo all’opposizione”), dall’altra appaiono svanire quando si viene ai fatti.

I ragionamenti che giustificano le scelte tattiche (quelle strategiche sono assai incerte) sono assenti, i leader o capi non motivano le loro decisioni. Le trattative tendono ad essere presentate come “contratto”, “punti del programma”, e predominano semplificazioni del tipo “fare cose buone”, “fare il bene del Paese”, che in sostanza non hanno alcun significato pratico.

Se il quadro del passato era quello di un sistema chiuso dentro le mura dei partiti, soggetti impenetrabili e impermeabili, quello di oggi appare un sistema in cui modelli ultra-semplificati vengono continuamente ri-enunciati, ribaditi, ma la forza dell’enunciazione maschera un grande vuoto dell’enunciato. Fuori dal gergo semiotico, si parla a voce alta ma non si dice niente. Se la retorica della Prima Repubblica era quella di una classe politica consociata e imbalsamata ma fermamente al potere, a fronte di un’opposizione che non poteva governare, quella di oggi appare come un’esibizione rituale di forza animalesca priva di efficacia.

3. Per quanto riguarda le logiche dei contenuti politici, la situazione attuale è in apparenza quella di perdita di coerenza e di una cancellazione delle norme di comportamento codificate. A parte le espressioni (come invitare gli avversari politici a “pulire i cessi”, impensabili anche nelle più accese tribune politiche), le alleanze e gli impegni sembrano non creare vincoli e le promesse nascere già destinate ad essere infrante. Si può invitare apertamente un partito a rompere un’alleanza, si può cambiare un programma anche nei suoi punti più significativi, si può pretendere apertamente la presidenza del Consiglio in assenza di qualsiasi supporto costituzionale, si può dire il contrario di quanto si è detto il giorno prima, si possono dichiarare trattative chiuse per sempre e riaprirle il giorno dopo. Si può proporre apertamente al Presidente della Repubblica di ricevere un incarico per presentare un governo alle Camere, sapendo di non avere la fiducia ma per gestire il periodo pre-elettorale. Questo sistema genera un effetto generale di fuzzyness, le posizioni politiche diventano sempre più nebulose, prive di un profilo preciso, ai leader restano solo una voce e una faccia, ma progressivamente si svuotano di sostanza. Nella (cosiddetta) prima repubblica, i programmi di governo erano vaghi, ma i principi generali erano granitici (per esempio, la DC era per la NATO e con gli USA, il PCI era per l’URSS e anti-atlantico) e le promesse clientelari (stipulate sottobanco o quasi) generalmente rispettate. Lo Stato era occupato da una maggioranza eterna che si poteva permettere anche azioni illegali, quando giustificate dalla ragion di stato.

Ora pare che né i principi né le promesse abbiano consistenza. I contenuti dell’agenda politica si manifestano emergendo senza preparazione né preavviso e le decisioni sembrano venir prese in una quasi totale dipendenza dalla circostanza del momento.

Conclusione

In generale, considerando l’esistenza della Repubblica Italiana di circa settant’anni, si può tracciare una demarcazione tra un primo periodo nel quale la sicurezza atlantica è stato il punto fermo e imposto dal controllo internazionale, e un secondo periodo nel quale la sfera di appartenenza prioritaria è diventata quella europea, ma il vincolo non è stato imposto in modo così deciso. Il primo periodo ha avuto il suo momento di crisi nel 1978, con il PCI a un passo dal governo, sventato dall’avvento di Craxi e dall’operazione Moro. Il secondo ha il suo momento critico nel 2018, in questi mesi, con i partiti populisti anti-europei sulla soglia di Palazzo Chigi. Gli attori in causa e i metodi non possono più essere gli stessi, e le decisioni non vengono prese sulla base di equilibri geopolitici da apparati civili/militari. Ora sono i soggetti finanziari, già intervenuti nel 2001 in una situazione simile, quelli che possono prendere l’iniziativa. I prossimi mesi ci diranno cosa accadrà. I lettori considerino però che il distacco dell’Europa dalle vicende italiane spesso è solo apparente, e raramente disinteressato. L’Italia fu fortemente sollecitata dagli altri stati europei, prima ad entrare nel sistema monetario e poi nell’Euro, per evitare che il suo sistema industriale si avvantaggiasse di una valuta più debole. Ora il problema è superato in quanto il nostro sistema industriale è stato decisamente ridimensionato, ma è impensabile che i partner europei non siano consapevoli della perdita di PIL italiano nei loro confronti (dal 2000 è stata del 23,6% vedi), vale a dire del vantaggio competitivo che hanno acquisito. Il governo francese si sta dolorosamente preparando alla fine del Quantitative Easing, l’Italia è ferma, immobile, addirittura a rischio di governi che dichiarano di voler accrescere la spesa pubblica. Aspettare ancora a sollevare a Bruxelles il tema della guerra economica interna alla UE e della necessità di limitarla è sempre più pericoloso.

