Categoria: Semiotica

Due fratelli, lo stesso abito

Che cosa hanno in comune i fratelli di Charles Sanders Peirce e di Diego Armando Maradona? —

Il fratello di Charles Sanders Peirce:

«Mi ricordo bene di quand’ero ragazzo e mio fratello Herbert, ora nostro rappresentante diplomatico a Christiania, era poco più di un bambino: un giorno tutta la famiglia era a tavola, e da una lampada a spirito, o forse da uno scaldavivande, cadde un po’ di alcool incendiato sul vestito di mussola di una delle signore; Herbert balzò in piedi all’istante e fece tutto quello che doveva essere fatto e ogni suo movimento si adattava nel modo più abile allo scopo. Lo interrogai in proposito e mi disse che dalla morte della signora Longfellow aveva spesso passato in rassegna nell’immaginazione tutti i particolari di ciò che si sarebbe dovuto fare in una emergenza simile. Ecco un esempio notevole di un abito prodotto da esercizi nell’immaginazione». (Peirce, CP 5.487).

Così scriveva il filosofo americano in una nota del saggio A Survey of Pragmaticism (1905-1907). Christiania è l’odierna Oslo. L’antefatto accaduto al fratello Herbert accadde a Cambridge nel 1861: la seconda moglie del poeta H.W. Longfellow, mentre sigillava alcuni plichi, lasciò cadere sul suo vestito alcune gocce infuocate di ceralacca; le fiamme l’avvolsero rapidamente procurandole ustioni mortali.

Il paragrafo dove è inserita la nota è quello in cui Peirce definisce l’abito come «la tendenza a comportarsi effettivamente in un modo simile in circostanze simili nel futuro», tenendo conto che «ognuno esercita un maggiore o minore controllo su se stesso modificando i propri abiti».

 

Il fratello di Diego Armando Maradona:

«Quel goal lo avevo sognato tutta la vita, e finalmente mi riuscì, addirittura in un mondiale. Prima di quel mondiale avevo giocato moltissime partite in Italia, in Argentina e nel mondo, ma mai ero riuscito a realizzare quel goal. 

Nel 1979 con la nazionale argentina andammo a giocare a Wembley, la cattedrale del calcio. Ecco, non da così lontano, quasi da metà campo, feci una giocata quasi identica. Quando il portiere – Clemence, non Shilton – uscì, lo fece allo stesso modo in cui è poi sarebbe uscito Shilton nel mondiale del 1986. Con la parte esterna del piede sinistro calciai la palla sul secondo palo, ma andò fuori. Quando ritornai in Argentina, il mio fratello più piccolo mi disse: “Perché non hai dribblato il portiere?”. E io: “Guarda che ho fatto del mio meglio, la cosa migliore che potessi fare!”. E lui: “No, avevi il tempo e lo spazio per dribblare anche il portiere”.

Questa sua osservazione mi rimase in mente, come un pensiero costante. Al mondiale, mi ricordai di quello che lui mi aveva detto solo quando andai a esultare e a urlare “goal!”. Si vede che quel calcolo mi era rimasto in mente».

Questo ha raccontato il campione argentino descrivendo e commentando il secondo gol segnato all’Inghilterra nei mondiali di calcio il 22 giugno 1986 allo Stadio Azteca di Città del Messico.

Il testo qui citato è una mia trascrizione, con aggiustamenti ma fedele, tratta da una intervista ascoltabile sul canale YouTube di Paolo Potenza (<https://youtu.be/wdf2Wus6U3k>, consultato il  10 settembre 2020).

A più di un secolo di distanza, il fratello di Maradona di fatto consiglia al Pibe de Oro di acquisire, con esercizi nell’immaginazione, il medesimo abito su cui per anni si era esercitato il fratello di uno dei fondatori della semiotica moderna, il filosofo dell’abduzione.

 

 

Massimo Bordin: un metagiornalista

La scomparsa di Massimo Bordin è una perdita seria per il giornalismo italiano. La qualità del suo lavoro di giornalista si esprimeva soprattutto nella rassegna stampa che curava ogni mattina su Radio Radicale. Oltre alla lettura dei quotidiani, le sue attività radiofoniche erano gli ‘speciale giustizia’, nei quali seguiva con grande competenza le complicatissime vicende dei grandi processi italiani e i dialoghi fiume con Marco Pannella. Nell’uno e nell’altro caso, aveva la capacità di ascoltare e comprendere con attenzione, cosa non facile sia nelle procedure giudiziarie sia nell’oratoria circonvoluta di Pannella, e di aiutare a capire.

Vorrei qui dire qualcosa, però, su “Stampa e Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale” come lui stesso ogni giorno la introduceva.

Il giornalismo di Bordin, nel leggere i giornali, era per lo più spiegazione, pochissimo commento. Bordin aveva scelto, tra le tante specializzazioni nel mondo dell’informazione, quella di parlare di altre parole. Era un giornalista che si occupava di quello che scrivevano gli altri giornalisti, era un metagiornalista. Un compito solo in apparenza modesto, di fatto estremamente ambizioso, che pochi sanno eseguire con eleganza e utilità.

E’ relativamente facile per un giornalista prendere in mano il foglio sul quale è stampato il pezzo di un collega e farlo a pezzi o esaltarlo come un capolavoro. L’autore lo ha buttato giù, magari in fretta, sottoposto a tutte i condizionamenti che chi scrive di politica non può evitare: l’editore, che dirige il giornale secondo gli interessi che rappresenta, la linea della direzione, che incarna quella dell’editore, la propria posizione politica o ideologica, quasi sempre allineata alle prime due. Nel panorama odierno del giornalismo politico italiano hanno una gran parte la faziosità senza pudore, la retorica ridicola fatta solo per attirare l’attenzione di lettori che vogliono sentirsi cantare la canzone che gli piace. Un professionista preparato potrebbe, come fanno molti, limitare la sua rassegna stampa alle testate ‘serie’. Ma sarebbe un grave errore. Primo perché il panorama dell’informazione è un fatto reale, e un giornalista si occupa di fatti. Secondo perché le ‘grandi testate’ non sono più oneste, sono solo più raffinate nell’offrire la loro versione dei fatti. Terzo perché non c’è nulla che renda evidente la verità quanto l’ascolto delle innumerevoli mistificazioni, deviazioni, interpretazioni oneste e faziose, tentativi sinceri e mascheramenti che essa subisce ogni giorno.

