Autore: Stefano Traini

Verità A Richiesta (VAR)

Com’è noto, nel campionato di calcio di serie A 2017/2018 è entrato in funzione il VAR, acronimo di Video Assistant Referee, che funziona più o meno così: due assistenti di gara collaborano a distanza con l’arbitro, esaminando i filmati in alcune situazioni incerte che vengono definite match-changing situations (situazioni che possono cambiare una partita): gol dubbi, falli da rigore, falli da espulsione, errori di identità nei casi di ammonizione o espulsione. Solo l’arbitro può chiedere di visionare un episodio dubbio, in un apposito monitor che è collocato a bordo-campo, o su sua iniziativa o su segnalazione degli assistenti di gara: in quel caso sospende la partita indicando con le mani la forma di uno schermo, come l’aruspice che con il bastone ritaglia un lembo di cielo. Sarà lui ad avere l’ultima decisione. Ma in realtà richiamando il VAR l’arbitro esaudisce un desiderio maturato in anni e anni di trasmissioni televisive, processi, moviole e movioloni, discussioni estenuanti del lunedì sera coordinate dal fu Aldo Biscardi, che con aspra cadenza molisana invocava la moviola in campo già negli anni Ottanta. Ora è arrivata, e per uno strano gioco del destino proprio poco prima che Biscardi morisse. Ma cosa ci possiamo aspettare davvero da questo nuovo sistema?

Gli arbitri senza VAR sbagliavano perché il gioco del calcio è complesso, il campo molto ampio, il ritmo veloce, i contatti spesso dubbi e le simulazioni ben mascherate. Ma le trasmissioni sportive anziché praticare una benevola indulgenza, spesso per ragioni di share adombravano dubbi sulla limpidezza del sistema e persino sulla buona fede dei direttori di gara, scatenando così le reazioni anche aggressive dell’opinione pubblica. Un vecchio e geniale Presidente dell’Ascoli, Costantino Rozzi, parlava sempre della sudditanza psicologica che avrebbero gli arbitri nei confronti dei grandi club. Del resto Michel Foucault ci ha insegnato che la verità (anche quella calcistica) è sempre legata al (e determinata dal) potere. Di qui la richiesta pressante del controllo tecnologico in campo, per ristabilire – appunto – la verità. Va ricordato però che le riprese video sono una rappresentazione di ciò che succede nella realtà del campo, sono una racconto di quanto è accaduto: il cronista della carta stampata descrive con le parole, il vignettista rappresenta con i suoi disegni, la televisione ripropone la realtà con le sue telecamere, con le sue postazioni e le sue tecniche, con le velocità alterate (slow-motion e fast-motion) e le prospettive modificate. Non esiste una rappresentazione neutra della realtà, e già negli anni Settanta Umberto Eco spiegava al pubblico ancora poco scaltro come anche le riprese in diretta, lungi dal riportare la realtà oggettivamente, costruiscono “effetti di realtà” attraverso l’uso dei propri mezzi, le angolazioni, le luci, i rumori. La diretta è un insieme di scelte effettuate per costruire “effetti di veridizione” (si pensi alla classica telecamera traballante del videomaker embedded sugli scenari di guerra, con il noto effetto tremblé, o bugée: il segno mosso come diceva Ėjzenštejn). Oggi dopo decenni di studi massmediologici è ampiamente diffusa l’idea che la televisione traduce la realtà con i propri mezzi e le proprie tecniche: e ogni traduzione, si sa, è un po’ infedele. Del resto nessuno si sognerebbe mai di dire che il telegiornale descrive in modo neutro e oggettivo la realtà. Curiosamente, invece, si pensa di poter trovare la “verità calcistica” proprio nella rappresentazione televisiva. Il pubblico si acquieta perché “lo dicono le immagini”, ma Roland Barthes ha dimostrato che le immagini, con la loro forza iconica, seducono e illudono, fanno sembrare neutro e naturale ciò che è costruito con la tecnica e la strategia. Peraltro proprio i vecchi processi serali mostravano come non ci fosse quasi mai accordo tra i commentatori nell’esame di certi episodi incriminati. Ora con il VAR gli assistenti e l’arbitro stesso devono in ogni caso interpretare le riprese televisive: il che induce a sospettare che la vecchia sudditanza psicologica (l’influenza del potere sulla verità, direbbe Foucault) possa ripresentarsi sotto mentite spoglie, davanti a un monitor che sembra svolgere la funzione dell’Oracolo di Delfi.

