La scomparsa di Massimo Bordin è una perdita seria per il giornalismo italiano. La qualità del suo lavoro di giornalista si esprimeva soprattutto nella rassegna stampa che curava ogni mattina su Radio Radicale. Oltre alla lettura dei quotidiani, le sue attività radiofoniche erano gli ‘speciale giustizia’, nei quali seguiva con grande competenza le complicatissime vicende dei grandi processi italiani e i dialoghi fiume con Marco Pannella. Nell’uno e nell’altro caso, aveva la capacità di ascoltare e comprendere con attenzione, cosa non facile sia nelle procedure giudiziarie sia nell’oratoria circonvoluta di Pannella, e di aiutare a capire.
Vorrei qui dire qualcosa, però, su “Stampa e Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale” come lui stesso ogni giorno la introduceva.
Il giornalismo di Bordin, nel leggere i giornali, era per lo più spiegazione, pochissimo commento. Bordin aveva scelto, tra le tante specializzazioni nel mondo dell’informazione, quella di parlare di altre parole. Era un giornalista che si occupava di quello che scrivevano gli altri giornalisti, era un metagiornalista. Un compito solo in apparenza modesto, di fatto estremamente ambizioso, che pochi sanno eseguire con eleganza e utilità.
E’ relativamente facile per un giornalista prendere in mano il foglio sul quale è stampato il pezzo di un collega e farlo a pezzi o esaltarlo come un capolavoro. L’autore lo ha buttato giù, magari in fretta, sottoposto a tutte i condizionamenti che chi scrive di politica non può evitare: l’editore, che dirige il giornale secondo gli interessi che rappresenta, la linea della direzione, che incarna quella dell’editore, la propria posizione politica o ideologica, quasi sempre allineata alle prime due. Nel panorama odierno del giornalismo politico italiano hanno una gran parte la faziosità senza pudore, la retorica ridicola fatta solo per attirare l’attenzione di lettori che vogliono sentirsi cantare la canzone che gli piace. Un professionista preparato potrebbe, come fanno molti, limitare la sua rassegna stampa alle testate ‘serie’. Ma sarebbe un grave errore. Primo perché il panorama dell’informazione è un fatto reale, e un giornalista si occupa di fatti. Secondo perché le ‘grandi testate’ non sono più oneste, sono solo più raffinate nell’offrire la loro versione dei fatti. Terzo perché non c’è nulla che renda evidente la verità quanto l’ascolto delle innumerevoli mistificazioni, deviazioni, interpretazioni oneste e faziose, tentativi sinceri e mascheramenti che essa subisce ogni giorno.
Bordin dunque, per principio, leggeva tutto, dalla coppia Corriere della Sera-Repubblica, ai più sconosciuti quotidiani di partito e di lobby, che a volte pareva venissero stampati solo per lui, e di ogni testata non nascondeva né la proprietà né la linea editoriale. Ed era proprio questo ecumenismo, il poter conoscere le opinioni del Manifesto come quelle dell’Avvenire d’Italia, La Verità così come Il Fatto Quotidiano, che costruiva la visione dei fatti. Bordin leggeva con la stessa precisione e rispetto i sofisticati corsivi di Ferrara e le bordate turpiloquenti di Feltri, e di tutti riusciva a cogliere i passaggi più efficaci e gli appoggi più vacillanti. Con pochissimi commenti, sempre usando l’ironia, riusciva a volte a far ridere l’ascoltatore, a colazione, in auto, in bagno o ovunque uno si trova dalle 7:35 alle 9 di mattina. Se si potesse misurare il tasso di ironia di una popolazione si avrebbe un indice quasi sicuro di intelligenza. L’ironia è una figura retorica delicata, che si basa sul dire di meno o dire l’opposto di ciò che si vuole intendere, e presuppone nell’interlocutore la capacità di non prendere alla lettera. Nella sottigliezza dell’ironia sta il suo carattere selettivo e intellettualmente aristocratico: separa chi capisce da chi non capisce. Per questo è poco usata nel nostro paese, e pochissimo o per niente dai politici, almeno quelli attuali. Tra quelli di un tempo primeggiava Andreotti.
E la chiave del metagiornalismo di Massimo Bordin era proprio qui. Accostando, per paratassi, articolo ad articolo, dichiarazione a dichiarazione, costruiva un mosaico dal quale, improvvisamente, come per una reazione chimica, si formava l’opinione, la doxa, l’onesta narrazione della verità. Senza forzature, senza giudizi, Bordin costringeva al dialogo gli innumerevoli monologhi dei politici italiani, e messi uno dopo l’altro, l’uno accanto all’altro, le stature diverse, le faziosità, le contraddizioni, le manie, le ipocrisie, le miserie, le piccolezze, la fedeltà e i tradimenti, emergevano pian piano, quali più evidenti, quali meno, offerti al giudizio, mai forzato, mai manipolato, dell’ascoltatore. Bordin era straordinario nel capire dove si deve fermare il lavoro del giornalista nel formare l’opinione dell’interlocutore.
