Categoria: Televisione

Le fake news e il loro ambiente

La UE in armi contro le fake
Mercoledì 17 gennaio 2018 il Parlamento della UE a Strasburgo discuterà in seduta plenaria sull’influenza della propaganda russa nei paesi UE e i suoi supposti tentativi di influenzare le elezioni in alcuni stati membri attraverso l’uso della disinformazione. https://multimedia.europarl.europa.eu/en/russia-influence-of-propaganda-on-eu-countries_I149371-A_a

Non è dunque fuori luogo che il dizionario Collins abbia scelto come ‘parola dell’anno’ del 2017″fake news”, come riporta la BBC (http://www.bbc.com/news/uk-41838386). La definizione del Collins è “informazione falsa, spesso sensazionale, disseminata sotto le spoglie di notizia di stampa (news reporting)”. “L’espressione -continua BBC- è associata con dichiarazioni del Presidente Donald Trump quando se la prendeva con i media”.

L’interesse semiotico per il concetto è evidente: tutto ciò che serve a mentire è affar nostro, secondo la famosa affermazione di Eco. Proviamo allora a riflettere sinteticamente sul fenomeno.

Che la menzogna, abbia le gambe corte o meno, sia cosa antica quanto l’uomo è innegabile. Ci sono però molte categorie di menzogne. Fake news, nello specifico, è messaggio ‘disseminated’, propagato ad arte, non semplice bugia in risposta a domande scomode. Le menzogne diffuse per un disegno, ben preciso o genericamente mirato, sono strumenti che il mentitore adopera per procurare danno agli avversari e vantaggi a sé e la sua parte.

Fake News e Gossip
Non si devono confondere fake news e pettegolezzo. La differenza può sfuggire, perché spesso la fake si maschera da gossip. Vengono rivelati affari privati di persone importanti che (si presume) esse non vorrebbero far sapere. Ma sono falsi. Quando riguarda un personaggio, dunque, la fake è equivalente alla calunnia o diffamazione a mezzo stampa. Assieme alla calunnia, tuttavia, viaggia anche la sorella, l’adulazione, che viene in genere stigmatizzata nelle dittature e nelle democrature, dimenticando i servizi elogiativi su questo o quel politico che compaiono su magazine e siti web di paesi democratici, le raffinate photoshoppature dei manifesti elettorali, le interviste inginocchiate di giornalisti e host televisivi compiacenti.

Calunnia o adulazione, il gossip non è fake news. Esse però lo parassitano, si mascherano con la sua effigie. La diceria in cui consiste il pettegolezzo (sul quale mi permetto di rinviare a “Per una semiotica del gossip”, in Gossip. Moda e modi del voyerismo contemporaneo, BUP 2010) non è fake news, in quanto il valore del pettegolezzo è nella sua autenticità. Il gossip fiorisce proprio quanto più rivela aspetti veri, per quanto spiacevoli, di una società che li cela. Il gossip può a volte essere calunnia, diffamazione, maldicenza, ma non può esserlo sempre o a lungo. Infatti, nel momento in cui l’iniziatore del pettegolezzo mente, la rete dei pettegoli si divide in chi inganna e in chi è ingannato, e se colui che rivende una notizia falsa senza sapere che è falsa viene sbugiardato, rompe il legame di fiducia con il propagante e cessa di ascoltarlo o comunque di propagare le sue notizie. Siccome il gossip si basa sulla diffusione riservata dei messaggi in una rete sociale, la rottura del contratto fiduciario distrugge una porzione della rete. Per questo il pettegolezzo preferisce l’iperbole, la deformazione, alla menzogna tout court. Questo non toglie che porzioni di una rete di gossip possano dedicarsi, per un certo tempo e con un certo numero di complici, alla denigrazione o al mobbing.

Fake News e mass media
Avendo provato a definire come fake e gossip si distinguono e si mescolano, è però necessario allargare l’orizzonte ai media, in quanto le fake sono solo un fenomeno mediatico, mentre il gossip esiste sia nei gruppi sociali sia su media ad esso dedicati.

