Autore: Ruggero Ragonese

Realtà del reality. Brevi cenni fra letteratura e intrattenimento

Capita sempre nella vita di ritrovarsi a scegliere fra quantità e qualità (più amici senza guardare troppo per il sottile, meno amici ma di classe, meno soldi, ma più felicità etc.). La televisione italiana da anni ha scelto la strada della quantità. I più abbondano: più programmi, più conduttori, più pubblicità, più telegiornali.
La questione è annosa: cosa c‘è di reale nei reality e, molto di più, che cos‘è un reality? Non è certo affare di poche righe, come quelle che abbiamo qui sotto, disquisire su come inserisca la parola reality nell’idea stessa di realtà o falsità televisiva. Prendiamola alla larga, molto alla larga. Capita ancora oggi di dire, specie se si amano i termini desueti, ad un amico messo in crisi dalle sue stesse ardite supposizioni in merito alla fedeltà della sua fidanzata: “ma cosa vai a pensare, non siamo mica in un romanzo”. Il senso di questa frase è di facile comprensione, ma ha forse un portato culturale maggiore di quello che possiamo immaginare. Ci dice: la realtà non è quella incantata dei romanzi dove per romanzo si intende, per antonomasia, quello popolare ottocentesco e per realtà romanzesca ci si riferisce a un contenuto stereotipato di eroi, eroine, palazzi, maghi e avventure. Non è questione da poco: Franco Moretti, in un bel saggio dal titolo “Il secolo serio” inserito nel volume La cultura del romanzo da lui curato, riprende due termini Roland Barthes apparentemente astrusi: ’funzioni cardinali‘ e ’catalisi‘. Niente di più chiaro invece: le funzioni cardinali sono i nodi che determinano gli eventi di un romanzo, le catalisi sono tutti gli episodi definibili come ’riempitivi‘. Nota Moretti che il romanzo delle origini abbonda di nodi, tutta una successione di eventi epocali per lo spiegarsi della storia (X naufraga, si ritrova senza cibo, incontra una tribù di selvaggi; oppure X rivela il suo amore per Y, ma scopre che Y è sua sorella, Z imprigiona Y etc.). Poi il romanzo ’borghesE’ inizia a dare sempre più spazio alle catalisi, ai riempitivi che scandiscono una realtà non determinante ai fini della storia (descrizione di un pranzo di X e Y, pensieri e riflessioni di X dopo una cena dalle zie). Insomma, si indugia. Inutile dire che indugio non vuol dire noia, ma al contrario l’inizio del grande romanzo moderno: siamo più interessati al mondo che circonda Emma Bovary che ai suoi effettivi tradimenti (solo due in fondo, sciocchezze) e molto più ansiosi di scoprire il percorso interiore di Raskolnikov che di saper se verrà scoperto nel suo delitto. La narrazione quindi si compone sempre più di indugi, episodi apparentemente secondari, piccoli eventi (che giustamente ricordano a Moretti le composizioni dei quadri di Vermeer). Questo non succede nella letteratura di massa, o di largo consumo, dove invece abbondano i tradimenti, le passioni, gli svelamenti, financo gli omicidi. Qui, state pur certi che se ci si focalizza su un anello questo sarà la prova di un infedeltà e se passa un brutto ceffo per strada è probabile che abbia un coltello o una pistola sotto il cappotto. Ecco allora, la consolazione: “non siamo mica in un romanzo”. Memore di questa tradizione era anche la produzione fiction televisiva. Le telenovelas, i serial ma anche i rotocalchi rosa abbondavano di ’funzioni cardinali‘: quello ha tradito quell’altra, lei è incinta o forse no, quell’altro è il vero padre di quest‘altro; poco importava che si trattasse di narrazioni svoltesi nella finzione (telenovelas) o nella realtà (programmi di gossip).E poco importava, ovviamente, dei travagli interiori, degli indugi privati dei personaggi. Tutto questo costruiva una realtà ’magica‘ cara agli studiosi della ’uses and gratification theory‘ in cui la casalinga di Voghera e il bracciante lucano potessero identificarsi, uscendo dalla loro routine quotidiana. Il reality non cambia le carte in tavola, le inverte. È l’indugio,l’elemento intimo e privato, a invadere per intero la scena narrativa. Niente di quello che succede in un reality può davvero configurarsi come un nodo, come una funzione cardinale e la cosa salta agli occhi. Cosa può succedere ad uno qualunque dei personaggi all’interno di un reality che possa risultare un nodo, un momento cardinale nella sua vita: non si hanno svelamenti (non si hanno notizie nei Grandi Fratello e simili di agnizioni: nessuna madre perduta, nessun ricongiungimento familiare), non si hanno gravidanze, omicidi, rapimenti. Non succede in ore e ore di riprese nulla di quello che può succedere in una pagina del Conte di Montecristo o in una puntata di Beautiful. Resta però qualcosa di quest‘ultimi: la particolarità dello sfondo (isole deserte, case hi-tech) e la dimensione irreale dei personaggi (uomini e donne famose o quasi, ragazzi/e ex comuni, ora nobilitati dal programma, donne particolarmente belle e stupide o uomini eccezionalmente brutti e intelligenti).

