Autore: Federico Montanari

Self-Mapping. Mappare le città: fra geoblogging, pratiche di progettazione urbana ed etnosemiotica. A partire da un convegno a Bologna

Perché è così importante, oggi, costruire e disegnare mappe? E perché questa attività di mappatura è divenuta così tanto diffusa e rilevante, nella nostra attuale cultura e vita sociale, in particolare, anche se non in modo esclusivo, per quanto riguarda gli spazi urbani?

Certo, si dirà che da sempre le mappe rappresentano degli strumenti fondamentali di rappresentazione e di vita delle culture.
E sulla centralità di questo tema è importante tenere presente il lavoro dei geografi, come Franco Farinelli, il quale ci ricorda spesso le diverse, possibili declinazioni del rapporto fra mappa e territorio. A partire dal noto slogan “la mappa non è il territorio”, coniato da Korzybski, e poi criticato e discusso da Bateson; fino al famoso racconto di Borges, di una mappa che nel lavoro di infinita precisione dei cartografi arriva a sovrapporsi perfettamente al territorio; e alla sua ripresa da parte di Baudrillard, con l’idea di un mondo, quello attuale (forse già in via di mutazione?), del simulacro e della simulazione, in cui la mappa precede il territorio. Ma nel quale, forse, oggi non restano che tante mappe sparse e specializzate, per quanto interattive.
Ad ogni modo, oggi, senza dubbio qualcosa è cambiato. Le mappe attuali, fra Google, GIS, GPS e il Web – “The Map” per eccellenza, le cui componenti attuali, social networks e contenuti disseminati essi stessi in forma di mappe e di grafi, quando non direttamente geolocalizzati – da forme di rappresentazione del territorio, sono diventate vere e proprie “attività” e “pratiche” socializzanti: di interazione e di vita sociale.

Dagli scambi fra mountain bikers o joggers, alle forme di turismo “dal basso” o autogestito (consigli sui locali pubblici o percorsi del divertimento in una città, per genere, etica e stili di vita, per estetiche di consumo e scelte di gusti sessuali), alle mappature sociali e politiche ed ecologiche dei territori; tutto questo sembra essere la novità del decennio.

Il convegno del 19 gennaio, organizzato da CUBE (Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica, #mce_temp_url# ) come punto di arrivo della prima fase del progetto “Self Mapping” (a partire dal bando ISA-topic, Istituto Studi Avanzati dell’università di Bologna) ha cercato di porre alcune di queste domande. Un primo tentativo di “mappare i mappatori”.

Dagli interventi dei politici, agli amministratori pubblici, interessati ai modi di costruire mappe urbane utili per la progettazione della città (le mappe oggi sono come dei veri e propri sensori in grado di fornire notizie e fare da feedback in tempo reale sulle trasformazioni e gli usi che i cittadini fanno degli spazi urbani); alle mappe per la promozione urbana (dalle forme avanzate di marketing urbano e di mappatura del territorio, al turismo “autoproposto” e responsabile, come il festival Itacà, ai percorsi artistici e culturali, fino agli attuali e diversi modi della partecipazione cittadina, o a casi come quello di Iperbole del Comune di Bologna che, anche con i suoi attuali sviluppi, ha rappresentato uno dei primi esempi di rete civica in Italia); dalle mappe “emotive” (vedi ad esempio i lavori di Christian Nold:)e per universi tematici proposte dal gruppo “mappe urbane” .

Per arrivare agli studiosi ed esperti che hanno mostrato come le mappature urbane possano divenire esperimenti collaborativi di elaborazione estetico-artistica delle immagini di una città, portati avanti assieme da cittadini e ricerca accademica (Annalisa Pellizza di Lepida Tv, come nell’esempio, da lei segnalato, dell’esperimento “Highrise” sviluppato a Toronto); o possano servire a mostrare rappresentazioni delle città, percorsi turistici (Ragonese, Galofaro) o i loro trascorsi anche drammatici (Mazzucchelli con Sarajevo).