Le fake news come fenomeno mediatico si rifanno certamente alla propaganda, politica o bellica, definibile come “tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto.” (http://www.treccani.it/enciclopedia/propaganda/). La propaganda, tuttavia, non è necessariamente menzognera, anche se il termine implica comunque “un certo grado di occultamento, manipolazione, selettività rispetto alla verità” (ib.). In situazioni di forte contrapposizione tra parti, come guerre, conflitti sociali e politici o campagne elettorali, l’intensità e la falsità della propaganda tendono ad aumentare, in ossequio al tanto criticato ma altrettanto praticato assioma machiavelliano sul fine e sui mezzi. Durante la prima guerra del Golfo CNN produsse probabilmente notizie del tutto false (https://www.youtube.com/watch?v=jTWY14eyMFg), ma praticamente tutte le guerre sono accompagnate dalla propaganda. Allo stesso modo, le campagne di disinformazione hanno attraversato tutti i decenni della guerra fredda, e continuano tuttora, trovando nella rete un ambiente particolarmente adatto. Non c’è molto da meravigliarsi se la Russia attua o favorisce campagne di informazione in rete: Putin viene dal KGB sovietico, che è l’inventore della dezinformatzija (https://it.wikipedia.org/wiki/Disinformazione), validamente emulata dai servizi occidentali.

La rivoluzione dell’accesso
Le fake news, soprattutto, nascono e vivono nella rete, e il loro impatto è dovuto al cambiamento epocale che il “news report” ha subito nei processi produttivi, distributivi e ricettivi dell’informazione. Dalla nascita dei mass media all’avvento di internet le notizie erano tali perché provenienti da una fonte che corrispondeva a un’organizzazione; oggi invece non solo le fonti si sono moltiplicate immensamente, ma si sono polverizzate fino a corrispondere, in molti casi, a iniziative individuali. Blogger, youtuber, social networker anche molto famosi, sono spesso singoli individui, che danno vita a organizzazioni se e quando i profitti lo permettono. Non solo, ma creare un sito web o un account corrispondente a una qualsiasi pseudo-organizzazione è facilissimo. Le fonti delle notizie possono apparire e scomparire nella rete come bollicine nell’acqua.

A questo si aggiunga che gli oggetti digitali (testi di qualsiasi tipo) si possono duplicare infinitamente senza perdita di qualità, e in gran parte si possono anche manipolare senza lasciare traccia o quasi. Immagini e video possono essere ritoccati e alterati molto facilmente, rendendo possibile la trasformazione di una notizia vera in fake, l’assemblaggio di falsità e verità, la mimetizzazione delle fonti, e altri trucchi.

Dal lato della ricezione, quindi, non c’è da meravigliarsi se troviamo una grande confusione nella validazione delle fonti. Il pubblico generico non è stato educato ad analizzarle e giudicarle, forse anche perché i pochi grandi emittenti non avevano molto interesse a farlo. La diffidenza nei confronti dei media ‘ufficiali’, quindi, non si è diffusa nell’opinione pubblica solo a causa dei tweet di Trump o della propaganda putiniana o nordcoreana, ma in parte è giustificata da casi evidenti di produzione di notizie false e di un generalizzato uso dello spin e dell’agenda setting a vantaggio dei punti di vista degli emittenti e dei loro stake holders.

Echo chambers e nebulizzazione delle fonti
Tutti questi fattori, e altri, hanno contribuito a creare una situazione di confusione nella quale il post proveniente da una fonte ignota o da un passaparola assume la stessa o maggiore validità di quello di un autorevole quotidiano. Il fenomeno delle echo chambers (https://en.wikipedia.org/wiki/Echo_chamber_(media)) è legato alla tendenza di ogni individuo ad aggregarsi ad altri che la pensano in maniera analoga, ma si fonda anche sulla costante svalutazione dell’autorevolezza dei media ‘ufficiali’. E non è un fenomeno del tutto nuovo. Negli anni 60-70, in Italia e non solo, gli ambienti alternativi avevano costruito reti di controinformazione che si ponevano proprio come fonti alternative ai poteri dell’informazione. Di conseguenza la nozione di informazione si è dilatata fino a perdere la precisione del contorno: oggi la notizia è quello che un utente riceve dai canali news ai quali è connesso abitualmente, o in risposta a stringhe che digita su Google. Se non ha una competenza specifica sulla qualità e tipologia delle fonti, sulla produzione di notizie e sulle tecniche di manipolazione, se non ha il tempo e l’attitudine per il debunking, il suo sistema di opinioni e credenze rischia di essere colonizzato da credenze false fino al ridicolo. Sia detto per inciso, la formazione liberal, laica e politically correct, che si astiene dall’insegnamento di principi ideologici, etici o tradizionali, se non è accompagnata da una rigorosa educazione alla critica razionale, alla logica argomentativa, alla retorica e alle strategie di propaganda, non fornisce alla persona gli strumenti per formare adeguatamente la propria opinione. Il saggio “Come rendere chiare le nostre idee”, di Charles Peirce, a mio parere uno dei più bei testi mai scritti su questo argomento, oggi è ancora pienamente attuale.