È la narrazione che si è via via resa evanescente, perdendo anche le basi stesse del racconto. Cosa è rimasto, nell’Isola dei famosi, dell’idea del naufragio, se non che i naufraghi si trovano su un bellissimo atollo caraibico? La differenza fra una fiction e un reality, o meglio, una delle differenze, è che il reality è protonarrativo rispetto alla fiction: non vi è nessuna storia complessa, ma la combinazione di situazioni. Eco scrive nelle sue Postille al nome della Rosa che il romanzo nasceva dal suo desiderio inconscio di vedere dei preti o dei monaci uccisi in un convento. Ecco la forma protonarrativa di un possibile reality: dei monaci in un convento, magari monaci famosi, ma niente morti per carità. Stevenson pensava, un secolo prima, per far dormire il figlio irrequieto, a un’isola dove in molti cercavano un tesoro nascosto. Ecco l’idea principe di molti reality su cui gli eredi dello scrittore scozzese potrebbero chiedere delle royalties. Stevenson ed Eco hanno avuto la perseveranza di continuare questa forma primigenia e costruirne una fiction, un romanzo. Alla base c‘era un momento embrionale che accomuna tutti, scrittori, spettatori, lettori, ma che è cosa ben diversa dal costruire una storia: è in questo senso che siamo tutti ideatori di reality e in pochi scrittori di romanzi. Chi non ha pensato, almeno una volta, nella sua vita, guardando certe vallette inebetite e succinte o certi calciatori che facevano e pensavano tutto quello che faceva e pensava il mister e nonostante questo, o proprio grazie a questo, guadagnavano notevoli quantità di denaro, chi non ha pensato che queste persone sarebbero state bene, per un periodo, per carità non troppo lungo, in un’isola deserta senza cibo e senza tetto? Quanti fra noi, guardando il compagno tutti 10 con occhiali e brufoli e la bionda, bellissima ragazza un po‘ oca, ma molto cool della classe accanto, non si è detto: ’ti immagini metterli assieme nella stessa camera per un mesE’. Ognuno di noi aveva già inventato il reality che inevitabilmente non è meno o più reale del resto della televisione, semplicemente non si basa su una scaletta, su un copione, su una sceneggiatura; esso salta la dimensione discorsiva, l’affinamento degli spazi, dei caratteri e si attacca direttamente alla forma protonarrativa che appartiene già al pensiero di tutti coloro che sono troppo impegnati in altro per fare televisione anziché guardarla.
La dimensione discorsiva si blocca in questa narratività aurorale e i personaggi e il loro sfondo si immergono in un tempo dilatato (catalisi, indugio) dove è persa la possibilità di approfondimento psicologico, dove i singoli gesti e i singoli atti non ricostruiscono le esistenze dei personaggi, come invece avveniva nel grande romanzo borghese di cui parla Moretti. Resta però lo strano effetto di una low fi-reality (per citare un bel saggio di Demaria, Grosso, Spaziante) dove, come in un romanzo che metta insieme le fortezze e gli intrighi di Dumas, le pie fanciulle e i principi cattivi di Walpole con i tempi e le descrizioni di Kafka e di Dostoevskij, si inseriscono fra personaggi famosi e isole di sogno le telecamere fisse di Warhol o di Godard. Non la ipereality delle telenovelas, atte a soddisfare i bisogni delle casalinghe insoddisfatte, ma una travolgente iporeality. Cosicché, oggi, all’amico che, questa volta, appare troppo sicuro, nonostante certi indizi, della fedeltà della sua fidanzata, possiamo dire: “Ehi, stai attento, bello, non siamo mica in un reality show.”