Bordin dunque, per principio, leggeva tutto, dalla coppia Corriere della Sera-Repubblica, ai più sconosciuti quotidiani di partito e di lobby, che a volte pareva venissero stampati solo per lui, e di ogni testata non nascondeva né la proprietà né la linea editoriale. Ed era proprio questo ecumenismo, il poter conoscere le opinioni del Manifesto come quelle dell’Avvenire d’Italia, La Verità così come Il Fatto Quotidiano, che costruiva la visione dei fatti. Bordin leggeva con la stessa precisione e rispetto i sofisticati corsivi di Ferrara e le bordate turpiloquenti di Feltri, e di tutti riusciva a cogliere i passaggi più efficaci e gli appoggi più vacillanti. Con pochissimi commenti, sempre usando l’ironia, riusciva a volte a far ridere l’ascoltatore, a colazione, in auto, in bagno o ovunque uno si trova dalle 7:35 alle 9 di mattina. Se si potesse misurare il tasso di ironia di una popolazione si avrebbe un indice quasi sicuro di intelligenza. L’ironia è una figura retorica delicata, che si basa sul dire di meno o dire l’opposto di ciò che si vuole intendere, e presuppone nell’interlocutore la capacità di non prendere alla lettera. Nella sottigliezza dell’ironia sta il suo carattere selettivo e intellettualmente aristocratico: separa chi capisce da chi non capisce. Per questo è poco usata nel nostro paese, e pochissimo o per niente dai politici, almeno quelli attuali. Tra quelli di un tempo primeggiava Andreotti.

E la chiave del metagiornalismo di Massimo Bordin era proprio qui. Accostando, per paratassi, articolo ad articolo, dichiarazione a dichiarazione, costruiva un mosaico dal quale, improvvisamente, come per una reazione chimica, si formava l’opinione, la doxa, l’onesta narrazione della verità. Senza forzature, senza giudizi, Bordin costringeva al dialogo gli innumerevoli monologhi dei politici italiani, e messi uno dopo l’altro, l’uno accanto all’altro, le stature diverse, le faziosità, le contraddizioni, le manie, le ipocrisie, le miserie, le piccolezze, la fedeltà e i tradimenti, emergevano pian piano, quali più evidenti, quali meno, offerti al giudizio, mai forzato, mai manipolato, dell’ascoltatore. Bordin era straordinario nel capire dove si deve fermare il lavoro del giornalista nel formare l’opinione dell’interlocutore.

La nostra generazione è colpevole di aver deriso il giornalismo ‘dei fatti separati dalle opinioni’, criticando il concetto stesso di fatto, dichiarando che sempre e comunque il cronista, la cronaca, travisano, non rendendoci conto che dietro la nostra pretesa purezza epistemologica marciava nascosta la conseguenza “… e dunque l’informazione è sempre propaganda…” che si tirava dietro per mano la conclusione “… e tanto vale dunque fare propaganda al nostro interesse”. Le rassegne stampa delle radio alternative, alle quali chi scrive ha contribuito sporadicamente, miravano a svelare la faziosità e gli interessi del potere, del capitale, della classe dominante, e a difendere a spada tratta senza alcuna ricerca dei fatti la faziosità (chissà perché legittima) di ogni soggetto ‘rivoluzionario’. Tra tutte, ricordiamo la campagna di Lotta Continua contro Luigi Calabresi. La deriva dell’informazione italiana si è messa in moto anche (anche, non solo!) per questa corrosione della concezione del giornalismo.

Ci sfuggiva che il giornalismo non ha mai avuto questa illusione, perché il fatto, prima che oggettivo o soggettivo, è sempre labile, incompleto, mutevole, e di questo il giornalista è ben consapevole. La propaganda, le fake news, sono semplicemente cattivo giornalismo e disonestà.

E dunque, niente è più rivoluzionario, nel giornalismo, di sapersi fermare una volta esposto al lettore il risultato della propria ricerca, saper individuare quel limite vago, spesso incerto e variabile (il giornalista non smette mai di scrivere, perché ciò che scrive oggi seppellisce ciò che ha scritto ieri), che separa chi dà la notizia da chi la riceve.

Il cuore dell’informazione è proprio nella relazione tra chi produce e chi riceve la notizie, nel porgere, nel condividere. Chi dà e chi riceve sono separati solo dal un piccolo, a volte minimo, gap di conoscenza. E quanto più questo gap viene ridotto, tanto migliore è il giornalismo. Il giornalista lavora per portare il lettore il più vicino possibile a quello che egli ha visto, udito, capito. E quando questo dato è complesso, involuto, criptico come la politica, il mediatore deve sbrogliare e spiegare, ma senza selezionare troppo, senza tacitare, perché ciò che riporta (il termine ‘reporter’ va letto come se fosse latino…) sono a loro volta opinioni, quasi sempre di parte, e ciò che l’ascoltatore chiede non è un’opinione, ma gli ingredienti per costruirla.

Dell’immenso lavoro di Bordin (parliamo di decenni di rassegne di un’ora e mezza al giorno), mi rendo conto oggi, resta in chi lo ha seguito un bagaglio culturale di grande valore.

Se c’è qualcosa che ogni persona di buon senso patisce della politica italiana, dico chi non ha posizioni preconcette, chi veramente e onestamente vorrebbe capire per chi votare, per il bene di tutti e per il bene proprio e dei suoi, è la confusione, la nebbia di vere e proprie falsità, di distorsioni, di fakes, di propaganda, di complicazioni così imbrogliate che sembra impossibile trovare una soluzione, in un sistema nel quale tutti sembrano furbi e nessuno intelligente, in una competizione falsata che non consente di identificare veri leader, in un sistema giudiziario nel quale la politica non si distingue più dalla giustizia. Di fronte a questo magma ribollente, il lavoro metagiornalistico di Massimo Bordin era paziente, metodico, condotto con lucidità passo dopo passo. Si tratta di sistemi labirintici (nel senso di teoria logico-matematica dei labirinti), ipercomplessi, nei quali si può procedere solo con visioni locali. Bordin non imponeva la sua cupola ideologica all’ascoltatore, ma confidava nel metodo. Guardava, leggeva, interpretava con estrema prudenza, stava al solo il livello denotativo, non un passo più avanti. E ogni volta, in un processo che non aveva fine ma solo pause, ti rendevi conto che il tuo cervello si era formato un’opinione, ma questa opinione era il metodo. Di fronte alla complessità del mondo attuale, l’errore più grave è cercare di semplificarla. La complessità non è semplice. L’opinione non è la verità. Ma sbrogliando un nodo, seguendo un sentiero, giustapponendo testo con testo, osservando, annotando, ricordando (la memoria di Bordin era leggendaria), collegando, producendo conclusioni sempre provvisorie, si distingue ciò che è più chiaro da ciò che è più scuro, il politico e il giornalista che sono meglio di altri, l’intelligenza più acuta e la stupidità che fa ridere per non piangere, e non si arriva a certezze, ma si entra a far parte di chi senza spacciare certezze non rinuncia ai principi.