Questi punti sono poco più che ipotesi, che andrebbero verificate con una ricerca più solida. Possono essere utili per avere un quadro più ampio del presente e una conoscenza più approfondita del passato.

Alcuni link, reperiti con una prima selezione:

https://www.youtube.com/watch?v=W-YQmv9hWM4 (Berlinguer 1972)

https://www.youtube.com/watch?v=2S8OrXwYIN0 (Almirante 1975)

https://www.youtube.com/watch?v=fB-W9GNVe_o (Moro 1976)

https://www.youtube.com/watch?v=thHL4_EIQGA (Di Maio 6/5/2018) (Annunziata)

Il centrodestra propone di andare in Parlamento senza un accordo: http://www.la7.it/laria-che-tira/video/matteo-salvini-in-diretta-dal-quirinale-conto-di-trovare-una-maggioranza-07-05-2018-240940

L’eredità immateriale di un materialista. Ricordo di Massimo A. Bonfantini

He knew then that men died at haphazard like that, and lived only while blind chance spared them.
Sapeva che gli uomini potevano morire in fatalità come quella, e vivevano solo finché il caso cieco li risparmiava.
(Dashiel Hammett, Il falcone maltese1


Quando parliamo di eredità morale, ovvero di tutela e presidio di un valore immateriale, quale una testimonianza di vita, un edificio teorico, un patrimonio di cultura o di conoscenza, le cose cambiano. Non esistono leggi di successione, ma solo norme, atteggiamenti, schemi di comportamento. E dunque possibilità di inventare.

La prendo così per parlare dell’eredità morale e intellettuale che ho ricevuto da Massimo Bonfantini.

Tra le cose che dalla vita credo di aver appreso (perché ci si può sempre aspettare che una teoria sia scalzata da un nuovo fatto) c’è che le eredità morali si trasmettono in due modi.

Il primo è osmotico: consiste nell’assimilazione inconsapevole di abiti. Con un esempio semplice, se per anni sei abituato a stare assieme a persone puntuali, non è certo, ma è più probabile, che tu stesso lo diventi. Nulla di nuovo, ma non sempre ne valutiamo le conseguenze. E c’è una premessa importante: rispetto agli insegnamenti che riceviamo consapevolmente, possiamo reagire conformandoci o opponendoci, ma rispetto a quelli inconsapevoli non siamo in grado di fare nulla. Di solito si parla di abiti come quelli religiosi e culturali, e una persona dice “Ho avuto un’educazione cattolica”, o “Sono cresciuto in una famiglia ebrea” per spiegare certe caratteristiche profondamente assimilate. Ma non sono solo quelli. Dunque, possiamo cambiare idea sul giudizio che diamo a ciò che abbiamo appreso, ma non possiamo cancellare ciò che abbiamo imparato né gli effetti di tale apprendimento. Possiamo solo contrastarli, sostituirli, correggerli.

Un altro principio che l’età ci insegna è che quando scegliamo comprendiamo poco, e man mano che comprendiamo di più, scegliamo sempre di meno. Che cosa sapevo della filosofia quando mi iscrissi al corso di laurea era, per quanto possa essere stato uno studente sfaticato, meno di quanto sapevo al termine di esso. Non si può mai scegliere un percorso di apprendimento avendo la piena consapevolezza di ciò che sapremo e saremo alla fine di esso, perciò si sceglie senza sapere. E quando si sa, non si può più scegliere un percorso che ci renda diversi, perché siamo già diventati qualcosa.