Appunti di viaggio (semiotici) II: la Medina, la Moschea e la mappa

La Medina, quindi. Termine che molto semplicemente indica ‘la città’ e che caratterizza, in particolare, le città di fondazione araba nel Nord Africa coma Kairouan, Tunisi, Algeri, Fez, Il Cario. Una forma urbana similare a quella della Medina è, però, riscontrabile in altre aree al fuori del Mediterraneo. Negli ultimi giorni è venuta tristemente alla ribalta la città di Sana’a come nuovo centro del terrorismo e come possibile bersaglio di una rappresaglia americana. Questa città, scelta da Pasolini per Il fiore delle Mille e una Notte e dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, ha al suo centro (anche se sul concetto europeo di centro ci sarebbe da discutere) una struttura simile a quella della Medina.
Molte città mediterranee dell’Europa cristiana presentano un’area antica con un tessuto simile a quello delle Medine nordafricane (Palermo, Bari, Genova per limitarci alla sola Italia). Come sempre, insomma, è difficile stabilire i confini di una categoria urbanistica e ancora più difficile racchiuderli dentro un termine. Diciamo che, per brevità, ci occuperemo, facendo seguito all’articolo precedente, della Medina nella forma che si può recuperare oggi in alcune città nordafricane e in particolare tunisine.
Nell’articolo precedente abbiamo parlato del commerciante-predicatore e della Medina come della realizzazione di uno spazio urbano che più di ogni altro ne manifestasse il suo punto di vista. Al di là delle suggestioni lotmaniane, la città-medina si presenta, osservandone la mappa, come un insieme intricato di strade, cinte da mura (ancora visibili in molte città come Sousse o Kairouan), privo fondamentalmente di aree aperte come piazze o slarghi. Spesso inoltre, buona parte di questi vicoli, che difficilmente seguono un percorso rettilineo, si presentano coperti e pieni di negozi e bancarelle: sono i suq, cioè quelle vie, coperte e non, che fin dalla loro fondazione medievali erano destinate eminentemente alla vendita e al commercio di determinati tipi di beni. Avremo così il suq della lana, delle spezie, delle sete, dei tappeti. Spesso il suq era circoscritto a specifiche strade e rigidamente controllato, tanto da avere un sistema di porte che ne determinavano l’accesso.
Un turista, un viaggiatore, uno studioso vede, osservando una pianta di Sousse o di Tunisi o di Monastir, dunque, una rete di vicoli tortuosi, nessuna strada rettilinea, alcuni tracciati coperti. Infine, un luogo fortificato a ridosso della mura, la Kasba (Qasba), cioè una residenza fortificata cinta a sua volta da mura. Altre volte la Kasba, spesso erroneamente identificata con tutta la Medina, assume la forma di un castelletto con abitazioni residenziali e, nella penisola araba soprattutto, prende il nome di Ksar.
Quindi, l’osservatore occidentale di fronte alla mappa della Medina noterà, come principale differenza rispetto a coeve esperienze urbane medievali dell’Europa cristiana, la mancanza di una piazza. Prosaicamente e grossolanamente, possiamo senz’altro riconoscere come affine alla nostra esperienza urbanistica la successione non ordinata di vie non rettilenee che caratterizza le città europee almeno fino a tutto il Quattrocento (rimando al saggio di Franco Farinelli sulla via d’Este a Ferrara come primo esempio di via ‘moderna’). Possiamo altresì riconoscere nella presenza di castelletti fortificati a uso difensivo e residenziale una somiglianza con l’esperienza dei comuni tardomedievali italiani. Anche lì si rileva l’esperienza di piccole fortificazioni private interne all’abitato (basti pensare alle torri gentilizie bolognesi) che poi cedono il posto ad un unico e più imponente fortilizio edificato dalla famiglia più facoltosa e potente (il Castello sforzesco a Milano, quello estense a Ferrara etc.).
Resta, quindi, più di altre, questo a caratterizzare la Medina: l’assenza della piazza. A ben guardare, questa differenza ne fa seguire un’altra: la mancanza di un centro ben definito. L’individuazione di un centro è un dato fondamentale nella lettura della mappa moderna. La cartografia e l’urbanistica moderna hanno prodotto in Europa e in Occidente città che potessero ricondursi facilmente a un centro zenitale che permettesse all’occhio del lettore di avere un punto di partenza.
Le splendide mappe di Braun e Hogenberg (Civitates Orbis Terrarum, 1572-1589) sono il primo esempio di questo tentativo iconografico. La veduta a volo di uccello tende a scomparire a favore di una visione ortogonale che privilegia una osservazione che dal ‘centro’ si muova concentricamente verso la ‘periferia’. Così il centro geografico e cartografico viene a coincidere con il centro storico, culturale e religioso. L’immagine di Parigi è quella che forse meglio chiarisce il programma cartografico in atto: l’ÃŽle-de-la Cité si pone al centro di una città che si sviluppa intorno al suo nucleo più antico, e che si organizza intorno alle diverse mura che la circondano. In mancanza di una così complessa e icastica rappresentazione del centro urbano (il fiume, l’isolotto), la mappa individua il centro nella piazza con i monumenti principali il centro da cui fare partire il percorso del lettore (la mappa di Bruges è un buon esempio).

