Per un’architettura porosa: la ringhiera

Tutti dizionari etimologici, purtroppo, concordano nel dare al termine ringhiera una derivazione univoca e perfino il Battaglia, ultima risorsa edextrema ratiodell’ermeneuta lessicale ci tradisce e si accoda: ringhiera viene da arengo (stessa radice di arringa) mutazione, pare, del termine gotico *Hari-Hring che significa spiazzo circoscritto. Quindi la ringhiera viene da lì, da un piccolo ovale chiuso dove qualcuno parlava agli astanti. Certo, gli studiosi della lingua ci concedono un rapido accenno alla comune assonanza con l’arena latina, ma è ben poca cosa per chi era in cerca di svolazzi linguistici: l’elemosina al mendicante.

A noi l’etimologia pareva chiara, bella e lampante: ringhiera da ringhiare. Una ringhiera che ringhia è già di per sé un’immagine bellissima, a metà fra la poesia e la settimana enigmistica, ma se si va a vedere il significato esatto di ringhiare (dal latinoringi) c‘è molto di più: ringhiare è l’atto di “mostrare i denti con rabbia”. La ringhiera quindi ringhia e, in effetti, tutti i ballatoi dei cortili milanesi sembrano coperti da questi denti dritti, fatti di ferro arrugginito, che mostrano con rabbia le loro gengive a balaustra. La ringhiera ringhia, mostra i denti e difende il suo territorio. Ringhiare e ringhiera ci sembrano fatti per stare insieme e per rimandarsi l’un l’altro, ma a volte la scienza filologica spegne le più belle unioni.

La tentazione è di chiuderla qua: in una rivista che si occupa di immaginario la nostra figura l’abbiamo fatta; abbiamo evocato qualche oggetto mitico-poetico (i denti, le sbarre di ferro), proposto congiungimenti inesplorati: possiamo andare a casa. Qualche parola, però, da spendere c‘è ancora.

Seguendo la sua etimologia certa, quella proposta dai dizionari, la ringhiera, prima, è uno spazio chiuso da frammezzo (l’arengo), poi, è il frammezzo stesso, suddiviso in colonnine o ’poggioli‘. Il nuovo uso è attestato nell’Architettura Civile (II, 26) di Serlio: “Li poggioli altri li dicono pergoli, altri renghiere”. Si trattava, quindi, di un insieme di poggioli che, presumibilmente, dovevano essere in marmo o in pietra e che sostenevano le balaustre nei balconi. Quindi, la ringhiera è, all’origine, un elemento architettonico nobile e tale appare ancora a Milano in certi vecchi edifici che nei secoli hanno perso i bei “poggioli” in marmo per sostituirli con le più comuni colonnine di ferro. In via Vigevano, una abitazione signorile del Quattrocento mette in bella mostra sul prospetto principale le assi di ferro che chiudono, a balcone, gli ampi loggiati.

Ben presto, la necessità di preservare gli spazi pubblici dalle intemperanze di avventori e spettatori non permette di guardare per il sottile e le ringhiere perdono i loro ’poggioli‘ serliani e diventano frammezzi per riparare o limitare palchi, palcoscenici e arene. Doveva essere una definizione già chiara nel Settecento se Passeroni, poeta milanese, ci lascia queste rime:

Vi furon più di diece
Tal fu il rider che si fece
Che le logge e la ringhiera
Innaffiaron di maniera
Che il teatro la mattina
Tutto sapea d’orina

 

Certo, però, la ringhiera diventa elemento del paesaggio urbano e assume le forme che oggi le riconosciamo solo nell’Ottocento con la grande trasformazione cittadina. Milano diviene città industriale e aggrega pian piano i “Corpi Santi” cioè i territori fuori porta che stringevano il vecchio centro storico. l’espansione, iniziata intorno al 1850 e ufficializzata dal piano regolatore del 1873, crea i nuovi caseggiati: edifici quadrati con un cortile al centro. Come ci ricorda Cherubini, autore, proprio in quel periodo, di un dizionario Milanese-Italiano, le ringhiere si trovano “fuori dalle facciate esterne di un edificio o interne con isponde dattorno” e servono “per passare per di fuori da una ad altra abitazione, o per girare attorno all’edifizio”.