Questa è a mio modesto parere l’eredità di Massimo Bordin: ha insegnato come essere lucidi, solidi, membri di una comunità basata sul valore umano, a riconoscersi e distinguersi in un oceano di mediocrità e nobiltà, menzogne e coraggio, bassezze e genialità, vero e falso. Come tutti i maestri, Massimo Bordin lascia i suoi allievi. Chi lo ascoltava, senza saperlo, è diventato un po’ più forte e un po’ più intelligente. Credo che sia questo il motivo per il quale ci mancherà. Ma non potremo dimenticare la sua lezione.

La teoria del tumulto ne “I promessi sposi”, e il populismo italiano

Rileggo I promessi sposi e arrivo al Capitolo XIII, nel quale Manzoni prosegue il racconto dei tumulti per il pane detti ‘di San Martino’ (dei quali ricorre il 390esimo anniversario in questi giorni). Mi colpisce il noto brano nel quale l’autore discetta sulle dinamiche dei moti popolari (“Ne’ tumulti popolari c’è sempre…”) . Potete vederlo qui (consiglio di tenerlo in una finestra vicina). Mentre leggo odo un’eco semantica, o se preferite interpretativa, insomma, mi pare si tratti di riflessioni che di questi giorni attraversano, come nuvole estive, la semiosfera, o il phaneron, se preferite un termine peirceano, insomma quel luogo che sta un po’ nelle nostre teste e un po’ in quelle degli altri, il territorio del senso che costituisce la mente collettiva o enciclopedia.

E d’improvviso mi si manifesta una metafora alla quale io, personalmente, non avevo pensato: la rete socialmediatica non è un canale di comunicazione, è uno spazio urbano (e questo è stato detto e ridetto), ma la visione continua col mostrarmi chel’affermazione populismo (inteso nel suo complesso di flussi comunicativi) non è altro che una sommossa che ha luogo in questo spazio. Una rivolta che fa perno su criticità e malumori ampiamente diffusi, inizialmente spontanei, che vengono poi cavalcati da capipopolo, appunto i leader populisti.

In questa lettura mi supporta (o mi obnubila, dirà forse qualcuno…) l’esperienza diretta dei moti del 1977 a Bologna, quando appunto si parlava di ‘movimento’ come insieme di pratiche non riconducibili a organizzazioni politiche stabili e strutturate. In quei mesi fui parte e osservatore in azioni collettive di rivolta spontanea, e non posso non cogliere le similitudini con il racconto manzoniano.

Estremisti, moderati e massa oscillante

Ma prendiamo il testo.

All’inizio, Manzoni distingue nel popolo in sommossa tre componenti. Gli estremisti, i moderati e la massa priva di direzione. I primi sono coloro che:

… o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura.

E’ facile identificarli nella metafora del presente. Sono quelli che vedono sempre il peggio nei motivi e nelle azioni degli oppressori di turno e promuovono le reazioni più estreme contro di loro. In Italia, oltre alle minacce “in galera”, l’espulsione immediata e la “castrazione chimica”, costoro muovono le ruspe e le motovedette, ma non ancora i carri armati. Ogni fatto negativo, più giova loro quanto più è terribile. Stupri violenti connessi alla droga, corruzione e malgoverno, rapine a mano armata in case private, povertà ‘estrema’, sono altrettante spinte a prendere decisioni sempre più drastiche.

Vi sono poi i moderati, che spingono in senso contrario. Anch’essi non sempre hanno motivi nobili, nonostante il Manzoni, da proto-democristiano, si schieri in ogni caso con loro (“Il cielo li benedica”). In ogni caso non perseguono alti fini, ma sono “…taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci.”

Soltanto tra i motivi degli estremisti, però, compare quello razionale: “per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato”.

Mi si perdoni se nelle due suddivisioni degli estremisti (i fanatici e gli scellerati) mi pare di vedere i due principali attori politici del momento. In entrambi (ma con prevalenza tra i fanatici) non mancano tuttavia coloro che sono spinti dal terzo motivo: “un maledetto gusto del soqquadro”, il disordine per il disordine, la distruzione (creativa?) per sé stessa; direbbe qualcuno: la rivolta come espressione desiderante e liberazione della libido. Per esempio la ‘decrescita felice’ o i movimenti nimby come espressione di un andare contro che prescinde dal configurare le conseguenze pragmatiche dell’azione.

Estremismo e moderazione, quindi, sono in un certo senso tendenze polarizzate, assiologizzate, presenti in ogni moto popolare, in ogni corpo elettorale. Nessuna di queste due parti, comunque, possiede una strategia, ma hanno la capacità di agire secondo un programma narrativo comune che si manifesta nel momento performativo (“In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni.”) Forse chi segue un ‘disegno scellerato’, invece, la strategia ce l’ha, sia pure confusa e incompleta. Comunque sia, questi due poli, pur privi di concerto, possono produrre una performanza razionale. Si tratta di una razionalità per così dire a posteriori, quasi naturalistica, risultato di un attrattore che si manifesta quando la massa è già massa, ma non le preesiste. In effetti, considerando le strategie di formazione delle opinioni che emergono in rete, è vero che il grosso del lavoro è oggi la costruzione della massa-rete (individui in contatto indiretto, solo virtuale), e solo successivamente, attraverso l’analisi dei ‘big data’, la si dirige verso obiettivi comuni. Obiettivi che non interessano a chi fa da polo di raccolta del consenso, in quanto non si mira veramente a raggiungere qualcosa, ma solo alla manipolazione della massa. Continuiamo a stupirci dell’inconsistenza dei programmi populisti, che cambiano, si contraddicono, si mescolano e si cancellano continuamente, diffondendo effetti che spesso vanno in direzioni contrapposte, che poi vengono negati e alterati con dichiarazioni del tutto false, ma l’obiettivo del manipolatore populista è solo mantenere il proprio potere manipolatorio il più a lungo possibile. I suoi obiettivi sono vaghi, si può dire che sia un raccoglitore di ciò che capita a tiro, un nomade che non si cura di ciò che lascia alle spalle1.