Siamo tutti broadcaster
La storia dei media, dalle affissioni alla TV generalista, è stata quella di una continua estensione dell’audience, fino alla ‘mondovisione’. La tecnologia dell’accesso praticamente consente a tutti i soggetti riceventi di essere anche emittenti: il costo di produzione e distribuzione dell’informazione si riduce in pratica a zero. Oggi non c’è nessun ostacolo tecnico a che un video prodotto in casa da un non professionista venga visto da un miliardo di persone.

In una tale situazione, un soggetto organizzato può, utilizzando alcuni accorgimenti informatici come i bot, piccoli programmi che simulano il comportamento umano, far arrivare una notizia di qualsiasi tipo a un gran numero di utenti senza rivelare la fonte. E’ l’ordine di grandezza che è cambiato: i partecipanti a una comunicazione personale di un privato cittadino, prima di internet, erano quelli ai quali poteva inviare una lettera o telefonare, al massimo poteva usare la pubblica affissione, stampare libelli o distribuire volantini, ma doveva sottostare a determinate regole ed era facilmente controllabile. Mentre scrivo, i followers di Donald Trump su Twitter sono 46,4 milioni, e queste persone sono a distanza zero -in termini di filtri- dallo smartphone del Presidente degli USA. Ma la distanza è la stessa per qualunque utente. E infatti, sotto i tweet di Trump è possibile leggere i commenti di chi è d’accordo e di chi non lo è, postare foto contro le sue proposte di legge e criticare quello che scrive. In genere i media tradizionali riportano solo i tweet del presidente, e quasi nessuno sottolinea come gli utenti rispondano a questi tweet, a volte anche in modo piuttosto veemente. Internet ha abbattuto la distinzione tra comunicazione di massa e comunicazione privata. Oggi l’individuo deve difendere la propria comunicazione privata dall’invasività di messaggi gestiti come media di massa. Non esiste più un canale totalmente riservato: call center e spamming hanno colonizzato i due canali one-to-one per eccellenza, telefono e posta. La messaggistica consente di selezionare i propri contatti, ma con difficoltà.

La condivisione dei contenuti è sempre più selettiva
In questo ambiente brulicante di informazione gli individui tentano naturalmente di costruire e presidiare reti di connessione personali, non sempre echo chambers. Molti hanno alcuni servizi dai quali ricevono notizie, e una rete più o meno ampia di amici, parenti e conoscenti che gli inoltrano informazioni e ai quali le inoltrano a loro volta. Ognuno assegna un grado di credibilità a ogni pezzettino di informazione, ma non solo. Anche un grado di piacevolezza, divertimento, ecc. Se ricevo news, ad alcune credo più che ad altre. Se ricevo barzellette, alcune mi fanno ridere più di altre. Il grado di credibilità assegnato dipende dalla competenza e dall’orientamento di ogni individuo. Il gradimento è un dato soggettivo, influenzato da molti fattori, individuali e circostanziali. Ma quanto la credibilità vale il gradimento. Se ricevo su WhatsApp una barzelletta pesantemente anti-governativa, specie se è allusiva o volgare, il gradimento può dipendere anche dalla mia posizione politica, e la scelta delle persone alle quali inoltrarla dipenderà anche dalla reazione che immagino possano avere. In una società nella quale il rispetto per le opinioni altrui è tale che la mera espressione delle proprie idee può essere considerata offensiva, si genera una pressione verso una condivisione dei contenuti selettiva: ognuno finisce per esprimersi liberamente solo con chi ritiene affidabile. Ancora una spinta verso le echo chambers. Uno spazio sociale chiuso entro i confini di un orientamento ideologico diventa terreno fertile per la disseminazione di fake news, anche involontarie.