In conclusione: come è vero che siamo parlati dal linguaggio (lo scrissero Heidegger e Derrida ma non sono mai riuscito a trovare i passi precisi), così siamo formati dalla formazione, e la scelta di quale soggetto ci formerà, determinando il modo in cui vedremo il mondo e valuteremo la nostra stessa formazione, è in gran parte casuale, non solo, ma i criteri sulla base dei quali la scegliamo (o crediamo di sceglierla) non sono stati influenzati da essa, perché non possiamo conoscerla veramente. Così, per esempio, non può essere l’esperienza diretta della vita militare che mi fa scegliere la carriera militare. Le esperienze formative, allo scopo di rassicurare chi le ha scelte, includono sempre una valutazione positiva di sé stesse: anche per loro funziona la legge della dissonanza cognitiva. Quindi qualsiasi scelta io faccia, tale scelta affermerà di essere la scelta migliore. Dunque, siamo quello che siamo in gran parte per caso.

Una fondamentale differenza tra le persone è tra coloro che ammettono questa casualità e coloro che la rifiutano.

Chi rifiuta la casualità della propria identità o lo fa perché ha fede in qualche forma di Provvidenza, e dunque ne riconosce la casualità soggettiva ma non oggettiva, o perché mente. In genere, mente per non dover ammettere che difende il proprio essere anche se esso dipende in gran parte dal caso. Spesso la casualità viene rifiutata anche perché implica l’ammissione che le scelte degli altri sono simili alle nostre, e dunque in parte giustificabili (ma non per questo sempre accettabili, ovviamente).

Tra le persone che ammettono la propria casualità, alcuni si convincono che le loro scelte, comunque fatte, sono tuttavia le migliori, altri arrivano a maturare un certo distacco da esse. È superfluo ma utile notare che i primi, che chiamerò ‘convinti’, tendano ad essere valutati molto di più dei secondi, gli ‘scettici’.

Per come l’ho messa giù, ora pare che gli scettici siano più intelligenti. E confesso di essere uno di loro. Ho anche delle ipotesi sul perché io lo sia, ma non tedierò il lettore con fatti così poco interessanti. Comunque, non è vero: nessuno è meglio dell’altro, e spero di mostrarlo tra poco.

Eravamo però partiti dai due modi di ricevere un’eredità morale, e abbiamo visto il primo. Che possiamo concludere dicendo che l’eredità per osmosi è in sostanza casuale e che i suoi effetti in gran parte sono incancellabili, ma che ad essi possiamo opporci consapevolmente. Rispetto a questo, Massimo era ben consapevole della sua educazione di borghesia illuminata e robustamente ancorata a una Resistenza più che militante, militare. Ad essa era ancorato, ma ad essa aveva apportato robuste e faticose modifiche e integrazioni. Dal padre aveva preso abitudini e convinzioni pratiche, altre le aveva costruite da sè.

Vi è comunque un secondo modo di ricevere un’eredità morale, ed è quello consapevole. Esso si sviluppa in genere parallelamente e successivamente all’inizio della trasmissione osmotica, e non ne può prescindere. Una persona cresciuta nella fede cattolica può sviluppare dubbi e incertezze su di essa fin dalle prime lezioni di catechismo, e giungere più tardi e razionalmente a farne una piena assunzione o un’interpretazione personale o a respingerla. Credenti ed ex, alla fine, condivideranno però la prima fase della propria educazione, e un background comune ineliminabile.

In ogni caso, nelle persone che diventano consapevoli di un livello inconsapevole di formazione di sé stessi, si produrrà dunque una separazione tra abiti appresi per osmosi e incancellabili, anche se rifiutati e controllati, e nuovi abiti assunti consapevolmente.

Da Massimo Bonfantini ho ricevuto entrambe le forme di eredità, e di quanto ho ricevuto, di alcune cose neppure so, a qualcosa mi oppongo, di altro sono grato, altro ancora cerco di evolverlo.

Nella mia disciplina, la semiotica, ho avuto tre maestri. Uno virtuale, Charles Peirce, due materiali, Umberto Eco e Massimo Bonfantini. Solo con Massimo però ho approfondito l’amicizia al punto di sentirmi quasi parte della famiglia.

Prenderò a esempio il nostro rapporto, dunque, per cercare di mostrare come i due atteggiamenti rispetto alla propria casualità, i convinti e gli scettici, siano in definitiva equivalenti, ma assolutamente non uguali. Complementari, ma non speculari.

Prima però alcune righe di biografia intellettuale.