Il moderato, a sua volta, vive in un certo senso di riflesso, per reazione a un moto del quale comincia a temere le conseguenze, a confrontarle con i limiti che la sua morale o il timore per la sua sicurezza gli impongono. Come tante volte si è detto, purtroppo la dinamica stessa dei moti, e ancor più delle rivoluzioni, porta alla progressiva estremizzazione, almeno finché non intervengono accadimenti traumatici, in presenza dei quali le due opzioni, estremismo e moderazione, ogni volta si contrappongono. Fino alla immancabile controrivoluzione o restaurazione che pone fine alla sovversione stessa.

In mezzo tra estremisti e moderati, e questo è il punto più interessante, sta però quella componente senza la quale la rivolta non può manifestarsi in tutta la sua potenza: “la massa, e quasi il materiale del tumulto”. Essa viene introdotta come “un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo”. Questi sono, si direbbe in un’elezione, gli ‘swinging voters’, i soggetti che pencolano di qua e di là, gli indecisi, i non convinti, dunque convincibili. Questa massa, oggi, costituisce il corpo sociale della modernità liquida, che si può plasmare in una o un’altra forma, ed è il vero obiettivo da conquistare per chi è (in qualsiasi modo) teso verso la rivolta o verso un almeno momentaneo freno.

E Manzoni, con la consueta precisione, ce ne propone una sintetica tipologia:

un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro.

Il passo appare mirabilmente adatto a descrivere l’elettore medio dei partiti populisti, ma anche l’italiano modello dei media nazionali, sia pure con minore precisione. La locuzione “qualcheduna grossa”, “qualche cosa grossa”, nel senso di ‘grande’ ma anche di ‘rozza’, dipinge molto bene quel desiderio di scoprire il grande complotto che tutto spiegherà e infliggere alla classe dominante la grande punizione che tutto sistemerà, finalmente, in una visione semplice, che in realtà è (appunto) semplicistica, rozza. News truculente e pietistiche si alternano nei media a stimolare in modo oscillante, appunto, ferocia e misericordia. Quello che si persegue in entrambe è un sentimento da “provar con pienezza”, proprio perché al popolo, se qualcosa manca, è proprio il comprendere pienamente un mondo che è troppo complesso per le categorie che possiede, e, giustapponendo sempre pro e contro, è come se soffocasse l’infantile naturale anelo a uno sfogo pieno dell’emozione2.

Le due anime e il corpo liquido

Emerge nel brano manzoniano un altro tratto che risuona con la sfera mediatica di questi mesi: l’opposizione tra politica e mercato e l’ingenuità dei seguaci del populismo.

La ragione del tumulto di San Martino, infatti, è di per sé rivelatrice dell’ignoranza popolare: il gran cancelliere Ferrer, nel tentativo di calmare le tensioni sociali legate alla penuria di pane, fissa un calmiere, che però è talmente basso da costringere i fornai a lavorare in perdita; insomma, è fuori mercato e non può durare. Tuttavia, viene interpretato dal popolo come la prova che la penuria era una finzione architettata ad arte e che finalmente è arrivata l’abbondanza. Quando, a fronte del rischio che i forni chiudano, il calmiere viene ritirato (e inevitabilmente si torna all’austerity, diremmo oggi), ecco che il popolo è ormai convinto di essere stato preso per i fondelli dai potenti, e si ribella. La massa ribelle è però oscillante, può essere spinta da una posizione all’altra con il minimo sforzo, anche se si tratta di posizioni antitetiche:

Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato?

Dell’Italia di questi anni, tanti sono gli esempi di chi è stato portato in trionfo e poco dopo proposto per lo squartamento, da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Bossi. Ma colpisce l’elenco di posizioni, che non possono non ricordare a chi pratica un po’ di semiotica il modello attanziale o comunque le funzioni di Propp: attori VS spettatori; strumenti VS ostacoli. E’ quasi letterale. Queste banderuole che sono gli individui formanti la massa, non mutano solo le proprie idee: mutano le loro stesse funzioni. Fino a perdere il proprio ruolo attanziale. Stare zitti, finirla, sbandarsi e tornare a casa e infine il grado zero della narratività: “cos’è stato?” Da scrittore con men che 25 lettori, questo passaggio al discorso diretto lo trovo magnifico. “Cos’è stato?” Come dire “Io non c’ero, e se c’ero, dormivo”. E questa notazione è assolutamente umana. Mi ricorda i giorni dopo l’11 e 12 marzo 1977, quando partecipai a due manifestazioni, a Bologna e a Roma, entrambe trasformatesi in scontri tra partecipanti e forze dell’ordine, dopo le quali, rintronato come dopo una battaglia (dalla quale non erano state molto diverse) mi ritrovai a casa, dove, ovviamente, quei fatti erano solo pochi minuti di notizie nei telegiornali. Ecco, non era successo quasi niente. Credo che questo sia ciò che prova sempre l’individuo coinvolto in drammi di massa, nei quali vive emozioni fortissime, ma che, svanita l’emozione, sembrano quasi non essere mai accaduti, soprattutto quando non hanno conseguenze sulla vita quotidiana. Una massa così mobile è per ciascuno dei due partiti l’oggetto della contesa:

Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere.

Che cosa sono le anime nemiche, nel panorama dei conflitti tra manipolatori mediatici? Sono quei sistemi di credenze, quelle costellazioni di valori, quelle sequenze argomentative, che si installano nel nostro cervello e ci fanno propendere per l’una o l’altra parte. Manzoni probabilmente usa la metafora delle due anime in chiave di possessione demoniaca, ma oggi possiamo vederla in un’ottica di diffusione di contenuti virali, o meglio ancora di iniezione di valori.