La nostra generazione è colpevole di aver deriso il giornalismo ‘dei fatti separati dalle opinioni’, criticando il concetto stesso di fatto, dichiarando che sempre e comunque il cronista, la cronaca, travisano, non rendendoci conto che dietro la nostra pretesa purezza epistemologica marciava nascosta la conseguenza “… e dunque l’informazione è sempre propaganda…” che si tirava dietro per mano la conclusione “… e tanto vale dunque fare propaganda al nostro interesse”. Le rassegne stampa delle radio alternative, alle quali chi scrive ha contribuito sporadicamente, miravano a svelare la faziosità e gli interessi del potere, del capitale, della classe dominante, e a difendere a spada tratta senza alcuna ricerca dei fatti la faziosità (chissà perché legittima) di ogni soggetto ‘rivoluzionario’. Tra tutte, ricordiamo la campagna di Lotta Continua contro Luigi Calabresi. La deriva dell’informazione italiana si è messa in moto anche (anche, non solo!) per questa corrosione della concezione del giornalismo.
Ci sfuggiva che il giornalismo non ha mai avuto questa illusione, perché il fatto, prima che oggettivo o soggettivo, è sempre labile, incompleto, mutevole, e di questo il giornalista è ben consapevole. La propaganda, le fake news, sono semplicemente cattivo giornalismo e disonestà.
E dunque, niente è più rivoluzionario, nel giornalismo, di sapersi fermare una volta esposto al lettore il risultato della propria ricerca, saper individuare quel limite vago, spesso incerto e variabile (il giornalista non smette mai di scrivere, perché ciò che scrive oggi seppellisce ciò che ha scritto ieri), che separa chi dà la notizia da chi la riceve.
Il cuore dell’informazione è proprio nella relazione tra chi produce e chi riceve la notizie, nel porgere, nel condividere. Chi dà e chi riceve sono separati solo dal un piccolo, a volte minimo, gap di conoscenza. E quanto più questo gap viene ridotto, tanto migliore è il giornalismo. Il giornalista lavora per portare il lettore il più vicino possibile a quello che egli ha visto, udito, capito. E quando questo dato è complesso, involuto, criptico come la politica, il mediatore deve sbrogliare e spiegare, ma senza selezionare troppo, senza tacitare, perché ciò che riporta (il termine ‘reporter’ va letto come se fosse latino…) sono a loro volta opinioni, quasi sempre di parte, e ciò che l’ascoltatore chiede non è un’opinione, ma gli ingredienti per costruirla.
Dell’immenso lavoro di Bordin (parliamo di decenni di rassegne di un’ora e mezza al giorno), mi rendo conto oggi, resta in chi lo ha seguito un bagaglio culturale di grande valore.
Se c’è qualcosa che ogni persona di buon senso patisce della politica italiana, dico chi non ha posizioni preconcette, chi veramente e onestamente vorrebbe capire per chi votare, per il bene di tutti e per il bene proprio e dei suoi, è la confusione, la nebbia di vere e proprie falsità, di distorsioni, di fakes, di propaganda, di complicazioni così imbrogliate che sembra impossibile trovare una soluzione, in un sistema nel quale tutti sembrano furbi e nessuno intelligente, in una competizione falsata che non consente di identificare veri leader, in un sistema giudiziario nel quale la politica non si distingue più dalla giustizia. Di fronte a questo magma ribollente, il lavoro metagiornalistico di Massimo Bordin era paziente, metodico, condotto con lucidità passo dopo passo. Si tratta di sistemi labirintici (nel senso di teoria logico-matematica dei labirinti), ipercomplessi, nei quali si può procedere solo con visioni locali. Bordin non imponeva la sua cupola ideologica all’ascoltatore, ma confidava nel metodo. Guardava, leggeva, interpretava con estrema prudenza, stava al solo il livello denotativo, non un passo più avanti. E ogni volta, in un processo che non aveva fine ma solo pause, ti rendevi conto che il tuo cervello si era formato un’opinione, ma questa opinione era il metodo. Di fronte alla complessità del mondo attuale, l’errore più grave è cercare di semplificarla. La complessità non è semplice. L’opinione non è la verità. Ma sbrogliando un nodo, seguendo un sentiero, giustapponendo testo con testo, osservando, annotando, ricordando (la memoria di Bordin era leggendaria), collegando, producendo conclusioni sempre provvisorie, si distingue ciò che è più chiaro da ciò che è più scuro, il politico e il giornalista che sono meglio di altri, l’intelligenza più acuta e la stupidità che fa ridere per non piangere, e non si arriva a certezze, ma si entra a far parte di chi senza spacciare certezze non rinuncia ai principi.
Questa è a mio modesto parere l’eredità di Massimo Bordin: ha insegnato come essere lucidi, solidi, membri di una comunità basata sul valore umano, a riconoscersi e distinguersi in un oceano di mediocrità e nobiltà, menzogne e coraggio, bassezze e genialità, vero e falso. Come tutti i maestri, Massimo Bordin lascia i suoi allievi. Chi lo ascoltava, senza saperlo, è diventato un po’ più forte e un po’ più intelligente. Credo che sia questo il motivo per il quale ci mancherà. Ma non potremo dimenticare la sua lezione.