Puntava sempre al sodo, anche se a volte vi giungeva per vie tortuose, e non aveva alcun dubbio di essere arrivato a possedere la teoria migliore, e la sua personale. Il suo modo di lavorare era nettamente diviso tra l’ambito orale e quello scritto. Cosa rara in un umanista, non prendeva appunti. Io almeno non l’ho mai visto farlo, se non in qualche raro caso, come quando ti chiedeva i riferimenti di una pubblicazione. Quando parlava non seguiva gli appunti, o pochissimo. Questo gettava nel panico i presidenti delle conferenze, perché era impossibile prevedere quando il fiume verbale si sarebbe interrotto. Esaurirsi, mai, non è mai successo che finisse per non aver niente da aggiungere.

Nello scrivere era invece metodico, aveva uno stile unico e di grande efficacia. Era scarno, essenziale ma forte nelle espressioni; sceglieva con cura le parole, le metteva giù come un posatore mette giù le piastrelle: senza poterle più togliere. Qualcosa correggeva, ovviamente, ma non rifaceva quasi mai. Nell’impianto razionale e illuminista del suo testo, inseriva espressioni e modi di dire che erano leit motiv di spessore teorico. Tra tutti penso a una delle sue frasi preferite: “fa materia di problema”.

Massimo si è sempre comportato come se fosse dovere di ogni studioso di filosofia formulare una sua teoria, o almeno specificare una posizione. Dalla combinazione di Peirce, Marx e Mao, arrivò al ‘socialismo ecologico’ e al ‘materialismo storico pragmaticista’; lavorò su temi quali l’abduzione, la forma dell’inventiva, la fantascienza come utopia, il dialogo, il progetto e la storia del ’900 italiano. Questi elementi sono tutti interconnessi, e costituiscono un approccio del tutto originale, pur non formando un sistema di vecchio stampo.

Della scuola di Bologna, vale a dire il gruppo di studiosi che si formò attorno alla cattedra di Eco, includendo anche Paolo Fabbri, che allievo di Eco non si può definire, Bonfantini è l’unico che osa e pratica un tale obiettivo teorico. In un certo senso lo vive, come ho detto, come dovere. Il suo approccio alla filosofia è rigoroso, e ha solide basi morali e politiche. Nonostante non sia tra i filoni che prediligeva, vi è nel suo lavoro una componente esistenziale, sia pure scevra di qualsiasi fatalismo o passività. Sempre ha deriso atteggiamenti quali ‘Ascoltare l’essere…’, così come il ‘pensiero debole’ da una parte, la futurologia e i peana del marketing dall’altra. La sua lettura di Platone, che rappresenta l’ultimo grande contributo, è un esempio degno di rispetto e ammirazione. Che un non classicista legga e commenti l’intera opera di Platone appare certamente ai super-specialisti un gesto avventato, ma quando Bonfantini si confronta con un pensatore, che sia Marx, Peirce o Platone, è così concentrato sui temi specifici e così rigoroso nel procedere, che qualsiasi accusa di rispecchiamento narcisista è insostenibile, quanto altresì qualsiasi forma di sottomissione intellettuale. Massimo rivendica la sua visione teorica di fronte a qualsiasi testo, e la dichiara senza fraintendimenti. Platone non è il ‘suo’ Platone, è un percorso di lettura robustamente sostenuto e legittimato, ma originale e ‘orientato’.