Molti sono i laboratori, in Europa e nel mondo, dove il lavoro di sperimentazione delle mappature viene portato avanti (si veda, ad esempio, il già citato “Highrise” o i casi, fra gli altri, del Centre for Advanced Spatial Analysis di UCL, Londra (www.bartlett.ucl.ac.uk/casa e www.digitalurban.org)veri e propri luoghi di invenzione di nuovi strumenti di mappatura (ringrazio Davide Gasperi per una chiacchierata e alcune indicazioni al riguardo);partendo dalla possibilità, oggi, di incrociare e fare interagire diversi sguardi e punti di vista che una volta erano separati e incompatibili: insieme, quello “dall’alto” – sguardo di Dio, zenitale – con quello a volo d’uccello o alla street view, a partire da cui sono stati sviluppati esempi di servizi come Walk Score che forniscono il grado (e gli esempi visivi) di “walkability” di un quartiere o di una città.

Insomma, per tirare alcune (provvisorie) conclusioni, lo scopo di questa giornata di studi è stato quello di riflettere in modo attivo e propositivo su come si “mappano” e si attraversano le città.

Tuttavia, non si trattava solo di discutere il punto di vista degli studiosi, ma anche quello dei cittadini che quotidianamente vivono gli spazi urbani. E che oggi costruiscono mappe. O meglio, potremmo dire che gli studiosi degli spazi urbani seguono e osservano i cittadini, i quali, a loro volta. diventano studiosi, geografi di loro stessi: degli itinerari, dei percorsi e momenti di vita nella città.

Da tempo oramai la questione delle città è al centro dell’attenzione dei media e della discussione pubblica: le città sono di “moda”. Ma non si tratta di una moda effimera: se ne occupano, da molti anni, diverse discipline scientifiche; e di certo la politica. Però è significativo che una rivista come Le Scienze abbia dedicato, di recente, un numero speciale proprio al futuro delle città; ed è di circa un anno fa la dichiarazione dell’ONU secondo la quale oramai la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città.

Il problema del presente e del futuro è rappresentato dalle città.

Un importante urbanista come Mike Davis da molto tempo sostiene che l’ecologia della città, con i suoi interscambi con l’ambiente esterno, sorta di sistema vivente, complesso almeno quanto quello delle grandi foreste pluviali, possiede un carattere potenzialmente esplosivo; specialmente per quanto riguarda i grandi agglomerati urbani. Carattere che richiede attenzione, capacità di osservazione e previsione. Ma anche capacità di inventare, o ridisegnare, nuovi spazi. Tuttavia, gli esseri che vivono questi spazi urbani cosa fanno? Come si muovono?

Questo convegno intendeva proporre una discussione su come approntare strumenti utili non solo per gli studiosi ma anche per gli amministratori.

Ecco che allora, al pari della questione delle città, oggi il tema delle mappe è di grandissima attualità. Come dicevamo, da qualche anno, tutti fanno mappe: hanno iniziato i geografi e i geologi, poi hanno continuato, grazie al diffondersi di Google e dei dispositivi GIS e GPS, ciclisti, skipper, turisti, appassionati di trekking.

Oggi, questo tipo di lavoro, di elaborazione e costruzione di mappe, ha raggiunto, come sappiamo, un grado di diffusione enorme, che attraversa e sfonda i confini delle tradizionali discipline ed interessi. Si sottolineava come, oramai diversi anni, questa delle mappe è diventata una vera e propria pratica sociale, culturale, con caratteristiche che non sono più soltanto quelle della proposta del turismo o del marketing tradizionale. Essa ha assunto i tratti di una pratica “dal basso”, come si usa dire oggi; ed estremamente diffusa.