Post-verità, militanza e terroristi del post
Verità e gradimento sono aspetti cognitivi ed emotivi, mentre la comunicazione, come la semiotica ha detto da tempo, possiede un fondamentale aspetto performativo. Non solo dice, ma fa.

Se affrontiamo infatti le fake news solo dal punto di vista della verità e della condivisione andiamo poco lontano: riusciamo a spiegare perché circolano, ma non perché si diffondono con tanta pervicacia e perché suscitano tanto allarme. Spesso si sente lamentare l’ignoranza delle persone, che continuano a far girare, per esempio, notizie false che gettano in cattiva luce la classe politica italiana e in particolare il governo. Il fatto è che a molti non interessa affatto se le notizie sono vere o false. Il desiderio di fare del male ai politici, specie se visti come espressione del potere, in quanto soggetti disonesti e incapaci che si arricchiscono con il denaro dei cittadini, prevale su ogni preoccupazione di verità. Siamo appunto nel dominio della post-verità, che infatti fu parola dell’anno del 2016 secondo l’Oxford English Dictionary (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). La post-verità è legata a una parola molto meno di moda: la militanza, così importante nella formazione ideologica dei partiti e di altre affiliazioni. Il militante non si deve chiedere se la notizia che gli viene chiesto di accettare e diffondere è vera, ma solo se giova al partito e nuoce ai nemici. Se un tempo la militanza avveniva entro i partiti e le organizzazioni, oggi ogni utente di uno smartphone è un potenziale partigiano nascosto che per qualche minuto al giorno compie i suoi piccoli atti di ribellione all’interno di un processo di massa. In realtà ognuno di noi è un terrorista dormiente del whatsapp… Molti messaggi diffusi nei social sono accompagnati da inviti espliciti: “E’ una vergogna, invia questo messaggio a più persone che puoi”, e altrettanto spesso si usano espressioni come “Non troverai questa notizia sui giornali e in TV, perché non vogliono farcelo sapere!” Si tratta di una facile profezia: dato che la notizia non esiste, o è stata deformata, non si troverà certamente da nessuna parte. Raramente queste notizie forniscono indicazioni su come avere una conferma dei fatti asseriti. Ma chi siamo ‘noi’? Chi è questo enunciatore implicito al quale i messaggi fanno appello? Quando viene descritto è generalmente raffigurato come ‘il trombato’, il contribuente salassato dal fisco, l’automobilista tartassato dall’autovelox, il lavoratore licenziato, in sintesi una vittima di un sistema opprimente in genere identificato con lo Stato o i politici che lo rappresentano.

In generale, la verità della notizia passa in secondo piano rispetto al suo impatto emotivo e pragmatico. Il singolo ricevente-emittente, indignato, si chiede semplicemente se il suo atto contribuisce alla lotta alla quale sta partecipando come guerrigliero dei social. Le fake news si diffondono perché ‘risuonano’ con un atteggiamento di rivolta, aggressività e protesta nei confronti di persone o istituzioni, non perché sono vere.

Strategie divisive
E’ evidente che in questa situazione vi sono molte opportunità per azioni strategiche di disinformazione. In occasione di elezioni, per esempio, la diffusione capillare e massiccia di fake news può effettivamente orientare la scelta di certi profili di elettori, dagli indecisi ai ‘decisori dell’ultim’ora’.

In generale, sono agevolate le strategie che si appoggiano su questioni divisive. Se troviamo un argomento, per esempio l’atteggiamento verso i migranti, che divide l’opinione pubblica in due parti comparabili, più o meno due metà, la strategia sarà di diffondere messaggi che rafforzano entrambe le posizioni. A un video che elenca stupri fatti da immigrati, corrisponderà d’altra parte la notizia di un gruppo di attivisti di ultradestra che prende a botte una coppia di colore. Il risultato è che il primo messaggio circolerà tra gli anti-immigrati, i quali trascureranno l’altro, e viceversa. Ma quello che è più importante in questo tipo di strategia è confondere la grande massa di chi non ha una posizione pregiudiziale. Chi cerca di avere un’opinione ragionevole si troverà nella necessità di ragionare, discriminare, costruire la sua posizione su distinzioni. Si produce così un modello di valori che contrappone idee nette ed emozionali (“Basta immigrazione! Fuori i clandestini!” VS “Bandire i neofascisti! Solidarietà e protezione per i migranti!”) a idee articolate e razionali (“Gestire e regolare l’immigrazione, ma garantire i diritti e la sicurezza di tutti”). Nel marketing si sostiene che i messaggi emozionali tendono a prevalere su quelli razionali. Sicuramente vi sono dati sperimentali che lo confermano, ma personalmente la vedo un po’ diversamente.

