Appunti di viaggio (semiotici): l’Islam, i mercanti e la Medina

Tra i tanti e ricorsivi luoghi comuni sull’Islam uno particolarmente interessante riguarda la storia del proselitismo di questa religione. La questione su come si sia diffuso l’islamismo in un’area enorme che va dall’Oceano Pacifico all’Atlantico non sembra riguardare oggi i nostri commentatori politici e lascia il posto a enunciazioni di principio secondo le quali “i fedeli islamici non possono convivere con altre religioni”, “l’islamismo non può adattarsi fuori dalla sua area di influenza” (cioè suppongo il Medio Oriente e l’Africa del Nord). L’ultima versione ce la dà Giovanni Sartori in un articolo di qualche giorno fa sul Corriere della Sera: “La domanda è allora se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no.”
Certo, storicamente, almeno qualche secolo fa, grossi problemi di adattamento non sembra averne avuto riuscendo in poco meno di cinquant’anni a invadere ed ecumenizzare le cristianissime regioni del bacino meridionale del Mediterraneo, islamizzando dal Marocco alla Siria, un’area che per secoli era stata prima d’influenza greco-romana e poi cristiana.
I soliti commentatori, e qui il luogo comune, ricorderanno prontamente che quella fu una islamizzazione forzosa, frutto di una conquista cruenta che spense con la forza le fedi contrarie. Ovviamente, non fu solo così e la storia della conquista e dell’espansione della fede islamica meriterebbe ben altro approfondimento. Ma se diamo per buono che la conversione attraverso la spada abbia riguardato la prima Jihad e le prime conquiste arabe, resterebbe da spiegare come l’islamismo si sia diffuso, fino a divenire maggioranza, anche in regioni non direttamente conquistate e anche su coloro che successivamente sono stati i vincitori e i nuovi invasori.
La religione islamica ha fatto milioni di proseliti nei secoli in regioni lontanissime come l’Indonesia, come il Bangladesh, nelle steppe mongoliche e nell’Africa centrale, zone non direttamente controllate dall’Impero Arabo prima o da quello Ottomano, poi (dal Califfato, insomma). Popolazioni come quelle turche o quelle mongole, conquistatrici dell’impero Arabo, si sono convertite all’Islam (esattamente come successe per i barbari invasori di Roma). Carlo Felice Casula in Storia Contemporanea, edizioni Donzelli, ricorda che “l’espansione dell’Islam procedette anche pacificamente”. Convenienze storiche, politiche, culturali hanno permesso l’espansione di questa fede, al di là dell’effettiva fortuna militare dei suoi sostenitori.
Fra i principali artefici di questa espansione, come ricorda sempre Casula, ci sono “i commercianti”. Lungo la via della Seta, per le rotte marine del Mediterraneo o del Golfo Arabico, fino alle isole Indiane e alle savane subsahariane instancabili mercanti hanno, di fatto, insieme ai veneziani, messo in atto un processo economico fiorente che per secoli, prima e dopo il Mille, ha strutturato un sistema culturale e sociale. Questi stessi mercanti sono stati capaci, spesso, di convertire al loro Credo migliaia di persone e intere popolazioni. I commercianti arabi sono stati per l’Islam, quello che i martiri sono stati per il cristianesimo. Viaggiatori capaci di rendere su carte e ridefinire il mondo conosciuto, intenti a intessere ricchi traffici internazionali di ori e stoffe e, insieme, fedeli propugnatori dell’insegnamento divino. E’ una banalità storica che oggi, però, ci sorprende di fronte all’idea corrente che abbiamo dell’Islam. Perché è difficile pensare, in tempi di nuove Guerre sante, attentati e terrorismi veri e presunti, che uno degli attori principali delle fortune della religione di Maometto possa essere stato un gioviale commerciante. Per carità, non che lo si voglia qui idealizzare, sono gli stessi commercianti musulmani che per secoli si sono dedita a rinverdire i fasti della tratta degli schiavi romani. In ogni modo, però, l’idea che buona parte della diffusione di questa fede, oggi spesso dipinta come chiusa, settaria, violenta, possa essere stata affidata all’opera molto laica e profana del mercante colpisce e appare molto moderna.
Il cristianesimo ha negato fin da quasi subito questa ibridazione di pratiche all’interno di uno stesso soggetto: il ‘convertito’ e ancora di più ‘il predicatore’ era un ruolo dominante ed esclusivo. Colui che si faceva ‘ministro di Dio’ abbandonava le pratiche precedenti in modo definitivo. Matteo rinuncia alla sua attività di pubblicano per seguire Gesù e così fanno Pietro e Andrea che diventano ‘pescatori di uomini’: è evidente la non sovrapponibilità delle due azioni. Il commerciante-predicatore musulmano appare come il risultato di pratiche diverse, ma sovrapponibili: trasporta beni materiali e immateriali e li vende con la stessa maestria.
Lotman, nel bellissimo e citatissimo saggio sulla città (“L’architettura nel contesto della cultura”), ci ricorda che “La coscienza, sia individuale sia collettiva (cultura) è spaziale. Si sviluppa nello spazio e ragiona con le sue categorie. Il pensiero estrapolato dalla semiosfera creata dall’uomo (nella quale rientra anche il paesaggio creato dalla cultura) semplicemente non esiste.”
Così l’agire del soggetto si definisce e definisce sempre uno spazio: “Il punto di vista (il vettore di orientamento spaziale) di Pietroburgo è lo sguardo di un pedone che cammina in mezzo alla strada (il soldato in marcia).” Allo stesso modo, lo spazio del commerciante/predicatore è invece tortuoso, labirintico, procede per contrattazioni e mediazioni, per vie conosciute attraverso la reiterazione di percorsi, attraverso la perdita e il ritrovamento di una strada: è lo spazio della Medina araba. E della Medina araba, dei suoi percorsi suggeriti e della sua ideologia sottesa, mi ritroverò a parlare nel prossimo intervento su questo blog.

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