La ringhiera permette di guadagnare spazio, elimina il problema dello scalone interno e dei pianerottoli. Più spazio più case popolari. Fuori Porta Ticinese, in via Paolo Sarpi, ai Navigli, le abitazioni si affollano e si comprimono tanto da utilizzare ponti (provvisti ovviamente di ringhiere) per collegare un ballatoio all’altro. Queste piccole lingue in muratura e ferro ci danno ancora la misura di una città che stava diventando, alla fine del secolo XIX, aerea, cercando spazi verso l’alto, e che così facendo si accodava (unica, allora, in Italia) alle costruzioni edilizie delle grandi capitali europee, Parigi e Roma su tutte. In corso S. Gottardo si possono vedere ancora queste ringhiere sospese nel vuoto; in corso di Porta Ticinese le ristrettezze urbanistiche impedivano, a volte, la creazioni di cortili e su delle vie strettissime si confrontavano a destra e a sinistra file di ballatoi.

l’espansione urbanistica, che attraverso la ringhiera aveva avuto modo di avvicinarsi ai celebri modelli d’oltralpe, creando nuovi quartieri per il nuovo proletariato, riusciva, grazie allo stesso elemento architettonico, a sfuggire alle immagini della miseria e della disperazione cui rimandavano le descrizioni di Parigi e di Londra lasciate da Sue e Dickens. Non che a Milano il proletariato se la spassasse, tutt‘altro, ma la ringhiera gli garantiva l’ora d’aria. Sempre ricorrendo al dizionario di Cherubini, si può intuire come questa servisse “per dar luogo agli abitanti di ricrearsi all’aria aperta o goder la veduta della strada.”Si costruiva così un ’cortile per ogni piano‘, un cortile stretto e limitato, ma pur sempre uno spazio dove poter piazzare una sedia (anche solo per pochi minuti) e vedere l’esterno, osservare qualcun altro, incrociare uno sguardo o un saluto. l’interazione era (ed è) obbligatoria in una casa di ringhiera, e anche nelle sere invernali, chiusi nei propri appartamenti, capitava (e capita) di veder passare il vicino che si dirige verso la porta accanto. Quel che diceva Cherubini non doveva essere peregrino e, cento e più anni fa, la ringhiera doveva essere il luogo delle libertà e della fantasia, se anche De Marchi ci ricorda che “usciva alla ringhiera a respirar dell’aria”.

I tempi cambiano i luoghi comuni e parlare di ringhiera oggi, scomparso il proletariato, scomparsa la Milano industriale, scomparsa l’espansione urbanistica può sembrare operazione daguida storica alla città che fu, daMilano d’un tempo. Ma basta fare un giro per i quartieri che furono il centro della nuova Milano di fine Ottocento per capire che non è così. La lenta deglutizione delle vecchie case a ringhiera che, digerite, venivano trasformate in moderne unità abitative a otto-nove piani, si è fermata alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Le ringhiere e i cortili rivivono una nuova stagione di interesse urbanistico, vecchie case vengono rimesse a posto e si trasformano in eleganti edifici residenziali che i proletari di ieri e di oggi difficilmente si potrebbero permettere (ve ne è un bell’esempio in via Giannone). La restaurazione, però, non ne modifica le implicazioni semiotiche e a pragmatica della comunicazione.

La ringhiera è l’esaltazione dell’intermittenza e del singhiozzo. l’osservatore che guarda dal basso vede l’amico, l’amante, lo sconosciuto scomparire negli antri bui dei pianerottoli interni per poi riapparire miracolosamente sulla soglia del ballatoio d’accesso al piano, così per ogni livello, fino all’ultima soglia, quella dell’uscio di casa, dove la figura scompare per entrare nell’inaccessibile privato. A volte, la scala si inerpica con perentorietà dal cortile verso l’alto e si insinua dentro una volta scura, senza luce, da fare paura ai bambini (si vedano certi vecchi fabbricati in via Ascanio Sforza o in Ripetta di Porta Ticinese). Ma al mistero segue subito la luce del ballatoio del primo piano e delle porte degli appartamenti.

Lontana delle false promesse delle coperture in vetro, che oggi sono molto in voga e che illudono di far vedere in trasparenza tutto ciò che accade all’interno dell’edificio, la ringhiera è intermittente anche nelle informazioni. Lascia all’abitante la scelta di esporsi e impedisce una visione completa all’osservatore, disturbato dalle sbarre. Oltre la porta di casa, tutto è visibile, ma non esposto completamente; la scopa, lo straccio, la sedia, la signora mantengono qualcosa di lontano, di non concesso, di privato.

Dopo oltre un secolo le ringhiere superstiti guardano all’esterno ringhiando, mostrando i denti, strenue protettrici di un’idea di città ancora basata sugli spazi ’intermedi‘, mediazioni fra pubblico e privato.

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