Categoria: Design

Le scale del deficiente e le soglie di Genette

Giusto l’altro ieri, a poco più di una settimana dall’apertura, arriva il primo post sulla pagina Ocula su Facebook. l’autore è anonimo. È arrabbiato con il suo telefono cellulare, perché ci mette mezz’ora a scaricare due foto, fra cavo USB e driver da scaricare. Ed esclama, il nostro amico: “Serve una semiotica critica delle interfacce!!! Ma kattiva”.

Giusto. Merita una risposta, mi son detto. Anche se, in questo caso, mi affido più a una serie di libere associazioni.

Infatti, questa voglia di una semiotica “kattiva”, con la K dei bei tempi del ’ 77 (“Okkupazione!”), mi ha fatto venire in mente che proprio su Facebook c‘è ancora, seppur dormiente, un gruppo che si chiama “Scale della Bovisa: il progetto di un deficiente”. Un titolo kattivo.

Ma di che si tratta? E la critica semiotica dell’interfaccia?

Si tratta di questo:

Una scala dai gradini (gradoni) larghi. Tanto larghi che a guardare le persone salire e scendere (centinaia al giorno) ti sembra di vedere una colonia di sciancati. Sono scale sulle quali ti tocca fare il passo più lungo della gamba. O a fare un mezzo passo. Sono scale costrittive: quando le percorri, ti rendi conto che non sei più tu a muoverti nello spazio, ma è lo spazio (in questo caso quello della pedata, ossia dove si appoggiano i piedi) che ti guida in una danza traballante.

Ecco, anche le scale sono interfaccia. Non si cliccano, ma si calpestano. Del resto il successo del touchscreen è anche questo: riportare i gesti di interazione con gli e sugli oggetti al livello più basico, quello del toccare. Toccare e provocare. Toccare e modificare. Toccare e far accadere. Il mondo artefattuale è pieno di interfacce. Facce delle cose attraverso cui entri nelle cose, o che per lo meno ti permettono di comprendere il modo di farne uso. E tutto, prima o poi, si tocca. Anche le facce degli altri, nell’intimità.

Già, che saremmo noi senza faccia? E che sarebbe un’automobile senza cruscotto? E un computer senza monitor? Apple sta togliendo tutto, dal computer. Via il floppy, via il cd, via tastiera e mouse, via i fili e ogni corpo separato. I suoi post-computer sono (quasi) solo screen. Che poi screen non è solo lo schermo, è anche un paravento o un muro divisorio; qualcosa che copre e che protegge, che permette di controllare: to be screened.

Lo screen – specialmente se touch – è forse l’artefatto che meglio rappresenta tutti gli artefatti: perché è un dispositivo di accesso, di passaggio e di mediazione, di traduzione. Anche l’idea di affordance ci riporta al varco e al guado (the ford). Le scale sono oggetti-luoghi di accesso e traduzione. Così come lo è un peritesto, ciò che invita e intruduce al testo, come la copertina di un libro, il lembo di una confezione, un cartello segnaletico.

E già, noi semiotici mica le abbiamo pensate male. Ricordate il paratesto, il peritesto e l’epitesto? (http://it.wikipedia.org/wiki/Paratesto). Ricordate le soglie di Gérard Genette? (http://it.wikipedia.org/wiki/Soglie). Scale, porte, paraventi, segnaletiche e schermi sono tutte soglie. Il design della comunicazione, in fondo, è design dell’accesso.

Ecco allora un campo in cui la semiotica non ha da essere solo kattiva. Può perdere la K, diventando attiva. Una semiotica che fa e che fa fare. Che sa operare, o che sa dire come operare, come maneggiare le cose, come pensarle pensando a che cosa accade una volta che vengano maneggiate.

L’ignoto (spero per lui) progettista delle scale della Stazione Bovisa, quello che si è beccato del “deficiente” su FB, questo soggetto ignoto (ma temo che si tratti di più soggetti) non è solo un progettista che fa male. È un progettista che non ha pensato le cose che progettava. Cioè non pensa le cose che pensa.

Fine delle libere associazioni.

Un saluto a Bob Noorda

Oggi, 12 gennaio 2010, le home page dei maggiori siti di informazione riportano – oltre alla politica, l’economia e le mille emergenze – notizie del tipo: “È morto a 104 anni l’uomo che alzava 280 kg con un dito”, “l’ippopotamo Nikica in fuga dalle inondazioni”, “Lo strip di Teri Hatcher fa impazzire il Web”. E di chi si tratta? Oppure ci sono le foto di Marrazzo “dopo lo scandalo”. E poi l’ennesimo scontro fra tram a Milano (una decina di feriti gravi).

Eppure ieri, oltre a Eric Rohmer (“Chi ha due amori perde il cuore. Chi due case diverse perde la ragione”) è scomparso anche Bob Noorda. Ma per trovare una notizia che lo riguardi occorre entrare nelle pagine milanesi.

Bob Noorda è uno dei più noti, importanti e amati “graphic designer” dell’Italia del secondo Novecento. Per quattro volte ha ricevuto il Compasso d’oro. Nel 2005 la Facoltà del design del Politecnico gli ha conferito la Laurea ad honorem. È stato anche un grande docente, a Urbino e a Milano.