Di fronte alla città di Tunisi, la cartografia di Braun e Hogenberg non riesce a riportare un ordine ortogonale alla visione complessiva della città e preferisce significativamente spostare il centro nell’unico elemento figurativo facilmente individuabile: il porto. E così i formanti eidetici della piazza, la curvilinearità, la posizione centrale, la rotondità completa dalla piazza vengono rappresentati nella distanza che corre fra Tunisi e il suo porto più esterno, la Goulette (ancora oggi luogo di imbarco e sbarco delle navi). Una serie di linee spezzate, ombrate e poco definite richiamano sullo sfondo del testo cartografico la città di Tunisi e la sua Medina.
Le mappe contemporanee, ovviamente, non si limitano a riprodurre il contorno confuso e lontano della Medina, ma da ormai un paio di secoli ci offrono spesso una rappresentazione dettagliata della Medina, intesa nella sua totalità come il ‘centro’ della città.

Eppure, se oggi aprendo una Routard o una Lonely su Tunisi non ci troviamo più di fronte a contorni confusi, ci appare comunque una mappa difficilmente riconducibile a quelle dei modelli europei. I formanti tipici delle piazze e delle grandi vie (la rettilinearità, la regolarità geometrica, il bianco che rimanda alla mancanza di fabbricati) mancano e resta questo confuso dedalo di vie curve e tortuose. Tanto poco risponde alla logica cartografica occidentale la Medina di Tunisi (come anche altre del Nordafrica) che il suo orientamento topologico di lettura cambia nelle varie guide. A volte, nella carta la Medina ci viene presentata con una lettura che si muove orizzontalmente (il caso della carta Hachette), a volte con una lettura verticale (carta Lonely Planet). Così la città resta priva di centro e di piazze.