Cultura del desiderio e scelte emozionali
Ogni individuo e ogni gruppo prendono decisioni sia su basi razionali sia su basi emozionali, o mescolando le due motivazioni. Pensate a come fate la vostra scelta dal menu di un ristorante. Chiunque non abbia seri problemi mentali sa che le decisioni prese senza riflettere sono rischiose, anche se a volte gratificanti. Tuttavia le mode culturali sono molto influenti, e la nostra cultura è fortemente orientata a considerare la soddisfazione del desiderio l’obiettivo più importante della vita. E il desiderio di per sé è irrazionale, istintivo, libero, creativo e forse sovversivo. Ciò non toglie, tuttavia, che il desiderio sia anche fortemente influenzabile.

Molti di noi, per esempio, vorrebbero essere ricchi, perché in tal modo pensano che potrebbero prendere più decisioni d’impulso e soddisfare più desideri. Decidere in maniera più o meno razionale è un abito che dipende in buona parte dall’educazione e dall’ambiente in cui viviamo. Penso che dalla nascita e dallo sviluppo della società consumistica la spinta a prendere sempre più decisioni emotive sia aumentata notevolmente, non tanto per un immorale interesse dei grandi manipolatori (primo tra tutti il sistema pubblicitario) ma per il fatto che prendere decisioni impulsive ed emozionali viene collegato alla soddisfazione dei propri desideri. D’altra parte, mai una società era esistita nella quale l’unico ostacolo tra un individuo e qualsiasi bene o servizio disponibile fosse solo il denaro e il denaro stesso fosse ottenibile in tanti modi diversi e continuamente crescenti.

Se in una cultura, meglio ancora in una civiltà, l’atteggiamento verso il desiderio è questo, è determinato in modo speculare anche l’atteggiamento verso il suo opposto: il fastidio, la repulsione. Se ci riflettiamo un attimo, i prodotti che risolvono un fastidio sono pubblicizzati quanto e con gli stessi schemi di quelli che soddisfano un desiderio. E anche in questo campo non si può negare che enormi cambiamenti sono avvenuti. Dall’aria condizionata agli antidolorifici, dai deodoranti agli abiti confortevoli, sforzi immensi vengono fatti ogni giorno per risolvere i problemi dei consumatori e dei cittadini. Mi viene in mente una serie di cartoons della Disney la cui sigla si conclude ogni volta con le parole “…e il problema non esiste più!” Il leit motiv è insegnare al bambino che ogni problema si può risolvere con il ragionamento e i giusti strumenti. Entrambi però appaiono come per magia al momento giusto.

Purtroppo, materie come la logica, il decision making, la valutazione delle fonti (che persino un contadino che andava alla fiera a comprare una vacca sapeva fare…) non fanno parte dei curricula scolastici e non hanno molta audience in TV.

