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Appunti di viaggio (semiotici) II: la Medina, la Moschea e la mappa

La Medina, quindi. Termine che molto semplicemente indica ‘la città’ e che caratterizza, in particolare, le città di fondazione araba nel Nord Africa coma Kairouan, Tunisi, Algeri, Fez, Il Cario. Una forma urbana similare a quella della Medina è, però, riscontrabile in altre aree al fuori del Mediterraneo. Negli ultimi giorni è venuta tristemente alla ribalta la città di Sana’a come nuovo centro del terrorismo e come possibile bersaglio di una rappresaglia americana. Questa città, scelta da Pasolini per Il fiore delle Mille e una Notte e dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, ha al suo centro (anche se sul concetto europeo di centro ci sarebbe da discutere) una struttura simile a quella della Medina.
Molte città mediterranee dell’Europa cristiana presentano un’area antica con un tessuto simile a quello delle Medine nordafricane (Palermo, Bari, Genova per limitarci alla sola Italia). Come sempre, insomma, è difficile stabilire i confini di una categoria urbanistica e ancora più difficile racchiuderli dentro un termine. Diciamo che, per brevità, ci occuperemo, facendo seguito all’articolo precedente, della Medina nella forma che si può recuperare oggi in alcune città nordafricane e in particolare tunisine.
Nell’articolo precedente abbiamo parlato del commerciante-predicatore e della Medina come della realizzazione di uno spazio urbano che più di ogni altro ne manifestasse il suo punto di vista. Al di là delle suggestioni lotmaniane, la città-medina si presenta, osservandone la mappa, come un insieme intricato di strade, cinte da mura (ancora visibili in molte città come Sousse o Kairouan), privo fondamentalmente di aree aperte come piazze o slarghi. Spesso inoltre, buona parte di questi vicoli, che difficilmente seguono un percorso rettilineo, si presentano coperti e pieni di negozi e bancarelle: sono i suq, cioè quelle vie, coperte e non, che fin dalla loro fondazione medievali erano destinate eminentemente alla vendita e al commercio di determinati tipi di beni. Avremo così il suq della lana, delle spezie, delle sete, dei tappeti. Spesso il suq era circoscritto a specifiche strade e rigidamente controllato, tanto da avere un sistema di porte che ne determinavano l’accesso.
Un turista, un viaggiatore, uno studioso vede, osservando una pianta di Sousse o di Tunisi o di Monastir, dunque, una rete di vicoli tortuosi, nessuna strada rettilinea, alcuni tracciati coperti. Infine, un luogo fortificato a ridosso della mura, la Kasba (Qasba), cioè una residenza fortificata cinta a sua volta da mura. Altre volte la Kasba, spesso erroneamente identificata con tutta la Medina, assume la forma di un castelletto con abitazioni residenziali e, nella penisola araba soprattutto, prende il nome di Ksar.
Quindi, l’osservatore occidentale di fronte alla mappa della Medina noterà, come principale differenza rispetto a coeve esperienze urbane medievali dell’Europa cristiana, la mancanza di una piazza. Prosaicamente e grossolanamente, possiamo senz’altro riconoscere come affine alla nostra esperienza urbanistica la successione non ordinata di vie non rettilenee che caratterizza le città europee almeno fino a tutto il Quattrocento (rimando al saggio di Franco Farinelli sulla via d’Este a Ferrara come primo esempio di via ‘moderna’). Possiamo altresì riconoscere nella presenza di castelletti fortificati a uso difensivo e residenziale una somiglianza con l’esperienza dei comuni tardomedievali italiani. Anche lì si rileva l’esperienza di piccole fortificazioni private interne all’abitato (basti pensare alle torri gentilizie bolognesi) che poi cedono il posto ad un unico e più imponente fortilizio edificato dalla famiglia più facoltosa e potente (il Castello sforzesco a Milano, quello estense a Ferrara etc.).
Resta, quindi, più di altre, questo a caratterizzare la Medina: l’assenza della piazza. A ben guardare, questa differenza ne fa seguire un’altra: la mancanza di un centro ben definito. L’individuazione di un centro è un dato fondamentale nella lettura della mappa moderna. La cartografia e l’urbanistica moderna hanno prodotto in Europa e in Occidente città che potessero ricondursi facilmente a un centro zenitale che permettesse all’occhio del lettore di avere un punto di partenza.
Le splendide mappe di Braun e Hogenberg (Civitates Orbis Terrarum, 1572-1589) sono il primo esempio di questo tentativo iconografico. La veduta a volo di uccello tende a scomparire a favore di una visione ortogonale che privilegia una osservazione che dal ‘centro’ si muova concentricamente verso la ‘periferia’. Così il centro geografico e cartografico viene a coincidere con il centro storico, culturale e religioso. L’immagine di Parigi è quella che forse meglio chiarisce il programma cartografico in atto: l’ÃŽle-de-la Cité si pone al centro di una città che si sviluppa intorno al suo nucleo più antico, e che si organizza intorno alle diverse mura che la circondano. In mancanza di una così complessa e icastica rappresentazione del centro urbano (il fiume, l’isolotto), la mappa individua il centro nella piazza con i monumenti principali il centro da cui fare partire il percorso del lettore (la mappa di Bruges è un buon esempio).