Appunti di viaggio (semiotici): l’Islam, i mercanti e la Medina

Tra i tanti e ricorsivi luoghi comuni sull’Islam uno particolarmente interessante riguarda la storia del proselitismo di questa religione. La questione su come si sia diffuso l’islamismo in un’area enorme che va dall’Oceano Pacifico all’Atlantico non sembra riguardare oggi i nostri commentatori politici e lascia il posto a enunciazioni di principio secondo le quali “i fedeli islamici non possono convivere con altre religioni”, “l’islamismo non può adattarsi fuori dalla sua area di influenza” (cioè suppongo il Medio Oriente e l’Africa del Nord). L’ultima versione ce la dà Giovanni Sartori in un articolo di qualche giorno fa sul Corriere della Sera: “La domanda è allora se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no.”
Certo, storicamente, almeno qualche secolo fa, grossi problemi di adattamento non sembra averne avuto riuscendo in poco meno di cinquant’anni a invadere ed ecumenizzare le cristianissime regioni del bacino meridionale del Mediterraneo, islamizzando dal Marocco alla Siria, un’area che per secoli era stata prima d’influenza greco-romana e poi cristiana.
I soliti commentatori, e qui il luogo comune, ricorderanno prontamente che quella fu una islamizzazione forzosa, frutto di una conquista cruenta che spense con la forza le fedi contrarie. Ovviamente, non fu solo così e la storia della conquista e dell’espansione della fede islamica meriterebbe ben altro approfondimento. Ma se diamo per buono che la conversione attraverso la spada abbia riguardato la prima Jihad e le prime conquiste arabe, resterebbe da spiegare come l’islamismo si sia diffuso, fino a divenire maggioranza, anche in regioni non direttamente conquistate e anche su coloro che successivamente sono stati i vincitori e i nuovi invasori.
La religione islamica ha fatto milioni di proseliti nei secoli in regioni lontanissime come l’Indonesia, come il Bangladesh, nelle steppe mongoliche e nell’Africa centrale, zone non direttamente controllate dall’Impero Arabo prima o da quello Ottomano, poi (dal Califfato, insomma). Popolazioni come quelle turche o quelle mongole, conquistatrici dell’impero Arabo, si sono convertite all’Islam (esattamente come successe per i barbari invasori di Roma). Carlo Felice Casula in Storia Contemporanea, edizioni Donzelli, ricorda che “l’espansione dell’Islam procedette anche pacificamente”. Convenienze storiche, politiche, culturali hanno permesso l’espansione di questa fede, al di là dell’effettiva fortuna militare dei suoi sostenitori.
Fra i principali artefici di questa espansione, come ricorda sempre Casula, ci sono “i commercianti”. Lungo la via della Seta, per le rotte marine del Mediterraneo o del Golfo Arabico, fino alle isole Indiane e alle savane subsahariane instancabili mercanti hanno, di fatto, insieme ai veneziani, messo in atto un processo economico fiorente che per secoli, prima e dopo il Mille, ha strutturato un sistema culturale e sociale. Questi stessi mercanti sono stati capaci, spesso, di convertire al loro Credo migliaia di persone e intere popolazioni. I commercianti arabi sono stati per l’Islam, quello che i martiri sono stati per il cristianesimo. Viaggiatori capaci di rendere su carte e ridefinire il mondo conosciuto, intenti a intessere ricchi traffici internazionali di ori e stoffe e, insieme, fedeli propugnatori dell’insegnamento divino. E’ una banalità storica che oggi, però, ci sorprende di fronte all’idea corrente che abbiamo dell’Islam. Perché è difficile pensare, in tempi di nuove Guerre sante, attentati e terrorismi veri e presunti, che uno degli attori principali delle fortune della religione di Maometto possa essere stato un gioviale commerciante. Per carità, non che lo si voglia qui idealizzare, sono gli stessi commercianti musulmani che per secoli si sono dedita a rinverdire i fasti della tratta degli schiavi romani. In ogni modo, però, l’idea che buona parte della diffusione di questa fede, oggi spesso dipinta come chiusa, settaria, violenta, possa essere stata affidata all’opera molto laica e profana del mercante colpisce e appare molto moderna.
Il cristianesimo ha negato fin da quasi subito questa ibridazione di pratiche all’interno di uno stesso soggetto: il ‘convertito’ e ancora di più ‘il predicatore’ era un ruolo dominante ed esclusivo. Colui che si faceva ‘ministro di Dio’ abbandonava le pratiche precedenti in modo definitivo. Matteo rinuncia alla sua attività di pubblicano per seguire Gesù e così fanno Pietro e Andrea che diventano ‘pescatori di uomini’: è evidente la non sovrapponibilità delle due azioni. Il commerciante-predicatore musulmano appare come il risultato di pratiche diverse, ma sovrapponibili: trasporta beni materiali e immateriali e li vende con la stessa maestria.
Lotman, nel bellissimo e citatissimo saggio sulla città (“L’architettura nel contesto della cultura”), ci ricorda che “La coscienza, sia individuale sia collettiva (cultura) è spaziale. Si sviluppa nello spazio e ragiona con le sue categorie. Il pensiero estrapolato dalla semiosfera creata dall’uomo (nella quale rientra anche il paesaggio creato dalla cultura) semplicemente non esiste.”
Così l’agire del soggetto si definisce e definisce sempre uno spazio: “Il punto di vista (il vettore di orientamento spaziale) di Pietroburgo è lo sguardo di un pedone che cammina in mezzo alla strada (il soldato in marcia).” Allo stesso modo, lo spazio del commerciante/predicatore è invece tortuoso, labirintico, procede per contrattazioni e mediazioni, per vie conosciute attraverso la reiterazione di percorsi, attraverso la perdita e il ritrovamento di una strada: è lo spazio della Medina araba. E della Medina araba, dei suoi percorsi suggeriti e della sua ideologia sottesa, mi ritroverò a parlare nel prossimo intervento su questo blog.