Olandese di nascita (Amsterdam, 1927), Noorda ha contribuito alla storia del design italiano. Se siete entrati in una libreria, se avete passeggiato per una qualsiasi città della penisola, viaggiato per strade e autostrade, la sua opera in buona parte la conoscete già. I suoi marchi più noti: Pirelli, La Rinascente, Coop, Arnoldo Mondadori, Regione Lombardia, Agip, Touring Club e molti molti altri. E se a Milano avete preso la metropolitana, avrete di certo visto uno dei suoi capolavori: quel sistema di segnaletica sistemico e minimale (da scuola olandese, De Stijl e Bauhaus) eppure armonico e gradevole. Siamo nel 1962, Noorda ha 35 anni ed era a Milano da pochi anni. Viene chiamato a quell’incarico dall’architetto Franco Albini. Un progetto in sintonia con quegli anni, non d’avanguardia ma all’avanguardia, esportato poi in altre città, New York e San Paolo.

Nel ricordare quella semplice idea della linea rossa raccontava in un’intervista: “Abbiamo tirato fuori un nuovo sistema, diciamo, che è questa famosa fascia rossa della Linea 1, e per la Linea 2 la fascia verde, che porta solo le indicazioni della segnaletica per trovare la strada in questi ambienti e anche sulla banchina. Per esempio una novità: prima di allora c‘era il nome della stazione indicato una volta sola, in mezzo alla banchina, e io invece ho proposto di ripetere il nome ogni cinque metri in maniera che uno che sta nel treno, ancora in movimento, può subito leggere in quale stazione sta fermando”.

Un capolavoro che da anni Milano lascia deperire come una delle tante fabbriche dismesse e ammalorate, mai rinnovata e da qualche anno scempiata con rifacimenti indivibili. Qualche anno fa, infatti, l’amministrazione della città capitale del design e della moda (ah, la retorica!) decise che occorreva dare una rinfrescata a quei cartelli anneriti. E incaricò qualcuno di passare una mano di vernice rossa. Di rosso lucido e scintillante, ovviamente. E poi ci incollarono sopra le nuove scritte, con caratteri adesivi.

Ma il rosso di Noorda non era scintillante e non era un rosso qualsiasi. Nemmeno le scritte – i caratteri – erano scelti a caso. Amareggiato, qualche anno fa ha dichiarato in un’intervista: “Io non so chi ha deciso di fare questa cosa, ho provato ma non riesco arrivare ad una persona, al responsabile, probabilmente hanno dato in mano tutto ad una ditta che ha tolto, pulito un po‘ e riverniciato i pannelli”. E ancora: “C‘è una mancanza della parte pubblica, di chi è responsabile, non c‘è una preparazione vera… Forse non si sono accorti che erano lucide le nuove insegne, o che questo fosse diverso. Se prendiamo l’identità grafica e di comunicazione del governo italiano non c‘è nulla. Io sono olandese, e li tutti i ministeri hanno un’identità perfetta, sono molto avanti, quasi maniacali c‘è sempre una volontà di essere nuovi, qui no. Comunque sia, è un peccato buttare via delle cose che hanno ancora un valore come questa segnaletica che è stata premiata con il compasso d’oro”.

Il suo rosso era invece opaco. Un opaco cercato, studiato, sperimentato: “Nel 1963, abbiamo fatto anche noi una prova con un bel rosso lucido, ma ci siamo accorti che con l’illuminazione che per forza di cose era parallela ai binari il riflesso sarebbe stato terribile, inoltre il lucido avrebbe evidenziato tutte le imperfezioni della posa dei singoli pannelli, e optammo per l’opaco, infatti ora si vede lo spessore delle scritte precedenti, tutto questo è spaventoso”. E il carattere non era preso da un campionario qualsiasi, come scorrere l’elenco dei font di un wordprocessor. Era l’Helvetica, ma fortemente modificato per adeguarlo a una maggiore leggibilità. Un’anticipazione progettuale di ciò che oggi è uno dei fondamenti della progettazione: l’attenzione all’usabilità, lo User-centered design. E ciò che all’inizio dei Sessanta era anticipazione, oggi è oggetto di studio in tutti i centri di ricerca del pianeta. Eppure ha fatto bella fatica ad arrivare nelle menti e sulle scrivanie dei funzionari della capitale del design: “Inoltre – continua Noorda riferendosi all’infausto restauro – hanno usato un carattere leggermente diverso senza considerare le spaziature originali del manuale, il tutto senza chiamarmi, forse pensano che io non ci sia più”.

Forse è per questo che, nemmeno un anno fa, interrogato da un giornalista del Corriere della sera sull’opportunità di ideare un logo per Milano, città dell’apparenza e dalla memoria storica sempre più scarsa, dichiarava senza pudore: “Un logo per la Milano di oggi? Ci ho pensato, ma non mi è venuto. Milano oggi non ha personalità”.

Un caro saluto a Bob Noorda.