Di fronte alla città di Tunisi, la cartografia di Braun e Hogenberg non riesce a riportare un ordine ortogonale alla visione complessiva della città e preferisce significativamente spostare il centro nell’unico elemento figurativo facilmente individuabile: il porto. E così i formanti eidetici della piazza, la curvilinearità, la posizione centrale, la rotondità completa dalla piazza vengono rappresentati nella distanza che corre fra Tunisi e il suo porto più esterno, la Goulette (ancora oggi luogo di imbarco e sbarco delle navi). Una serie di linee spezzate, ombrate e poco definite richiamano sullo sfondo del testo cartografico la città di Tunisi e la sua Medina.
Le mappe contemporanee, ovviamente, non si limitano a riprodurre il contorno confuso e lontano della Medina, ma da ormai un paio di secoli ci offrono spesso una rappresentazione dettagliata della Medina, intesa nella sua totalità come il ‘centro’ della città.

Eppure, se oggi aprendo una Routard o una Lonely su Tunisi non ci troviamo più di fronte a contorni confusi, ci appare comunque una mappa difficilmente riconducibile a quelle dei modelli europei. I formanti tipici delle piazze e delle grandi vie (la rettilinearità, la regolarità geometrica, il bianco che rimanda alla mancanza di fabbricati) mancano e resta questo confuso dedalo di vie curve e tortuose. Tanto poco risponde alla logica cartografica occidentale la Medina di Tunisi (come anche altre del Nordafrica) che il suo orientamento topologico di lettura cambia nelle varie guide. A volte, nella carta la Medina ci viene presentata con una lettura che si muove orizzontalmente (il caso della carta Hachette), a volte con una lettura verticale (carta Lonely Planet). Così la città resta priva di centro e di piazze.