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Credo che questa “illusione di verità” sia in parte alimentata dal progresso tecnologico. Già la tecnologia ha favorito una maggiore spettacolarizzazione del calcio e abbiamo visto tutti come le numerose telecamere che si muovono per il campo, le regie mobili e immobili, le strumentazioni avanzatissime che consentono di spaccare in quattro i fotogrammi abbiano modificato comportamenti e riti calcistici: i giocatori oggi esultano con fantasiose coreografie teatrali e se sbagliano un tiro si mettono le mani nei capelli, guardano il cielo e sgranano gli occhi come personaggi caravaggeschi, mentre Riva e Rivera avevano modi controllati e direi discreti sia di esultanza che di sofferenza. Oggi gli allenatori parlano con le mani davanti alla bocca per coprire il labiale, proprio come i ministri in Parlamento: accorgimenti che Trapattoni e Mazzone, com’è noto, non hanno mai preso. Ora stiamo osservando le novità che il VAR impone alla liturgia del calcio: i nuovi gesti dell’arbitro che richiede supplementi di verità (Verità A Richiesta), la sosta piena di suspense dell’arbitro davanti al monitor, le nuove pause per mangiare le noccioline o fare due chiacchiere, come già avviene in altri sport tecnologizzati. Ma soprattutto la tecnologia ha rafforzato la sensazione di poter controllare e riprodurre fedelmente ciò che avviene in campo, di poter ricostruire una verità oggettiva. Ma un fallo di mano in area che appare evidentemente involontario, nello slow-motion della moviola apparirà probabilmente volontario: dov’è la verità, nel campo o nel video?

Beninteso, io non sono contro l’uso del VAR e della tecnologia nello sport (nel tennis abbiamo visto all’opera l’«occhio di falco»). Non conviene mai fare battaglie in nome della conservazione e del passatismo, e il VAR può senz’altro aiutare nel prendere certe decisioni. Voglio solo sostenere che se in campo un episodio risulta dubbio, non sarà il VAR a fornire una verità incontrovertibile. Il VAR può dare forse l’illusione di una certezza, ma deve essere chiaro che è solo una versione in più con cui fare i conti. Kurosawa nel suo celebre Rashomon ha descritto in modo magistrale come un fatto (in quel caso un omicidio) possa essere ricostruito in tanti modi diversi, con la verità che si disgrega davanti agli occhi del giudice e dello spettatore. In Blow up di Antonioni un fotografo si accorge nella camera oscura di aver fotografato un omicidio: ma nel momento in cui va a fare un ingrandimento per vedere meglio, l’immagine comincia a mostrare un altro scenario e la realtà si dissolve. L’omicidio è avvenuto realmente? E il fallo in area di rigore?

I filosofi del «nuovo realismo» (Maurizio Ferraris in testa) potrebbero dire che la mia è una posizione relativistica e nichilistica (Nietzsche diceva che non esistono fatti ma solo interpretazioni!). Non è così, io credo che la realtà esista (in questo caso sono i fatti che avvengono in campo): piuttosto non ho mai creduto alla Verità Unica e – per così dire – “innocente”, cioè avulsa da un sistema di forze e controforze. I tifosi potrebbero pensare invece che io sia anti-VAR perché tifoso della Juventus, una squadra che sembra sia stata fortemente avvantaggiata da scelte arbitrali pre-VAR (ma sarà vero?). Non è così. Ho un forte attaccamento, e da molti anni, per i colori bianconeri: ma sono quelli dell’Ascoli.

 

Ciao Ale

Non ricordo bene quando ho cominciato a discutere con Alessandro. Forse in occasione del convegno su (e con) Willard V. O. Quine a San Marino, nel 1990, ma forse già prima nei corridoi di Via Toffano, sede in quegli anni dell’Istituto di Discipline della Comunicazione. Certamente, poi, non abbiamo più smesso, e l’ultima volta che sono andato a trovarlo, in ospedale, calcolando insieme quale fosse il modo migliore per arrivare al bagno (e nelle sue condizioni non era facile), gli ho detto che era tutto un problema di struttura e che avrebbe dovuto studiare meglio Hjelmslev, e lui mi ha risposto con un filo di voce che era – come sempre – un problema di interpretazione.

Alessandro ha pubblicato due libri molto originali. Il primo, dal titolo (indovinatissimo) Fortunatamente capita di fraintendersi (2004, Unipress), è la sua tesi di dottorato. Una tesi innovativa, in cui faceva interagire la teoria della lingua di Donald Davidson e la teoria della pertinenza di Dan Sperber e Deirdre Wilson (con la quale aveva studiato a Londra per un paio d’anni). Nella tesi, e nelle infinite discussioni di tutti i giorni, Alessandro sosteneva che la comunicazione non poggia su regole sintattiche e semantiche definite, cioè su codici, ma su un’attività inferenziale che investe gli ambienti cognitivi del parlante e del ricevente: la comunicazione non si basa sui codici, ripeteva sempre, ma costruisce e poi stabilizza i codici. Da lì il set dei suoi esempi: fraintendimenti, lapsus, malaproprismi, anacoluti, e via dicendo. Il secondo, dal titolo Semiotica (McGraw-Hill, 2009), scritto con Valentina Pisanty, ha la forma e la struttura del manuale, ma in realtà è un libro con una tesi ben precisa che emerge in tutti i capitoli: dal segno si passa alla semiosi, dal dizionario all’enciclopedia, dalla struttura all’interpretazione e alle attività cognitive. I due autori danno seguito in modo molto articolato alla semiotica di Umberto Eco.