Effettivamente, le opinioni e gli stili di vita sono sempre più spesso rappresentati come un dispositivo che si installa in un involucro vuoto. L’uomo liquido si apre a macchine semiotiche che lo orientano di qua o di là, lo possiedono temporaneamente. Il comando che lo apre è come quello della caverna di Alì Babà: per chi ce l’ha è semplice e efficace. Tuttavia,così come si fa possedere da un sistema di valori, allo stesso modo può sostituirlo con un altro, pur che abbia la password. Password che può essere un banale lavoro, per chi ha come prospettiva solo la disoccupazione, o l’adesione a un partito o movimento o altro gruppo che offra a chi è solo un riconoscimento sociale, o l’illusione di una ‘cosa grossa’ che presto arriverà, o magari un po’ di denaro da spendere.

Strategie di manipolazione

Il brano chiude con la spiegazione dei mezzi con i quali le due parti operano. Mezzi speculari, miranti a esiti opposti, ma tutti fraudolenti. Non è contemplata, in Manzoni, la possibilità che vi sia un programma d’azione razionale e legittimo, vi è solo propaganda e manipolazione dissimulata:

Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.

Le speranze e i terrori (l’industria della paura di Bauman), le voci atte a spargere passioni, a dirigere i movimenti: le fake news, l’uso strategico dei social, le montature mediatiche, le strategie del marketing più subdolo. Il testo è molto valido in termini di teoria dei feed back mediatici: il grido, il messaggio, allo stesso tempo esprime, attesta e crea la tendenza della maggioranza. Vale a dire che proviene da essa, ne fa testimonianza, e ritorna su di essa creando (rinforzando) lo stesso valore che era stato generato. Siamo al nucleo della strategia comunicazionale del populismo, che lo distingue dalle ideologie del ‘900: non si tratta più di inculcare idee nella massa, o di aprirle gli occhi sulla propria condizione di sfruttatamento, ma di raccogliere le sue stesse pulsioni, quali esse siano, rinforzarle, dare loro lo ‘spin’ voluto e re-iniettarle in essa per un nuovo ciclo.

Manzoni non dice, e forse non crede, ma, chissà, possiamo pensare che invece lo abbia pensato, di aver enunciato una meccanica della manipolazione delle opinioni. Due minoranze opposte (estremisti VS moderati), spinte verso oggetti di valore opposti da motivazioni sia razionali sia irrazionali e inconsce, danno vita a un gioco strategico conflittuale volto al controllo della maggioranza oscillante, priva di un programma narrativo, ma attirata da passioni contrastanti, ognuna delle quali può essere abbandonata per il suo opposto. Attori meccanici, tutti ciechi, o almeno miopi. Curioso, non si accenna a interventi della Provvidenza, pare il retaggio di una visione illuminista.

Resta però una domanda importante: perché la maggioranza non discrimina tra valori così diversi come estremismo e moderazione? A questo Manzoni non risponde, se non che ricercano l’occasione per provare l’uno o l’altro sentimento: detestare o adorare. Prevale l’iperonimo: provare una passione forte, qualunque essa sia. Ci ritroviamo il mondo d’oggi? Direi di sì. La stessa massa può recarsi a un concerto per adorare una pop star e a una manifestazione politica dedicata al ‘vaffanculo’, nella quale si detestano in coro i politici. Qui però si manifesta un accostamento improprio del testo manzoniano: l’adorazione non è certo moderazione. E’ solo un fanatismo unitivo di contro a un altro oppositivo.

Restando nei paraggi del testo citato (non ho la possibilità di estendere l’indagine a tutto il romanzo) cerchiamo altri elementi utili all’indagine.

Nel racconto, i moderati compaiono distinguendosi dagli estremisti, ma comunque in seno alla massa ribelle o che alla ribellione fa contorno. Renzo però è uno di essi, e la sua trasformazione può essere utile. All’inizio della scena dell’assalto alla casa del vicario, Renzo è un moderato. Al punto che rischia di essere assalito dai facinorosi (i fanatici), quando apostrofa “il vecchio mal vissuto” che propone di uccidere il vicario. E’ attratto e incuriosito dalla rivolta, ha le tasche piene di pane proveniente dal saccheggio, quindi è in parte congiunto con la sommossa, sia pure in modalità ‘liquida’, ma rifugge dalla violenza contro le persone e dall’omicidio. Manifesta il ‘timor di Dio’, che lo caratterizza per tutta l’opera. All’arrivo di Ferrer in carrozza, in Renzo si opera una trasformazione: diventa attivo, si schiera con coloro che difendono e esaltano il cancelliere per il calmiere del pane. E’ un riformista, negli anni ‘70 si sarebbe detto socialdemocratico. La sua conversione, però, è quasi casuale. I sostenitori di Ferrer sono populisti giustizialisti: infatti sono due i motivi che portano a giustificazione del loro sostegno al cancelliere: il calmiere e la speranza (spacciata dall’astuzia di Ferrer per certezza) che egli viene per portare in carcere il vicario. E Renzo, ricordandosi che aveva sentito leggere “vidit Ferrer” da Azzeccagarbugli, in calce ad alcune grida, ed avendo ricevuto rassicurazione che si tratta di un galantuomo (“È un galantuomo, n’è vero?” “Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.”), subito si schiera con i fan del funzionario spagnolo.

Le motivazioni della scelta di Renzo sono dunque entrambe basate su fake news (il calmiere non è stato dettato a Ferrer da considerazioni di tipo morale o sociale ma solo da problemi di ordine pubblico, e non ha nessuna intenzione di portare in carcere il vicario) e la firma delle grida è un segno di distinzione legato al rango del personaggio e non a una sua posizione etica. Tuttavia, il promesso di Lucia è dalla parte dei meno violenti, e quindi per Manzoni è massa ‘buona’. L’autore modello, qui come altrove nel romanzo, non riesce a celare (da buon protodemocristiano) l’opinione che ciò che conta è tenere calme le classi inferiori, non dire loro come stanno le cose. E dunque, l’equivalenza, l’assiologia estremisti VS moderati, scelte ugualmente cieche (anzi, abbiamo visto che gli estremisti sono gli unici ad avere dei disegni, dei propositi) tra le quale la massa ignorante oscilla per motivi aleatori, propende verso il polo moderato, ma non nel comportamento della massa, bensì solo nella visione dell’autore modello.