Per un’architettura porosa: la ringhiera

Tutti dizionari etimologici, purtroppo, concordano nel dare al termine ringhiera una derivazione univoca e perfino il Battaglia, ultima risorsa edextrema ratiodell’ermeneuta lessicale ci tradisce e si accoda: ringhiera viene da arengo (stessa radice di arringa) mutazione, pare, del termine gotico *Hari-Hring che significa spiazzo circoscritto. Quindi la ringhiera viene da lì, da un piccolo ovale chiuso dove qualcuno parlava agli astanti. Certo, gli studiosi della lingua ci concedono un rapido accenno alla comune assonanza con l’arena latina, ma è ben poca cosa per chi era in cerca di svolazzi linguistici: l’elemosina al mendicante.

A noi l’etimologia pareva chiara, bella e lampante: ringhiera da ringhiare. Una ringhiera che ringhia è già di per sé un’immagine bellissima, a metà fra la poesia e la settimana enigmistica, ma se si va a vedere il significato esatto di ringhiare (dal latinoringi) c‘è molto di più: ringhiare è l’atto di “mostrare i denti con rabbia”. La ringhiera quindi ringhia e, in effetti, tutti i ballatoi dei cortili milanesi sembrano coperti da questi denti dritti, fatti di ferro arrugginito, che mostrano con rabbia le loro gengive a balaustra. La ringhiera ringhia, mostra i denti e difende il suo territorio. Ringhiare e ringhiera ci sembrano fatti per stare insieme e per rimandarsi l’un l’altro, ma a volte la scienza filologica spegne le più belle unioni.

La tentazione è di chiuderla qua: in una rivista che si occupa di immaginario la nostra figura l’abbiamo fatta; abbiamo evocato qualche oggetto mitico-poetico (i denti, le sbarre di ferro), proposto congiungimenti inesplorati: possiamo andare a casa. Qualche parola, però, da spendere c‘è ancora.

Seguendo la sua etimologia certa, quella proposta dai dizionari, la ringhiera, prima, è uno spazio chiuso da frammezzo (l’arengo), poi, è il frammezzo stesso, suddiviso in colonnine o ’poggioli‘. Il nuovo uso è attestato nell’Architettura Civile (II, 26) di Serlio: “Li poggioli altri li dicono pergoli, altri renghiere”. Si trattava, quindi, di un insieme di poggioli che, presumibilmente, dovevano essere in marmo o in pietra e che sostenevano le balaustre nei balconi. Quindi, la ringhiera è, all’origine, un elemento architettonico nobile e tale appare ancora a Milano in certi vecchi edifici che nei secoli hanno perso i bei “poggioli” in marmo per sostituirli con le più comuni colonnine di ferro. In via Vigevano, una abitazione signorile del Quattrocento mette in bella mostra sul prospetto principale le assi di ferro che chiudono, a balcone, gli ampi loggiati.

Ben presto, la necessità di preservare gli spazi pubblici dalle intemperanze di avventori e spettatori non permette di guardare per il sottile e le ringhiere perdono i loro ’poggioli‘ serliani e diventano frammezzi per riparare o limitare palchi, palcoscenici e arene. Doveva essere una definizione già chiara nel Settecento se Passeroni, poeta milanese, ci lascia queste rime:

Vi furon più di diece
Tal fu il rider che si fece
Che le logge e la ringhiera
Innaffiaron di maniera
Che il teatro la mattina
Tutto sapea d’orina

 

Certo, però, la ringhiera diventa elemento del paesaggio urbano e assume le forme che oggi le riconosciamo solo nell’Ottocento con la grande trasformazione cittadina. Milano diviene città industriale e aggrega pian piano i “Corpi Santi” cioè i territori fuori porta che stringevano il vecchio centro storico. l’espansione, iniziata intorno al 1850 e ufficializzata dal piano regolatore del 1873, crea i nuovi caseggiati: edifici quadrati con un cortile al centro. Come ci ricorda Cherubini, autore, proprio in quel periodo, di un dizionario Milanese-Italiano, le ringhiere si trovano “fuori dalle facciate esterne di un edificio o interne con isponde dattorno” e servono “per passare per di fuori da una ad altra abitazione, o per girare attorno all’edifizio”.