Non ha mai creduto nell’analisi semiotica dei testi come ricerca del loro significato immanente, ma li ha sempre usati per condurre l’indagine secondo le sue prospettive. Così, la sua lettura di Peirce programmaticamente tiene ai margini le posizioni metafisiche e la fenomenologia più tarda, così come le venature idealistiche. Riesce tuttavia a costruire un Peirce coerente e a operare i tagli in modo sensato, così da non tradire l’autore pur offrendone un profilo ‘ottimizzato’. È il giovane Peirce, lo scienziato empirico, il detective, quello che Bonfantini individua. Essendo io l’autore di un libro nel quale ripercorro la fondazione matura della semiotica di Peirce proprio sulla base della fenomenologia e nel quadro del suo sistema filosofico, includente la metafisica, non parlo pro domo mea, quando dico che fu opportuno che Massimo producesse quel Peirce, influendo notevolmente anche sulla prima ispirazione peirceana di Eco. Il Peirce completo, maturo, è più coerente e sistematico, ma richiede professioni di fede filosofica non sempre accettate dagli studiosi del secondo ’900. La classificazione dei segni della Grammatica Speculativa, quasi tutta dei primi del ’900, se avulsa dalla fondazione faneroscopica, non riflette la posizione di Peirce. Tuttavia è in questa veste che Eco e la semiotica interpretativa la accolgono negli anni ’60-’70. Di per sé, la triade Icona-Indice-Simbolo ha generato mostri quanto il sonno della ragione, prima di rivelarsi uno strumento poco adatto all’analisi dei segni e dei testi così come la semiotica li ritrova nei media e nel discorso comune. Ma se la semiotica degli anni ’60-’70 non fosse stata così sicura di sé, con le sue categorie nuove e sconcertanti, interpretative o strutturaliste che fossero, l’intero mondo mediatico attuale non sarebbe quello strumento poderoso che è diventato. Dato che l’eterogenesi dei fini non è volta, vichianamente, a un disegno superiore, ma alla presa in giro di chi tenta di prevederne uno, oggi, rileggendo le pagine di analisi dei media di quei decenni, apocalittiche o integrate che fossero, appare evidente che l’industria di Hollywood e il marketing le hanno lette meglio dei riformatori della società. Ecco perché chi crede nella propria strada e la percorre con convinzione e coerenza (i convinti) non è secondo a chi non riesce a evitare una certa ironia nello sguardo. Costoro sono impegnati ad andare da qualche parte, e testimoniano all’uomo il fatto che nessuno di noi ha alcuna funzione se non nell’insieme degli eventi, pur non essendo mai in grado di sapere quale, e dunque rappresentano una forma fondamentale del coraggio.

Di questa forma del coraggio intellettuale (e non solo) Massimo Bonfantini è stato un esempio fino all’ultimo. Ha voluto il più possibile determinare la propria vita, ed ha avuto la sorte di poter essere se stesso fino all’ultimo giorno.

Come suo allievo, pur riconoscendomi tra gli scettici e ironici, rivendico un coraggio del secondo tipo, che è quello di accettare la natura casuale delle cause e degli effetti dell’essere umani. Se in questa posizione vi è un minor coraggio nell’azione, ve ne è uno maggiore nella consapevolezza. Entrambe le forme di coraggio, in una inevitabile semiosi, ne producono una terza, un interpretante, che contemporaneamente afferma che siamo solo umani, ma nel farlo dimentica la parola ‘solo’.

Tutelare l’eredità morale dei nostri maestri e amici è forse questo: condividere i pensieri e gli affetti in qualche modo depositati nel nostro cervello e corpo e generare discorsi che trasmettano e trasformino le tante sfaccettature dell’unicità che sono stati.

1 Massimo citava spesso questo passo di Hammett, dove si racconta la storia di un certo Flitcraft, il quale, scampato per un capello a un incidente mortale del tutto casuale, cambia la propria vita di punto in bianco. Il nome che assume nella sua nuova identità è, curiosamente, Charles Pierce, assai simile a Charles Peirce. Questo gli faceva ipotizzare che Hammett in qualche modo lo conoscesse, anche perché l’episodio è strettamente legato a una filosofia del caso, elemento molto importante nella visione di Peirce.

Pasqua e poi?