Questo convegno si è proposto allora di mettere a confronto e riflettere sulle diverse esperienze e proposte di mappatura del territorio; a partire, certo, da quello di Bologna, ma non solo, e non in modo esclusivo. Si tratta di vedere come sia possibile pensare a strumenti utili per l’amministrazione, per la progettazione e per la vita del territorio stesso. E di estendere queste esperienze. Il progetto Self-mapping nasce proprio come progetto di ricerca volto ad approntare una metodologia di analisi degli spazi urbani. l’intento generale è quello di studiare le modalità di fruizione ed attraversamento dello spazio urbano da parte dei suoi abitanti.

Ma l’intento, in particolare, è quello di concentrarci sul tema del confronto fra mappe: come strumenti, certo, per le politiche urbane, ma anche relativi alle nuove forme di conoscenza (e in cui, si spera, anche gli studi di semiotica dello spazio possano dare un loro contributo); o anche di marketing della città e del territorio. Ma anche come possibile mezzo di “buone pratiche”.

Ambiente e linguaggi 2: nuovi razzismi e nazismi?

  1. Ambiente e linguaggi: allarme globale neo-razzismo?

Qualche tempo fa, su questo blog, uno degli autori, Salvatore Zingale, ha pubblicato un interessante post riguardante il tema (e relativo convegno) delle possibili azioni di comunicazione, attraverso i vari media, che possono essere portate avanti per “salvare il pianeta” e il suo ambiente.

Ho pensato allora di riprendere quel titolo su un “allarme globale”, dato che, parallelamente al tema, fondamentale, dell’ambiente “naturale” di vita e dell’inquinamento, c’è un altro tema “ambientale” strettamente correlato al primo.

C’è anche un altro “ambiente”: anch’esso soggetto a forme di inquinamento e a pericolosi contagi; e in cui si rischia talvolta di trovare un clima terribile e da un’aria irrespirabile. È l’ambiente delle situazioni sociali e dei nuovi rapporti culturali; in cui però si diffondono le fobie antiche, le tensioni delle nostre città, le loro sindromi e pericoli della vita di tutti i giorni: i razzismi, la costruzione dell’”altro” come nemico. L’identitarismo come possibile forma di avvelenamento; e, al contempo, l’attivarsi di un tipico meccanismo detonatore: la paura.

  1. Vittime del razzismo e parole razziste

Di recente si è sviluppato, sul web e, in parte, sulla carta stampata, un forte dibattito sul tema del “nuovo” razzismo, o di un ritorno di razzismo. In particolare, dopo la strage di dicembre 2011, a Firenze, con l’uccisione e il ferimento dei poveri giovani ambulanti senegalesi (Samb Modou, Diop Mor, Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike) ad opera del neonazista Casseri. Per questo motivo, il terribile episodio di assassinio razzista si è presto collegato ad una questione: quella della persistente presenza in rete di siti internazionali di cultura nazista e fascista. Ma è questo “il solito problema” che periodicamente si ripropone? Vediamo.

Ad esempio, ha suscitato scalpore la notizia del sito nazista Usa (Stormfront) ospitante un forum che ha pubblicato, sulla scia delle notizie legate agli omicidi e i ferimenti di Firenze, dichiarazioni a favore e in onore del killer di Firenze, acclamandolo come “eroe bianco” contro i “senegalesi che invadono Firenze”; pubblicando inoltre vere e proprie “liste di proscrizione”, indicando chi colpire fra politici, giornalisti, magistrati, sacerdoti, così come persone che lavorano nel mondo della cooperazione e del volontariato, o di aiuto agli immigrati. Di questo sito è stata chiesta la chiusura (vedi per un approfondimento http://www.lettera22.it/showart.php?id=11988&rubrica=12). Ma si sa che quasi non ha senso chiedere la chiusura di siti web: è davvero così, dato che, per definizione, le fonti della comunicazione in rete sono mobili e plurime? Tuttavia contro-campagne di sensibilizzazione sarebbero forse possibili? O, ancora, è da ricordare il caso del professore di filosofia di Torino che ha lanciato attraverso Facebook, oltre alla sua ammirazione per il killer di Firenze, proclami neonazisti con tanto di minacce di strage alla sinagoga.