La ringhiera permette di guadagnare spazio, elimina il problema dello scalone interno e dei pianerottoli. Più spazio più case popolari. Fuori Porta Ticinese, in via Paolo Sarpi, ai Navigli, le abitazioni si affollano e si comprimono tanto da utilizzare ponti (provvisti ovviamente di ringhiere) per collegare un ballatoio all’altro. Queste piccole lingue in muratura e ferro ci danno ancora la misura di una città che stava diventando, alla fine del secolo XIX, aerea, cercando spazi verso l’alto, e che così facendo si accodava (unica, allora, in Italia) alle costruzioni edilizie delle grandi capitali europee, Parigi e Roma su tutte. In corso S. Gottardo si possono vedere ancora queste ringhiere sospese nel vuoto; in corso di Porta Ticinese le ristrettezze urbanistiche impedivano, a volte, la creazioni di cortili e su delle vie strettissime si confrontavano a destra e a sinistra file di ballatoi.

l’espansione urbanistica, che attraverso la ringhiera aveva avuto modo di avvicinarsi ai celebri modelli d’oltralpe, creando nuovi quartieri per il nuovo proletariato, riusciva, grazie allo stesso elemento architettonico, a sfuggire alle immagini della miseria e della disperazione cui rimandavano le descrizioni di Parigi e di Londra lasciate da Sue e Dickens. Non che a Milano il proletariato se la spassasse, tutt‘altro, ma la ringhiera gli garantiva l’ora d’aria. Sempre ricorrendo al dizionario di Cherubini, si può intuire come questa servisse “per dar luogo agli abitanti di ricrearsi all’aria aperta o goder la veduta della strada.”Si costruiva così un ’cortile per ogni piano‘, un cortile stretto e limitato, ma pur sempre uno spazio dove poter piazzare una sedia (anche solo per pochi minuti) e vedere l’esterno, osservare qualcun altro, incrociare uno sguardo o un saluto. l’interazione era (ed è) obbligatoria in una casa di ringhiera, e anche nelle sere invernali, chiusi nei propri appartamenti, capitava (e capita) di veder passare il vicino che si dirige verso la porta accanto. Quel che diceva Cherubini non doveva essere peregrino e, cento e più anni fa, la ringhiera doveva essere il luogo delle libertà e della fantasia, se anche De Marchi ci ricorda che “usciva alla ringhiera a respirar dell’aria”.

I tempi cambiano i luoghi comuni e parlare di ringhiera oggi, scomparso il proletariato, scomparsa la Milano industriale, scomparsa l’espansione urbanistica può sembrare operazione daguida storica alla città che fu, daMilano d’un tempo. Ma basta fare un giro per i quartieri che furono il centro della nuova Milano di fine Ottocento per capire che non è così. La lenta deglutizione delle vecchie case a ringhiera che, digerite, venivano trasformate in moderne unità abitative a otto-nove piani, si è fermata alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Le ringhiere e i cortili rivivono una nuova stagione di interesse urbanistico, vecchie case vengono rimesse a posto e si trasformano in eleganti edifici residenziali che i proletari di ieri e di oggi difficilmente si potrebbero permettere (ve ne è un bell’esempio in via Giannone). La restaurazione, però, non ne modifica le implicazioni semiotiche e a pragmatica della comunicazione.

La ringhiera è l’esaltazione dell’intermittenza e del singhiozzo. l’osservatore che guarda dal basso vede l’amico, l’amante, lo sconosciuto scomparire negli antri bui dei pianerottoli interni per poi riapparire miracolosamente sulla soglia del ballatoio d’accesso al piano, così per ogni livello, fino all’ultima soglia, quella dell’uscio di casa, dove la figura scompare per entrare nell’inaccessibile privato. A volte, la scala si inerpica con perentorietà dal cortile verso l’alto e si insinua dentro una volta scura, senza luce, da fare paura ai bambini (si vedano certi vecchi fabbricati in via Ascanio Sforza o in Ripetta di Porta Ticinese). Ma al mistero segue subito la luce del ballatoio del primo piano e delle porte degli appartamenti.

Lontana delle false promesse delle coperture in vetro, che oggi sono molto in voga e che illudono di far vedere in trasparenza tutto ciò che accade all’interno dell’edificio, la ringhiera è intermittente anche nelle informazioni. Lascia all’abitante la scelta di esporsi e impedisce una visione completa all’osservatore, disturbato dalle sbarre. Oltre la porta di casa, tutto è visibile, ma non esposto completamente; la scopa, lo straccio, la sedia, la signora mantengono qualcosa di lontano, di non concesso, di privato.

Dopo oltre un secolo le ringhiere superstiti guardano all’esterno ringhiando, mostrando i denti, strenue protettrici di un’idea di città ancora basata sugli spazi ’intermedi‘, mediazioni fra pubblico e privato.