Vax e no-vax: un tema esemplare
Se non inquadriamo il problema delle fake news in questo orizzonte culturale epocale, non riusciremo a risolverlo. Uno dei terreni più insidiosi, per esempio, è quello delle vaccinazioni. Una vera guerra tra parti opposte è in corso in Italia e in tutto il mondo. Ma alla base vi sono due fattori fondamentali: la sfiducia nella sanità pubblica e l’ansia delle madri per la salute del proprio figlio. Il carattere statistico dell’efficacia delle campagne vaccinali e la complessità della relazione causa-effetto nella valutazione delle reazione avverse non consentono di semplificare a sufficienza la comunicazione, mancando le basi culturali nei riceventi. In particolare in Italia, metodo scientifico e teoria della probabilità restano materie estranee alla formazione scolastica. In tal modo l’echo chamber antivax è difesa da invalicabili muri di notizie di bambini vaccinati soggetti a patologie gravi e compromissione dei politici con le multinazionali dei farmaci, quest’ultime spesso non fake. E’ ovvio che le stesse mamme antivax si incatenerebbero davanti alle ASL se ci fosse un’epidemia di polio e i vaccini venissero lesinati o negati. Ma non c’è nessuna epidemia percepibile, e nessuno si è curato di introdurre la storia della sanità nei programmi scolastici, mentre i media sono pieni ogni giorno di notizie sulle grandi aziende avvelenatrici e inquinatrici. Quindi il terreno è fertile per le fake e per le quasi-fake e per le notizie semplicemente vere. E il ragionamento più semplice ed emotivamente facile prevale: il vaccino è obbligatorio (imposto da uno Stato inaffidabile e da politici compromessi), lo vedo, viene inoculato, e può far male. Questo è vero. La malattia non c’è, non è grave, è invisibile e non è detto che il bambino la prenda, e anche questo è vero. Dei due rischi, individualmente è più alto il primo. Si elimina un fastidio, dato che l’ansia da vaccino prevale sull’ansia da malattia. La teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero, sono tutte cose che nessuno si preoccupa di insegnare a scuola o spiegare in televisione.

La decisione di impulso è facile, è più piacevole. Se poi si sceglie una posizione emozionalmente, e se si frequenta l’echo chamber adatta, tutto diventa più facile ancora. Amici e nemici sono nettamente separati e si può diventare un partigiano militante: postare e condividere, commentare e rilanciare.

Semiosi della liquidità
Ancora una volta vediamo che la comunicazione, e la semiosi come flusso che costruisce l’enciclopedia individuale e collettiva, sono processi a spirale, che giro dopo giro configurano e riconfigurano credenze, opinioni, giudizi, valori. Il cambiamento epocale è, al momento, nella grande complessità di voci che parlano al singolo, spesso in maniera dissonante, su argomenti e temi del tutto diversi. E il singolo, a sua volta, formato in una cultura della rapida soddisfazione del desiderio, cerca soluzioni semplici e facili, e rifiuta i fastidi, disorientato da una complessità che non ha gli strumenti per affrontare.

E’ un dato facilmente verificabile che, in questa cultura, costruire e mantenere opinioni solide e durature, connesse tra loro da una logica legata a principi generali, cioè quella forma di mentalità (chiamiamola borghese?) prevalente fino agli ultimi decenni del secolo scorso, non viene più considerato il comportamento proprio di un individuo o cittadino maturo e consapevole. Oggi la mutevolezza dei pareri, la fluidità delle opinioni, persino la continua revisione delle credenze (ciò che si crede vero) è accettata come diritto e praticata anche da politici importanti e capi di stato. Di conseguenza, siamo tutti liquisi, continuamente aperti alle ultime notizie, alle ultime novità, ai cambiamenti, ci adattiamo alle stagioni come il leoncello dantesco “che muta parte dalla state al verno”.

Conclusioni
Concludere questo saggio (che ha già mentito sulla propria lunghezza)  lamentando la crisi dell’occidente sarebbe di scarso supporto al lettore, che spero voglia formarsi un’opinione personale più che ricevere un’ennesima soluzione istantanea. Rinunciando perciò alla mia quota personale di liquidità, assumo l’onere di qualche proposta.

E’ necessario che uno sforzo massiccio venga fatto non verso la repressione delle fake news, che è difficile, probabilmente impossibile, e soprattutto pericolosa per la libertà di espressione. Purtroppo politici di alto livello si sono già espressi in questa direzione in tutto il mondo, domandando leggi ‘anti fake’. Ma se combattere il comunismo e il capitalismo erano già imprese piuttosto ardue, pensare di farla finita con la menzogna appare francamente un obiettivo un po’ al di sopra delle attuali capacità di qualsiasi governo.

Per combattere le fake bisogna somministrare potenti ricostituenti culturali all’opinione pubblica, attraverso i media e il sistema educativo. Bisogna insegnare a pensare meglio, a capire, bisogna spiegare che la verità è qualcosa che si indaga. Bisogna, insomma “rendere chiare le nostre idee”.