Il caso del massacro di Firenze e del sito Stormfront è stato commentato anche dai media internazionali: si veda, ad esempio, l’articolo, ripreso da “Internazionale” (23/29 dicembre 2011), di Annette Langer, di Der Spiegel (http://www.spiegel.de/international/europe/0,1518,803938,00.html ). La giornalista insiste anche su un altro punto: domandandosi se Casseri fosse o meno “un cane sciolto”, anche se si considerava simpatizzante di CasaPound.Annette Langer, a proposito del caso Casseri, parla di “‘Fascist Delirium’ Online”. E sottolinea: “Meanwhile, Casseri has been become a hero of the right-wing extremist scene in the country, praised as a true Italian and a ‘white hero’ worthy of renown and respect on the racist website stormfront.org. Casseri ‘cleaned up,’ a task for which he deserves thanks, a statement on the website read. A support group on Facebook entitled ‘Gianluca died for us’ has already been ‘liked’ by more than 6,000 users. Comments include this one: ‘Florence was only the beginning. We’ll clean up all of Italy.’ A ‘fascist delirium’ has broken out in the country, daily La Stampa wrote on Wednesday.For right-wing extremists, the reasons behind the killings are obvious. The situation has long been unbearable, the multi-ethnic society ticking ‘like a time-bomb about to explode,’ anti-Semitic website NonConforme wrote.”

Tuttavia, qual è, in questo caso, il vero nodo problematico, al di là del terribile caso Casseri, o di casi che possono sembrare episodici e, appunto, periodicamente emergenti, di odio razziale e di propaganda neo-nazista?

La giornalista Langer sottolina come, più in generale, sia in atto una trasformazione, da tempo, nel mondo dell’ultradestra. Il “modello CasaPound” è guardato, dice Langer, con interesse dai gruppi di destra in Europa, e in particolare in Germania. Modello che sembra attirare proprio per i suoi caratteri di originalità: nella capacità anche di costruire una estetica relativamente nuova, rispetto agli stili tradizionali della estrema destra (nei siti e nello stile comunicativo), considerata ora come “vetero-destra”.

Da un lato, il modello CasaPound riprende (oramaida tempo) certi caratteri, sia iconografici, che di azione (occupazioni di case per scopi sociali, ecc.), “da centro sociale” (si veda l’omonimo sito). Dall’altro incrocia, invece, sul piano dei contenuti, riferimenti alla cultura e all’economia del ventennio fascista, degli “anni ’20 e ’30″ senza però mai parlare esplicitamente di fascismo, ma di linee di pensiero avanguardistiche – in vista di un modello “neo-nazionalista” e di alleanza fra nazioni “amiche” – con un linea che, secondo CasaPound, parte da “un’Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana.” Facendo riferimento al modello sociale-economico del fascismo, senza, appunto, quasi mai citarlo direttamente; occhieggiando all’anticapitalismo, all’antiglobalismo. alla necessità di controllare le banche e l’economia finanziarizzata. Fino ai riferimenti al “cancro dell’usura”, tema centrale, come noto, dello stesso Ezra Pound.

Non c’è più svastica o fascio, ma una tartaruga stilizzata. Cut and paste della tradizione della destra, camouflage e ibridazione di temi; video, giovani, e remix di questioni sociali. Più un programma ispirato all’economia autarchica.

Ad ogni modo, se quella della capacità mimetica, di trasformazione e di gestione dei simboli della comunicazione dell’estrema destra, e del suo relativo appeal – in questi giorni Casapound, dopo le polemiche sul nome del poeta ha preso provvisoriamente in prestito il nome di Carmelo Bene – è, si dirà, comunque settoriale e marginale, in grado di parlare e di avere effetto, forse, più “sui suoi membri”, ecco che una questione ben più ampia sembra emergere: quella relativa ai modi di diffusione di certi linguaggi. E, soprattutto, a quali concatenamenti culturali e sociali si legano queste forme linguistico-semiotiche. E, ancora, di quale clima culturale questi linguaggi possono fare da cassa di risonanza o, meglio, da sottofondo.