Se vogliamo avanzare un’ipotesi, possiamo basarla sui due attori che impersonano la moderazione e l’estremismo, e che sono gli unici della folla ad avere fattezze figurative. Renzo da una parte e il ‘vecchio malvissuto’ dall’altra. E la discriminazione tra le due posizioni pare derivare da una causa più remota ma non per questo meno aleatoria: se il vecchio è vissuto male (si potrebbe dire che è stato plasmato malamente dalla società), Renzo è vissuto bene, è un bravo ragazzo. Tuttavia, la causa che determina il loro valore etico si sposta solo a monte, non viene spiegata. Resta esterna alla ragione del soggetto. In Manzoni, d’altra parte, il libero arbitrio è sempre affermato, così come vuole la religione cattolica, ma le vicende della vita esercitano spinte alle quali non sempre è facile opporsi, come nei racconti di Fra Cristoforo, della monaca di Monza e dell’Innominato.

Adorare infine è meglio che detestare, la moderazione è meglio dell’estremismo, anche se entrambi i comportamenti sono derivati da ideologie strumentali, guidati da impulsi inconsci. Vi è un naturalismo di fondo che muove i personaggi manzoniani, probabilmente intrinseco alla forma romanzo così come nasce in occidente.

Il naturalismo, come si è visto, si associa a un certo meccanicismo. La folla, la società, si muove come una grande macchina, un sistema, potremmo dire, nel quale la visione complessiva è negata al singolo, o almeno a chi fa parte della massa3. Tornando alla metafora che associa questo testo al presente, se la sviluppiamo fino a conclusione, ne risulta un misto di cinismo e civismo (Lacan trarrebbe forse un senso dalla somiglianza dei significanti).

Da una parte il populismo si rivela una narrazione effimera e perdente, capace solo di agitare la massa ma senza poterla soddisfare per la propria fallacia pragmatica e logica (l’abbondanza è illusoria, è solo una finzione, le regole del mercato e i poteri della classe dominante prevalgono). Ma dall’altra la moderazione è una narrazione consolatoria, qualcosa che si promuove per tenere buono il popolo. Il cinismo è nel dire che ciò che si può scegliere è solo se oscillare drammaticamente tra abbondanza e carestia (le elargizioni populiste e i conseguenti dissesti) o assestarsi su una inevitabile polarizzazione sociale (il controllo degli eccessi popolari). Il civismo è nel riconoscere che, tra le due scelte, la seconda è meno violenta, meno gravida di odio e rancore e più capace di migliorare lo stato delle cose. E forse (anche se questo non so se Manzoni lo ritenesse importante) anche di ridurre le menzogne che vengono usate per dirigere il popolo.

1 In questo credo che il populismo vada distinto dal totalitarismo in quanto il secondo ha obiettivi chiari, anche se spesso non espliciti, e un modello di società ideale. Il primo ovviamente può trasformarsi nel secondo, e il secondo possiede spesso caratteristiche del primo, sia pure non dominanti.

2 Sarebbe interessante su questo punto un’analisi dell’atteggiamento del populismo verso i numeri. L’ipotesi è che nel linguaggio populista i numeri siano accettati solo quando sono magnificatori del potere del soggetto (“Cacceremo mezzo milione di immigrati” https://www.huffingtonpost.it/2018/01/23/salvini-cacceremo-mezzo-milione-di-immigrati_a_23340743/ Ci sono tot miliardi per i vari programmi del governo https://www.nextquotidiano.it/di-maio-soldi-tria/. Quando i numeri sono invece intesi come misure precise di qualcosa, ecco che vengono sminuiti, e i miliardi vengono espressi, quasi come se fosse un diminutivo, come decimali (https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13404099/manovra-salvini-di-maio-aprono-su-deficit-con-europa-non-e-questione-decimali.html). In ogni caso, i numeri vengono destituiti della loro funzione di misura quantitativa, e diventano meri operatori retorici. Questa operazione rientra nel quadro più generale della comunicazione populista, che mira sempre a distaccare il discorso dall’esperienza, a usarlo non come mezzo per conoscerla e rappresentarla, bensì come strumento per manipolarla e nasconderla.

3 In generale, si vedano soprattutto le descrizioni storiche delle guerre e della peste, Manzoni non assegna mai a un personaggio la visione lucida e completa di una situazione, delle sue cause e dei suoi effetti. Ognuno si muove seguendo i propri obiettivi e principi, quali più egoistici e terreni, quali più nobili e santi, ma nessuno possiede l’onniscienza eroica che si trova in altri romanzi dell’ottocento.

Da Andreotti a Di Maio: la comunicazione politica ieri e oggi

Farà sicuramente parte degli abiti acquisiti dai semiotici quello di vedere opposizioni ovunque, dunque qualche volta anche sforzate, ma quella che mi balza agli occhi in queste settimane in cui in Italia si cerca di formare un governo mi pare solare.

Penso infatti al contrasto tra le trattative della cosiddetta Prima Repubblica e quelle attuali, per come si relazionano con i media e per le logiche argomentative e i contratti di veridizione che prevalgono.

Ieri

1. Un tempo le trattative erano quasi segrete, a volte segrete per davvero; i comunicati dei partiti erano stesi in un linguaggio oscuro che veniva interpretato dagli specialisti. Nessun segretario di partito si sarebbe mai spinto a fare la profferta di un’alleanza in televisione o su un giornale. Le trattative avvenivano privatamente, e solo a contratto stipulato si facevano dichiarazioni alla stampa. Il resto era ammantato dal mistero e oggetto di ipotesi, congetture, rivelazioni più o meno attendibili.

2. Quanto alle logiche, vi era una larga porzione di implicito che non veniva neppure sollevato, ma che era assodato. Si trattava di una cultura nella quale si riteneva sconveniente anche la semplice sottolineatura dei rapporti forza. I segretari della DC e del PCI non si sarebbero mai autodefiniti ‘capo politico’ o ‘leader’. Queste ostentazioni sarebbero apparse ridicole. Il segretario era eletto dal congresso del partito, e rispondeva regolarmente agli organi dirigenti. Il PCI, per tradizione, aveva segreterie di ferro, in diversi casi interrotte solo dalla morte, ma mai e poi mai un comunista si sarebbe arrogato la definizione di ‘leader’ o ‘capo’. Inoltre, nessuno si sarebbe mai permesso di definirsi ‘candidato premier’. La Costituzione era data per nota. L’Italia era (ed è) una repubblica parlamentare, e il presidente del Consiglio dei ministri non viene eletto direttamente. Allo stesso modo, le dimensioni della rappresentanza erano note e per questo taciute. Mai un democristiano aveva bisogno di dire “Siamo il primo partito italiano”. Lo sapevano tutti, come sapevano che era il partito di maggioranza relativa, che non avrebbe mai potuto governare da solo.