Ma Alessandro era soprattutto un conversatore, un amante del dialogo e della dialettica, un vero filosofo dunque. Nel funerale laico che si è svolto alla Certosa di Bologna molti hanno ricordato le discussioni avute con lui, apprezzando il metodo ma riconoscendo i disaccordi nel merito. Infatti lui procedeva proprio così: prendeva le misure dell’interlocutore, metteva a fuoco la sua linea argomentativa, e da lì si spostava un pochino creando uno spazio di contrapposizione che si rivelava sempre proficuo. Conversando costruiva ponti, forzava i confini anche in modo paradossale, apriva sempre degli orizzonti. Con lui ho parlato di semiotica e di filosofia, di politica e di guerra, di femminismo e di genere, e capitava di perdere la cognizione del tempo. Una volta, conversando in un laboratorio informatico di via Irnerio, non ci siamo accorti che avevano chiuso l’edificio. È suonato l’allarme e sono arrivati i carabinieri. Il giorno seguente siamo stati convocati dalla temibile segretaria dell’Istituto, Simona Barbatano, e ricordo bene che ho mandato avanti lui perché sapevo che così Simona sarebbe stata più buona.

Non era un amante dei convegni, Alessandro, ma il congresso annuale dell’Associazione Italiana Studi Semiotici era per noi un appuntamento fisso perché sapevamo che la sera, in albergo, ci saremmo ritrovati a parlare in camera di Valentina fino a tardi. Durante il giorno commentava tutte le relazioni, ci passavamo bigliettini con critiche e osservazioni (i pizzini), progettavamo nuovi seminari e nuove teorie. Peraltro, nei convegni era spesso attorniato da giovani studiose interessate alle sue teorie e ad altro. Era intuitivo e inconcludente, geniale e pigro, illuminante e caotico, disordinato e maniacale; sempre originale e spiazzante e fuori dagli schemi. Aveva uno stile inconfondibile: l’appartamento studentesco, l’abbigliamento alternativo, l’immancabile orecchino, la sua bicicletta. Anni fa, con le nostre fidanzate di allora abbiamo fatto un corso di tango. Credo che Flora, la bravissima insegnante della scuola, non abbia mai incontrato due più negati di noi. E quando, alla fine della seconda lezione, siamo andati a dirle che non saremmo più andati, non ha fatto nulla per trattenerci. Con lui ho trascorso l’intero pomeriggio dell’11 settembre 2001, al telefono. l’ho avvertito degli attentati, ma aveva l’audio del televisore rotto, così abbiamo guardato insieme le immagini degli aerei che colpivano e abbattevano le Twin Towers e io gli riportavo i commenti dei telecronisti.

Alessandro era politicamente impegnato e non faceva distinzioni tra sfera personale e sfera politica. Tutti gli amici, ora, lo ricordano presente a manifestazioni importanti. Negli ultimi anni ci raccontava con passione il lavoro del laboratorio che aveva contribuito a fondare con Beatrice: Smaschieramenti. Volevano (vogliono) combattere gli incasellamenti di genere, maschio, femmina, uomo, donna, e sostenere la molteplicità dei generi e decostruire e smascherare gli stereotipi maschilisti, e Alessandro quando mi raccontava tutto questo era così convincente, così persuasivo, ma quando ho visto che hanno scritto sul loro blog “Se n’è andata Alessandro Zijno l’Ambigua” ho strabuzzato gli occhi e avrei voluto subito chiamarlo e ridere con lui (lei?) anche di questo. Perché Alessandro era determinato, difendeva le proprie posizioni con accanimento, ma era sempre autoironico.

Con Ale ci prendevamo in giro perché io avevo scritto un manuale, ma poi ne aveva scritto uno anche lui con Valentina, e ognuno cercava di sostenere la superiorità del proprio e di denigrare quello dell’altro. Il nostro codice era questo, non ci facevamo i complimenti reciproci. Ma ad aprile di quest‘anno sono andato a Chicago per un periodo di studio e nella splendida biblioteca Regenstein della Chicago University, controllando il reparto di semiotica, con mio grande stupore ho trovato il libro Semiotica di Pisanty-Zijno. Tornato subito alla mia postazione, ho scritto ai miei due amici una mail in cui dicevo loro che erano presenti in questa megabiblioteca di respiro internazionale, ma che avevo preparato un bigliettino da mettere nel loro libro, e c‘era scritto: “meglio il Traini”. Poco dopo mi è arrivata la risposta di Valentina, nella quale mi diceva che Ale era stato ricoverato per un problema ai polmoni. Da lì è iniziata un’altra storia. Ma è certo che in qualche altra biblioteca del mondo mi capiterà ancora di trovare il suo libro, e allora ci metterò dentro un bigliettino, e ci sarà scritto “ciao Ale”.