Dunque, quali sono i fili principali che si intrecciano all’interno di tale questione? E perché alcuni di questi fili sembrano essere interessanti proprio per un occhio critico e di analisi semiotica dei media: più in generale, di analisi dei modi di costruzione dei significati sociali e culturali?

Intanto, da un lato, il dibattito, subito dopo i tragici avvenimenti di Firenze, si è subito incentrato su una questione, piuttosto usuale: quella relativa alle “parole” del razzismo.

In molte discussioni e blog, (fra i quali, ad esempio, “Dis.amb.iguando” di Giovanna Cosenza), si è parlato di questo. Ed è stata ripresa la puntata della trasmissione “l’infedele” con l’intervista ad Umberto Eco sulla figura del killer nazista di Firenze: in particolare sul profilo negazionista e legato alla cultura “simbolico-tradizionale” (di ispirazione para-evoliana); intervista che, fra l’altro, ha suscitato la reazione del leghista Salvini, presente in studio, a proposito degli accostamenti fra cultura della Lega e razzismo. (http://giovannacosenza.wordpress.com/2011/12/21/eco-e-salvini-a-linfedele-su-leghisti-e-razzism/#comment-13822).

Su questo tema c’è stato anche un approfondimentomolto interessante, in particolare di Wu Ming 4, sul sito dei Wu Ming, Giap (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6365): un vero e proprio saggio, con analisi e commenti, riguardante le “misletture” di Tolkien da parte di un certo filone della destra radicale, interessato ai miti della “ricerca della Verità”. Secondo Wu Ming, Tolkien viene “ri-letto” e “rimontato” proprio per mostrare come all’interno della sua narrativa si potrebbero trovare motivi e temi cari ad una cultura e mitologia “tradizionalista” e filo-nazista. Niente di più falso, secondo gli studiosi di Tolkien.

In ogni caso, più in generale, quello che qui comunque è rilevante non è tanto il fatto che molte di queste forme di circolazione sub-culturale (idea di “tradizionalismo”; legame con il pensiero di Evola, la ricerca della Vera Verità nascosta fra le pieghe della storia e della letteratura) è, anche, certo, paccottiglia rivenduta cotta e ricotta. Piuttosto essa, con il suo modo di alludere ai contenuti di razzismo e nazismo, più o meno celato, la si ritrova in rete con una sua certa capacità di diffusione (si veda il blog: http://traditionalistblog.blogspot.com,con anche un riferimento a Casseri e alla sua produzione saggistica e, di recente, letteraria: “For Casseri, the important clash seems to have been that between Tradition and Modernity. And the important narrative may have been that of the warrior, Casseri‘s interest in whom may owe something to Evola. This may help to explain his actions, but it does not explain his targets.”). Il killer Casseri aveva scritto un pamphlet (“I protocolli del Savio di Alessandria”) contro il libro di Eco “Il cimitero di Praga”, proprio sull’interpretazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, dando di essi una sorta di lettura profetica sul presente. Ecco che, in qualche modo, ci si trova di fronte ad una una sorta di articolazione politico-culturale e comunicativa di questi temi e argomenti: una sorta di rete nella rete che, certo, nelle nicchie, si avviluppa su se tessa; ma che lancia segnali all’esterno che talvolta risuonano con le situazioni attuali.

  1. Le “parole” del razzismo?

Dicevamo che uno dei punti di discussione è stato quello, piuttosto tipico, delle “etichette” utilizzate dai media, in questi casi: le vittimeerano “dei senegalesi”: molti giornali lo hanno subito scritto, cosa del resto abbastanza usuale, come il dire “ambulanti senegalesi”, o “degli albanesi” o, molto peggio, quando si dice “dei clandestini”. O ancora “la polacca” violentata. O i “rumeni” che hanno fatto “questo o quest’altro”. E di qui sono partite le critiche.