Realtà del reality. Brevi cenni fra letteratura e intrattenimento

Capita sempre nella vita di ritrovarsi a scegliere fra quantità e qualità (più amici senza guardare troppo per il sottile, meno amici ma di classe, meno soldi, ma più felicità etc.). La televisione italiana da anni ha scelto la strada della quantità. I più abbondano: più programmi, più conduttori, più pubblicità, più telegiornali.
La questione è annosa: cosa c‘è di reale nei reality e, molto di più, che cos‘è un reality? Non è certo affare di poche righe, come quelle che abbiamo qui sotto, disquisire su come inserisca la parola reality nell’idea stessa di realtà o falsità televisiva. Prendiamola alla larga, molto alla larga. Capita ancora oggi di dire, specie se si amano i termini desueti, ad un amico messo in crisi dalle sue stesse ardite supposizioni in merito alla fedeltà della sua fidanzata: “ma cosa vai a pensare, non siamo mica in un romanzo”. Il senso di questa frase è di facile comprensione, ma ha forse un portato culturale maggiore di quello che possiamo immaginare. Ci dice: la realtà non è quella incantata dei romanzi dove per romanzo si intende, per antonomasia, quello popolare ottocentesco e per realtà romanzesca ci si riferisce a un contenuto stereotipato di eroi, eroine, palazzi, maghi e avventure. Non è questione da poco: Franco Moretti, in un bel saggio dal titolo “Il secolo serio” inserito nel volume La cultura del romanzo da lui curato, riprende due termini Roland Barthes apparentemente astrusi: ’funzioni cardinali‘ e ’catalisi‘. Niente di più chiaro invece: le funzioni cardinali sono i nodi che determinano gli eventi di un romanzo, le catalisi sono tutti gli episodi definibili come ’riempitivi‘. Nota Moretti che il romanzo delle origini abbonda di nodi, tutta una successione di eventi epocali per lo spiegarsi della storia (X naufraga, si ritrova senza cibo, incontra una tribù di selvaggi; oppure X rivela il suo amore per Y, ma scopre che Y è sua sorella, Z imprigiona Y etc.). Poi il romanzo ’borghesE’ inizia a dare sempre più spazio alle catalisi, ai riempitivi che scandiscono una realtà non determinante ai fini della storia (descrizione di un pranzo di X e Y, pensieri e riflessioni di X dopo una cena dalle zie). Insomma, si indugia. Inutile dire che indugio non vuol dire noia, ma al contrario l’inizio del grande romanzo moderno: siamo più interessati al mondo che circonda Emma Bovary che ai suoi effettivi tradimenti (solo due in fondo, sciocchezze) e molto più ansiosi di scoprire il percorso interiore di Raskolnikov che di saper se verrà scoperto nel suo delitto. La narrazione quindi si compone sempre più di indugi, episodi apparentemente secondari, piccoli eventi (che giustamente ricordano a Moretti le composizioni dei quadri di Vermeer). Questo non succede nella letteratura di massa, o di largo consumo, dove invece abbondano i tradimenti, le passioni, gli svelamenti, financo gli omicidi. Qui, state pur certi che se ci si focalizza su un anello questo sarà la prova di un infedeltà e se passa un brutto ceffo per strada è probabile che abbia un coltello o una pistola sotto il cappotto. Ecco allora, la consolazione: “non siamo mica in un romanzo”. Memore di questa tradizione era anche la produzione fiction televisiva. Le telenovelas, i serial ma anche i rotocalchi rosa abbondavano di ’funzioni cardinali‘: quello ha tradito quell’altra, lei è incinta o forse no, quell’altro è il vero padre di quest‘altro; poco importava che si trattasse di narrazioni svoltesi nella finzione (telenovelas) o nella realtà (programmi di gossip).E poco importava, ovviamente, dei travagli interiori, degli indugi privati dei personaggi. Tutto questo costruiva una realtà ’magica‘ cara agli studiosi della ’uses and gratification theory‘ in cui la casalinga di Voghera e il bracciante lucano potessero identificarsi, uscendo dalla loro routine quotidiana. Il reality non cambia le carte in tavola, le inverte. È l’indugio,l’elemento intimo e privato, a invadere per intero la scena narrativa. Niente di quello che succede in un reality può davvero configurarsi come un nodo, come una funzione cardinale e la cosa salta agli occhi. Cosa può succedere ad uno qualunque dei personaggi all’interno di un reality che possa risultare un nodo, un momento cardinale nella sua vita: non si hanno svelamenti (non si hanno notizie nei Grandi Fratello e simili di agnizioni: nessuna madre perduta, nessun ricongiungimento familiare), non si hanno gravidanze, omicidi, rapimenti. Non succede in ore e ore di riprese nulla di quello che può succedere in una pagina del Conte di Montecristo o in una puntata di Beautiful. Resta però qualcosa di quest‘ultimi: la particolarità dello sfondo (isole deserte, case hi-tech) e la dimensione irreale dei personaggi (uomini e donne famose o quasi, ragazzi/e ex comuni, ora nobilitati dal programma, donne particolarmente belle e stupide o uomini eccezionalmente brutti e intelligenti).