Una nota di pragmatica storica: fino ad alcuni anni in Italia fa si diceva ‘Buona Pasqua’ e nessuno si chiedeva se il ricevente del saluto fosse credente o praticante o ateo o ebreo ecc. Anche i più anticlericali, massoni e comunisti ricevevano l’augurio e ricambiavano. Il senso del discorso non era in alcun modo inclusivo. Per capirci, non era analogo ad augurare “Buon gay pride!” o “Felice iòm Kippùr”, il che implica che il destinatario faccia in qualche modo parte di un gruppo sociale o religioso che si riconosce in tali festività. Eravamo insomma una cultura non consapevole della propria matrice cristiano-cattolica, vale a dire dei codici sociali impliciti. Tuttavia, era raro sentirsi porgere “Auguri di Santa Pasqua”. L’uso dell’aggettivo era limitato a preti, suore e persone di particolare fervore religioso. Non si riteneva necessario calcare sull’aspetto sacro della festività se non, appunto, in determinate situazioni di interazione. Quest’anno, qualche collega del mio Dipartimento si è premurato di porgere per e-mail gli auguri di Pasqua. Qualcun altro ha risposto usando il termine “santa Pasqua”. Un collega ha replicato precisando di essere ateo e chiedendo di essere dispensato dagli auguri. Le mail si sono succedute, con auguri di Pasqua e Santa Pasqua.
Perché dei laici, in un ambiente di lavoro, hanno adottato questa locuzione? Evidentemente qualcuno desidera marcare una propria adesione alla Pasqua propriamente religiosa. Allo stesso tempo, la logica simmetrica del saluto e dell’augurio richiede che l’enunciatario risponda o in un modo o nell’altro. Se un vicino di casa vi saluta con uno squillante “Buona sera” e voi rispondere con un mugugnato “…sera”, in qualche modo vi dissociate dal valore euforico del saluto. Rispondere con semplici auguri di Pasqua a una ‘Santa’ Pasqua, allora, implica una non-condivisione della santità pasquale, marcando un’assenza. Sul motivo di questa assenza, come in molte interazioni sociali, non vi sono conclusioni certe, ma ipotesi. “Non voglio mettere in mezzo la religione”, oppure “Non sono credente”, oppure “Non voglio dire se sono o non sono credente”.
Tuttavia, non è dalla parte dell’enunciatario che qualcosa non va, bensì dalla parte dell’enunciatore. Il significato dell’atto linguistico, in questo caso, dipende in gran parte dalla situazione di interazione comunicativa. E’ una questione di pragmatica.
In un ambiente nel quale le posizioni religiose e culturali sono dichiarate ed evidenti (per es. un’azienda nella quale i musulmani sono tutti provenienti dal Marocco, i cristiani sono italiani, e vi sono italiani e marocchini non credenti) qualsiasi augurio si faccia, religlioso o laico, la risposta non porta particolari informazioni.
Diverso è il caso in cui, invece, si fanno allusioni a posizioni personali in un gruppo nel quale le posizioni delle persone non sono note. Se qualcuno se ne esce con una frase del tipo “Ma come si fa a mangiare un agnello?”, è evidente che una risposta qualsiasi scopre le carte. L’enunciato mira a provocare una risposta di condivisione, possibilmente sullo stesso tono: “E’ una cosa vergognosa!”. Una risposta evasiva: “Si può fare in fricassea o alla brace” ha già un valore ironico, dunque potenzialmente di non coinvolgimento e dunque di opposizione per un vegetariano militante. Se i valori in gioco sono strategici o comunque identitari, e se le posizioni dei membri del gruppo sociale non sono note, questo tipo di domande assume l’aspetto di una indagine indiretta: “Ti sfido a dire se condividi questo valore, ma non te lo chiedo apertamente.” Si configura una ‘conta’ delle persone sulla base di valori senza che la richiesta sia esplicita. Infatti, in certe situazioni, un discorso di questo tipo significa: “Voglio capire chi è carnivoro senza chiederlo”. Comportamenti di questo tipo, per esempio, vengono attuati da eterosessuali che vogliono spingere un omosessuale non dichiarato a ‘tradirsi’, oppure a simulare un orientamento sessuale.
Il motivo per il quale l’enunciatore non può chiedere apertamente è che la domanda sarebbe invasiva per i codici dell’ambiente sociale in questione. E’ però anche consapevole che una provocazione implicita può ricevere una risposta falsa, e comunque non è mai esplicita, dunque non ha valore ufficiale. Perché allora lo chiede? La risposta più verosimile è che chi fa tali domande mira a verificare l’esistenza di una maggioranza (o comunque una corposa minoranza) di persone che ‘fanno sapere’ di condividere una posizione senza tuttavia dichiararla. Se questa posizione, inoltre, non è pertinente alle dinamiche esplicite dell’ambiente (in un Dipartimento di una Università statale la religione dei membri non ha nulla a che vedere con le questioni di lavoro), una simile indagine sottotraccia assume un carattere esibitivo di un’appartenenza non pertinente: “Noi facciamo sapere che ci siamo”.
Del tutto diverso da un esplicito atto religioso: ogni anno nella sede Universitaria dove lavoro un sacerdote cattolico impartisce la benedizione pasquale, in modo aperto e con invito rivolto a tutti, e adesione ovviamente volontaria.
In un ambiente multiculturale, nella quale si è consapevoli delle diversità, emergono per contrasto anche le identità. Le libere manifestazioni esplicite si contrappongono al rispetto e alla neutralità delle interazioni non personali, ma il territorio intermedio, quello della non consapevolezza, non è più praticabile. E così simili tentativi di ‘conta’ impliciti si devono considerare atti imbarazzanti che infrangono il galateo della nostra epoca.