Certo, si tratta di una questione fondamentale: quella degli stereotipi e del loro uso e abuso nei media. Ma non è tanto, o solo, l’etichetta in sé ad essere razzista, è ancora una volta la connessione fra livelli che produce il significato. Se ovviamente dico, i “poveri senegalesi” non sono razzista, ma al massimo ricado in uno stereotipo di tipo discorsivo, di uso comune; di stile semplificato di discorso, dato che non direi “i poveri bolognesi” o “milanesi” vittime di…o protagonisti di …Dunque è un problema non tanto (ovvio) di contesto e di etichette in sè; quando di uso, ripetiamo discorsivo dei termini: di come le parole si concatenano fra loro. Certo, davvero ci vorrebbe parecchia più attenzione da parte dei media; ma forse non è più questo il punto.

Qualcosa di peggio era infatti accaduto, come noto, un paio di settimane prima, in occasione dello stupro inventato a Torino e del conseguente assalto e incendio al campo Rom. Un articolo de La Stampa (seguìto poi da un “mea culpa” dello stesso quotidiano che ha fatto altrettanto discutere) che subito frettolosamente inventava la storia, anticipandone le conclusioni, dei “rom che stuprano”. In generale, dunque, c’è un problema di come si attivano gli stereotipi attraverso le parole (anche se gli esempi qui riportati sono diversi: nel caso di Firenze si parlava delle vittime, in quello di Torino, di presunti colpevoli).

Più in generale si dice che i media dovrebbero avere la capacità non solo di “essere sensibili” o “attenti” (dai modi di accostare e impaginare, al non creare “risonanze” o “tematizzazioni”, o iper-tematizzazioni, come avrebbe detto lo stesso Eco) ma anche di fare attenzione “alle situazioni” e più in generale “alle diversità culturali”; tutto questo ci pare francamente piuttosto ovvio, oggi; anche se questi criteri di base molto spesso poi non vengono rispettati.

Dunque, il problema non sono le etichette in sé ma i modi che esse hanno di esprimere e di collegarsi con i valori e i sistemi di significato; e i modi (desideri, paure, volontà) di comprendere questi significati immersi nel mondo.

  1. Rischi di escalation semiotico-razziste?

C’è però un altro puntodella discussione attuale che ci pare non emerga con la dovuta forza, e che sembra molto più importante e temibile: una sorta di possibile escalation razzistico-semiotica. Abbiamo un termometro della situazione, o la capacità di prospettare i rischi? Di cosa?

Il problema, in parte è già stato segnalato da alcuni giornalisti (vedi intervento di Langer già citato sopra) ma anche, a quanto pare, dai servizi segreti tedeschi e di altri paesi europei; sul fatto che il mix di grave crisi economica, paura per la situazione finanziaria, nuove migrazioni, anche interne all’Europa (flussi migratori di cittadini spagnoli e greci verso la Germania) e infine accuse reciproche fra paesi e comunità nazionali (“i Greci ne approfittano”, i “Tedeschi sono egoisti” ecc.) diano luogo a concatenamenti, anche discorsivi, che potrebbero fornire nuovi materiali per la costruzione di nuovi paradigmi della paura: di argomenti per un nuovo nazionalismo di ritorno che attraverserebbe tutta l’Europa, connettendosi con le paure le tensioni e gli scioperi di questi giorni.

Il male, lo ricordava qualche tempo anche fa Stefano Bartezzaghi, in un intervento su Repubblica (27 aprile 2011) a proposito di memoria e di olocausto (e si veda, su questo tema, tutto il lavoro di Valentina Pisanty sul discorso negazionista e sulla memoria della Shoah, anche con l’uscita recente del suo ultimo libro “Abusi di memoria”), il male, si diceva, “non è macroscopico, è microscopico”: è una “zona grigia” che può diffondersi e può collegare in modo inaspettato zone anche diverse delle culture.

L’abbiamo visto nel recente passato, non lontano da noi, sempre in un’Europa sconvolta dal debito e dalla crisi economica, quanto l’Etnico possa diventare assassino.