3. Altro punto erano la posizioni esplicitate. Si trattava ancora di una cultura nella quale la parola ufficiale di un dirigente di partito, esprimente una posizione a volte faticosamente raggiunta dopo discussioni e mediazioni interne, aveva comunque una sua solidità. Anche perché nessun leader era un capo assoluto, neppure nel PCI o nel MSI, ufficialmente i partiti con riferimenti ideologici più autoritari. Non parliamo della DC, divisa in innumerevoli correnti e sempre attraversata dal farsi e disfarsi di alleanze e consorterie.

Diciamo che c’era una decisa divisione tra uno spazio privato, interno, che era quello degli organi dirigenziali dei partiti, e lo spazio pubblico, da una parte dei congressi, e dall’altra delle istituzioni.

Questo era dovuto anche a un sistema mediatico molto più ridotto (due-tre reti TV generaliste pubbliche, e poi pian piano le TV Mediaset, a partire dagli anni ‘80), niente internet, le prime radio private in FM. Quotidiani e settimanali erano più o meno come ora, però più autorevoli. I quotidiani di partito erano molto più letti. Tuttavia, non erano i media a manipolare la politica, tutt’al più il contrario. Per dare alcuni esempi, trovate qui sotto tre testi tratti da trasmissioni politiche RAI. Appare abbastanza evidente come il discorso dei politici sia più o meno di tipo parlamentare o comiziale, sommesso, controllato e basato sul registro verbale. Si noti che Aldo Moro addirittura legge il suo discorso, cosa oggi inconcepibile. A parte le osservazioni vane su come cambiano i tempi, leggere un testo scritto implica che lo sia sia scritto, dunque ponderato e corretto. Implica una riflessione. Le dichiarazioni twittate o dette a una videocamera, di poche parole e senza preparazione apparente, non per questo non possono essere preparate e persino discusse, ma l’effetto è di enunciazioni rapide, improvvisate, sparate sul momento.

Oggi

Oggi, in seguito a un processo di progressiva trasposizione della politica sui media, in particolare la TV generalista e internet, i tre punti sopra elencati si sono rovesciati, e lo si evidenzia chiaramente dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018.

1. Le trattative segrete sono ovviamente sempre praticate, ma vengono spesso anticipate da dichiarazioni pubbliche, o interviste, a volte estremamente dettagliate. Vi è una specie di esibizionismo comunicativo, del quale spesso si è parlato a proposito dei reality show. Si tratta di un impulso socio-psicologico che si contrappone al pudore e alla privacy e che i nuovi media hanno riportato alla luce. D’altra parte, si può supporre che l’eccesso di rappresentazione sia per i leader anche un modo di scrivere le loro affermazioni in una sorta di registro mediatico, proprio perché si trovano ad agire in un ambiente molto più insicuro di quanto appare. La tendenza a formare partiti personali, e a dare loro l’aspetto di organizzazioni verticistiche, nelle quali vige il Führerprinzip, è di fatto mera apparenza. In ogni organizzazione politica, in particolare quando una parte dei membri è eletta dal popolo, sono ovviamente necessarie mediazioni. Questo è ancor più vero per le coalizioni, che si reggono su contratti fiduciari. Ma soprattutto, la caduta delle fedeltà ideologiche consente spostamenti intra e inter-partito, scissioni, cambi di gabbana, smentite e ribellioni quasi incontrollabili. L’espulsione dal partito, un tempo pena ignominiosa, oggi fa ridere. Al punto che formazioni come i 5stelle hanno introdotto ammende monetarie (non propriamente costituzionali, probabilmente) per assicurare la disciplina di partito. Le esternazioni mediatiche, riservate al leader a causa del personalismo dei media visuali, rappresentano anche un modo per fermare dei punti prima e indipendentemente dal confronto interno.

2. Le argomentazioni mediatiche oggi adottate sono anch’esse molto diverse dal passato. Oggi i rapporti di forza sono da una parte continuamente ribaditi (“Siamo il primo partito”, “Abbiamo avuto 11 milioni di voti”; “Siamo la prima coalizione”, “Abbiamo il maggior numero di elettori”, “Abbiamo perso” “Siamo all’opposizione”), dall’altra appaiono svanire quando si viene ai fatti.

I ragionamenti che giustificano le scelte tattiche (quelle strategiche sono assai incerte) sono assenti, i leader o capi non motivano le loro decisioni. Le trattative tendono ad essere presentate come “contratto”, “punti del programma”, e predominano semplificazioni del tipo “fare cose buone”, “fare il bene del Paese”, che in sostanza non hanno alcun significato pratico.

Se il quadro del passato era quello di un sistema chiuso dentro le mura dei partiti, soggetti impenetrabili e impermeabili, quello di oggi appare un sistema in cui modelli ultra-semplificati vengono continuamente ri-enunciati, ribaditi, ma la forza dell’enunciazione maschera un grande vuoto dell’enunciato. Fuori dal gergo semiotico, si parla a voce alta ma non si dice niente. Se la retorica della Prima Repubblica era quella di una classe politica consociata e imbalsamata ma fermamente al potere, a fronte di un’opposizione che non poteva governare, quella di oggi appare come un’esibizione rituale di forza animalesca priva di efficacia.