Regolarità

Oggi vado a fare jogging sulla pista ciclabile del Marecchia. A un certo punto ho davanti a me due signore che passeggiano, affiancate, nel mio stesso senso di marcia, a destra, e di fronte un’altra con una carrozzina, che si dirige verso di me, alla mia sinistra. Io mi sposto più veloce. O per meglio dire, loro si muovono più lente, visto il mio passo da mezzofondista di mezz’età. La velocità e la direzione di ognuno dei tre oggetti in moto fa sì che siamo destinati, se non cambiamo il vettore, ad affiancarci tutti e quattro (da sinistra: la carrozzina, io, le due signore) per un istante. Vedo questo e calcolo che possiamo passarci tutti. Lo stesso fa la signora con la carrozzina, che si sposta solo leggermente alla sua destra, come io mi sposto leggermente alla mia sinistra. Per un istante formiamo una linea retta:

carrozzina – io – signora 1 – signora 2

Poi io supero le due signore e la carrozzina continua in senso opposto.

Mi trovo in quel momento a pensare: “Strano, questi allineamenti super-temporanei, sia camminando, sia in bicicletta, sia in auto (per es. in una autostrada a 3 corsie) avvengono più spesso di quanto dovrebbero avvenire se tutti procedessero semplicemente a velocità costante. Non sarà che cerchiamo magari inconsapevolmente di farli avvenire?”

Ma, mah. No, questo non è possibile. E’ vero che un certo istinto porta le persone a prendere la misura da lontano e a effettuare il passaggio in simultanea per avere maggiore controllo degli ingombri, soprattutto alla guida di un veicolo. Ma statisticamente non c’è nessuna prevalenza di allineamenti. Non vi è nessuna legge, né fisica né sociologica, che lo può giustificare.

E’ che, semplicemente, il nostro cervello è costruito in modo da dare maggiore attenzione alle forme regolari e semplici. Se in un bosco per puro caso tre alberi sono in linea retta, l’occhio e il cervello subito colgono questa forma. Così se una nuvola è rotonda, o un lago è a forma di Y (come il lago di Como). Mentre il Lago di Lugano, che non ha una forma semplice, è più difficile da cogliere e da descrivere.

Questa capacità è così forte da farci pensare che le forme ‘significative’ (che hanno figuratività, ma anche regolarità plastica o comunque eidetica) sono addirittura più frequenti o più grandi di quanto sia veramente. In ogni caso, sono più importanti per il soggetto. Allo stesso modo, non appena il rumore del treno, o quello delle ruote dell’auto su lastre di cemento di un viadotto, si avvicina a un ritmo regolare, il percetto attraversa la barriera dell’attenzione e inizia un percorso interpretativo che può cessare subito ma anche arrivare lontano. Forme, forme del senso che emergono e si propagano, si mescolano, risuonano.

Su queste regolarità è facile appoggiare una convenzione, costruire un codice, dar vita a un testo estetico.

Finalmente il blog di Ocula

Da anni conduciamo furiose e (forse) interessanti discussioni su semiotica, media e politica sul nostro forum riservato.

Ora mettiamo il naso fuori.

In quel fuori potenzialmente immenso che è la rete, ma forse persino più piccolo di un forum che alla fine è in modalità push. I lettori di un blog possono essere anche 0.

E così siamo partiti.

Gestalten

Berlino.

La grafica tedesca, ma anche il design e l’architettura sono in genere rigorose, scure, un po’ spigolose.

Un esempio il bellissimo logo di KaDeWe, un antico department store sorto nel 1906 e poi semidistrutto. Ora è stato restaurato dallo studio Schwitzke & Partner Düsseldorf ed è un immenso grande magazzino del lusso.

Ma è straordinario come anche la ghiaia che viene gettata nelle strade per renderle meno scivolose quando sono ghiacciate abbia caratteristiche esteticamente analoghe:

È una ghiaia scura e angolosa, a spigoli vivi, perfettamente funzionale allo scopo di frantumare il ghiaccio sotto le suole. Non quella ghiaia allegra e rotonda che usiamo in Italia, così morbida ma assolutamente inadatta allo scopo.

Gli isomorfismi semantici attraversano le culture in traiettorie a volte sorprendenti.