Appunti di viaggio (semiotici): l’Islam, i mercanti e la Medina

Tra i tanti e ricorsivi luoghi comuni sull’Islam uno particolarmente interessante riguarda la storia del proselitismo di questa religione. La questione su come si sia diffuso l’islamismo in un’area enorme che va dall’Oceano Pacifico all’Atlantico non sembra riguardare oggi i nostri commentatori politici e lascia il posto a enunciazioni di principio secondo le quali “i fedeli islamici non possono convivere con altre religioni”, “l’islamismo non può adattarsi fuori dalla sua area di influenza” (cioè suppongo il Medio Oriente e l’Africa del Nord). L’ultima versione ce la dà Giovanni Sartori in un articolo di qualche giorno fa sul Corriere della Sera: “La domanda è allora se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no.”
Certo, storicamente, almeno qualche secolo fa, grossi problemi di adattamento non sembra averne avuto riuscendo in poco meno di cinquant’anni a invadere ed ecumenizzare le cristianissime regioni del bacino meridionale del Mediterraneo, islamizzando dal Marocco alla Siria, un’area che per secoli era stata prima d’influenza greco-romana e poi cristiana.
I soliti commentatori, e qui il luogo comune, ricorderanno prontamente che quella fu una islamizzazione forzosa, frutto di una conquista cruenta che spense con la forza le fedi contrarie. Ovviamente, non fu solo così e la storia della conquista e dell’espansione della fede islamica meriterebbe ben altro approfondimento. Ma se diamo per buono che la conversione attraverso la spada abbia riguardato la prima Jihad e le prime conquiste arabe, resterebbe da spiegare come l’islamismo si sia diffuso, fino a divenire maggioranza, anche in regioni non direttamente conquistate e anche su coloro che successivamente sono stati i vincitori e i nuovi invasori.
La religione islamica ha fatto milioni di proseliti nei secoli in regioni lontanissime come l’Indonesia, come il Bangladesh, nelle steppe mongoliche e nell’Africa centrale, zone non direttamente controllate dall’Impero Arabo prima o da quello Ottomano, poi (dal Califfato, insomma). Popolazioni come quelle turche o quelle mongole, conquistatrici dell’impero Arabo, si sono convertite all’Islam (esattamente come successe per i barbari invasori di Roma). Carlo Felice Casula in Storia Contemporanea, edizioni Donzelli, ricorda che “l’espansione dell’Islam procedette anche pacificamente”. Convenienze storiche, politiche, culturali hanno permesso l’espansione di questa fede, al di là dell’effettiva fortuna militare dei suoi sostenitori.
Fra i principali artefici di questa espansione, come ricorda sempre Casula, ci sono “i commercianti”. Lungo la via della Seta, per le rotte marine del Mediterraneo o del Golfo Arabico, fino alle isole Indiane e alle savane subsahariane instancabili mercanti hanno, di fatto, insieme ai veneziani, messo in atto un processo economico fiorente che per secoli, prima e dopo il Mille, ha strutturato un sistema culturale e sociale. Questi stessi mercanti sono stati capaci, spesso, di convertire al loro Credo migliaia di persone e intere popolazioni. I commercianti arabi sono stati per l’Islam, quello che i martiri sono stati per il cristianesimo. Viaggiatori capaci di rendere su carte e ridefinire il mondo conosciuto, intenti a intessere ricchi traffici internazionali di ori e stoffe e, insieme, fedeli propugnatori dell’insegnamento divino. E’ una banalità storica che oggi, però, ci sorprende di fronte all’idea corrente che abbiamo dell’Islam. Perché è difficile pensare, in tempi di nuove Guerre sante, attentati e terrorismi veri e presunti, che uno degli attori principali delle fortune della religione di Maometto possa essere stato un gioviale commerciante. Per carità, non che lo si voglia qui idealizzare, sono gli stessi commercianti musulmani che per secoli si sono dedita a rinverdire i fasti della tratta degli schiavi romani. In ogni modo, però, l’idea che buona parte della diffusione di questa fede, oggi spesso dipinta come chiusa, settaria, violenta, possa essere stata affidata all’opera molto laica e profana del mercante colpisce e appare molto moderna.
Il cristianesimo ha negato fin da quasi subito questa ibridazione di pratiche all’interno di uno stesso soggetto: il ‘convertito’ e ancora di più ‘il predicatore’ era un ruolo dominante ed esclusivo. Colui che si faceva ‘ministro di Dio’ abbandonava le pratiche precedenti in modo definitivo. Matteo rinuncia alla sua attività di pubblicano per seguire Gesù e così fanno Pietro e Andrea che diventano ‘pescatori di uomini’: è evidente la non sovrapponibilità delle due azioni. Il commerciante-predicatore musulmano appare come il risultato di pratiche diverse, ma sovrapponibili: trasporta beni materiali e immateriali e li vende con la stessa maestria.
Lotman, nel bellissimo e citatissimo saggio sulla città (“L’architettura nel contesto della cultura”), ci ricorda che “La coscienza, sia individuale sia collettiva (cultura) è spaziale. Si sviluppa nello spazio e ragiona con le sue categorie. Il pensiero estrapolato dalla semiosfera creata dall’uomo (nella quale rientra anche il paesaggio creato dalla cultura) semplicemente non esiste.”
Così l’agire del soggetto si definisce e definisce sempre uno spazio: “Il punto di vista (il vettore di orientamento spaziale) di Pietroburgo è lo sguardo di un pedone che cammina in mezzo alla strada (il soldato in marcia).” Allo stesso modo, lo spazio del commerciante/predicatore è invece tortuoso, labirintico, procede per contrattazioni e mediazioni, per vie conosciute attraverso la reiterazione di percorsi, attraverso la perdita e il ritrovamento di una strada: è lo spazio della Medina araba. E della Medina araba, dei suoi percorsi suggeriti e della sua ideologia sottesa, mi ritroverò a parlare nel prossimo intervento su questo blog.