È la narrazione che si è via via resa evanescente, perdendo anche le basi stesse del racconto. Cosa è rimasto, nell’Isola dei famosi, dell’idea del naufragio, se non che i naufraghi si trovano su un bellissimo atollo caraibico? La differenza fra una fiction e un reality, o meglio, una delle differenze, è che il reality è protonarrativo rispetto alla fiction: non vi è nessuna storia complessa, ma la combinazione di situazioni. Eco scrive nelle sue Postille al nome della Rosa che il romanzo nasceva dal suo desiderio inconscio di vedere dei preti o dei monaci uccisi in un convento. Ecco la forma protonarrativa di un possibile reality: dei monaci in un convento, magari monaci famosi, ma niente morti per carità. Stevenson pensava, un secolo prima, per far dormire il figlio irrequieto, a un’isola dove in molti cercavano un tesoro nascosto. Ecco l’idea principe di molti reality su cui gli eredi dello scrittore scozzese potrebbero chiedere delle royalties. Stevenson ed Eco hanno avuto la perseveranza di continuare questa forma primigenia e costruirne una fiction, un romanzo. Alla base c‘era un momento embrionale che accomuna tutti, scrittori, spettatori, lettori, ma che è cosa ben diversa dal costruire una storia: è in questo senso che siamo tutti ideatori di reality e in pochi scrittori di romanzi. Chi non ha pensato, almeno una volta, nella sua vita, guardando certe vallette inebetite e succinte o certi calciatori che facevano e pensavano tutto quello che faceva e pensava il mister e nonostante questo, o proprio grazie a questo, guadagnavano notevoli quantità di denaro, chi non ha pensato che queste persone sarebbero state bene, per un periodo, per carità non troppo lungo, in un’isola deserta senza cibo e senza tetto? Quanti fra noi, guardando il compagno tutti 10 con occhiali e brufoli e la bionda, bellissima ragazza un po‘ oca, ma molto cool della classe accanto, non si è detto: ’ti immagini metterli assieme nella stessa camera per un mesE’. Ognuno di noi aveva già inventato il reality che inevitabilmente non è meno o più reale del resto della televisione, semplicemente non si basa su una scaletta, su un copione, su una sceneggiatura; esso salta la dimensione discorsiva, l’affinamento degli spazi, dei caratteri e si attacca direttamente alla forma protonarrativa che appartiene già al pensiero di tutti coloro che sono troppo impegnati in altro per fare televisione anziché guardarla.
La dimensione discorsiva si blocca in questa narratività aurorale e i personaggi e il loro sfondo si immergono in un tempo dilatato (catalisi, indugio) dove è persa la possibilità di approfondimento psicologico, dove i singoli gesti e i singoli atti non ricostruiscono le esistenze dei personaggi, come invece avveniva nel grande romanzo borghese di cui parla Moretti. Resta però lo strano effetto di una low fi-reality (per citare un bel saggio di Demaria, Grosso, Spaziante) dove, come in un romanzo che metta insieme le fortezze e gli intrighi di Dumas, le pie fanciulle e i principi cattivi di Walpole con i tempi e le descrizioni di Kafka e di Dostoevskij, si inseriscono fra personaggi famosi e isole di sogno le telecamere fisse di Warhol o di Godard. Non la ipereality delle telenovelas, atte a soddisfare i bisogni delle casalinghe insoddisfatte, ma una travolgente iporeality. Cosicché, oggi, all’amico che, questa volta, appare troppo sicuro, nonostante certi indizi, della fedeltà della sua fidanzata, possiamo dire: “Ehi, stai attento, bello, non siamo mica in un reality show.”