3. Per quanto riguarda le logiche dei contenuti politici, la situazione attuale è in apparenza quella di perdita di coerenza e di una cancellazione delle norme di comportamento codificate. A parte le espressioni (come invitare gli avversari politici a “pulire i cessi”, impensabili anche nelle più accese tribune politiche), le alleanze e gli impegni sembrano non creare vincoli e le promesse nascere già destinate ad essere infrante. Si può invitare apertamente un partito a rompere un’alleanza, si può cambiare un programma anche nei suoi punti più significativi, si può pretendere apertamente la presidenza del Consiglio in assenza di qualsiasi supporto costituzionale, si può dire il contrario di quanto si è detto il giorno prima, si possono dichiarare trattative chiuse per sempre e riaprirle il giorno dopo. Si può proporre apertamente al Presidente della Repubblica di ricevere un incarico per presentare un governo alle Camere, sapendo di non avere la fiducia ma per gestire il periodo pre-elettorale. Questo sistema genera un effetto generale di fuzzyness, le posizioni politiche diventano sempre più nebulose, prive di un profilo preciso, ai leader restano solo una voce e una faccia, ma progressivamente si svuotano di sostanza. Nella (cosiddetta) prima repubblica, i programmi di governo erano vaghi, ma i principi generali erano granitici (per esempio, la DC era per la NATO e con gli USA, il PCI era per l’URSS e anti-atlantico) e le promesse clientelari (stipulate sottobanco o quasi) generalmente rispettate. Lo Stato era occupato da una maggioranza eterna che si poteva permettere anche azioni illegali, quando giustificate dalla ragion di stato.

Ora pare che né i principi né le promesse abbiano consistenza. I contenuti dell’agenda politica si manifestano emergendo senza preparazione né preavviso e le decisioni sembrano venir prese in una quasi totale dipendenza dalla circostanza del momento.

Conclusione

In generale, considerando l’esistenza della Repubblica Italiana di circa settant’anni, si può tracciare una demarcazione tra un primo periodo nel quale la sicurezza atlantica è stato il punto fermo e imposto dal controllo internazionale, e un secondo periodo nel quale la sfera di appartenenza prioritaria è diventata quella europea, ma il vincolo non è stato imposto in modo così deciso. Il primo periodo ha avuto il suo momento di crisi nel 1978, con il PCI a un passo dal governo, sventato dall’avvento di Craxi e dall’operazione Moro. Il secondo ha il suo momento critico nel 2018, in questi mesi, con i partiti populisti anti-europei sulla soglia di Palazzo Chigi. Gli attori in causa e i metodi non possono più essere gli stessi, e le decisioni non vengono prese sulla base di equilibri geopolitici da apparati civili/militari. Ora sono i soggetti finanziari, già intervenuti nel 2001 in una situazione simile, quelli che possono prendere l’iniziativa. I prossimi mesi ci diranno cosa accadrà. I lettori considerino però che il distacco dell’Europa dalle vicende italiane spesso è solo apparente, e raramente disinteressato. L’Italia fu fortemente sollecitata dagli altri stati europei, prima ad entrare nel sistema monetario e poi nell’Euro, per evitare che il suo sistema industriale si avvantaggiasse di una valuta più debole. Ora il problema è superato in quanto il nostro sistema industriale è stato decisamente ridimensionato, ma è impensabile che i partner europei non siano consapevoli della perdita di PIL italiano nei loro confronti (dal 2000 è stata del 23,6% vedi), vale a dire del vantaggio competitivo che hanno acquisito. Il governo francese si sta dolorosamente preparando alla fine del Quantitative Easing, l’Italia è ferma, immobile, addirittura a rischio di governi che dichiarano di voler accrescere la spesa pubblica. Aspettare ancora a sollevare a Bruxelles il tema della guerra economica interna alla UE e della necessità di limitarla è sempre più pericoloso.

Questi punti sono poco più che ipotesi, che andrebbero verificate con una ricerca più solida. Possono essere utili per avere un quadro più ampio del presente e una conoscenza più approfondita del passato.

Alcuni link, reperiti con una prima selezione:

https://www.youtube.com/watch?v=W-YQmv9hWM4 (Berlinguer 1972)

https://www.youtube.com/watch?v=2S8OrXwYIN0 (Almirante 1975)

https://www.youtube.com/watch?v=fB-W9GNVe_o (Moro 1976)

https://www.youtube.com/watch?v=thHL4_EIQGA (Di Maio 6/5/2018) (Annunziata)

Il centrodestra propone di andare in Parlamento senza un accordo: http://www.la7.it/laria-che-tira/video/matteo-salvini-in-diretta-dal-quirinale-conto-di-trovare-una-maggioranza-07-05-2018-240940

Il filosofo dell’inventiva. Il mio Mab a puntate (1, 2)

Prima puntata. Domenica 4 marzo 2018

In questi giorni sto riscrivendo, in forma di saggio, il testo che avevo preparato per una relazione orale. Più volte ho stampato il mio testo, correggendolo e variandolo. È una procedura comune a molti di noi, nulla di speciale. Eppure, in questo caso c’è qualcosa di nuovo. In questo lavoro non mi sento solo, è come se accanto a me ci fosse il Mab, che mi suggerisce di mettere o togliere una virgola, che mi consiglia dove è meglio usare i due punti, che mi ricorda di controllare i riferimenti bibliografici. Quando annoto correzioni o aggiungo integrazioni sui colonnini laterali del foglio, non sembra la mia mano a scrivere, ma la sua: quella del Bonfa.

Mab e Bonfa erano i due modi in cui chiamavamo Massimo Bonfantini. Il secondo nomignolo era ironico; del primo andava fiero. Tanto che compare nel sottotitolo del suo vero ultimo libro, una raccolta di poesie (Musement. Il canzoniere di Mab). Mab come acronimo: Massimo A. Bonfantini, dove la A. sta per Achille.

Ma non è di questo che voglio qui parlare. Solo del fatto che la presenza del Mab è stata per me talmente intensa, dal 1996 fino a settimana scorsa, che la sua ormai definitiva assenza produce strani effetti. Non è stato il mio professore ai tempi dell’università. Nei locali del Dams lo incrociai solo una volta; poi lo incontrai a casa sua a Milano, nell’estate del 1979, in una stanza dove non c’erano altro che libri, lui in pantaloncini corti, come un adolescente un po’ troppo “corposo”. Aveva 37 anni, i modi dello studioso serissimo e impegnato, uno che si vedeva che aveva fatto la Statale, eppure di grande disponibilità. Ero andato a trovarlo su indicazione di Eco, a chiedergli le fotocopie del capitolo sui grafi esistenziali di Peirce, perché – diceva Eco – potevano servirmi per la tesi. In effetti, quella lettura mi fece capire che io di Peirce non mi sarei mai occupato: nemmeno riuscii a capire perché quei grafi si chiamassero “esistenziali”. Eppure, io sono un appassionato di scritture visuali, di diagrammi e di grafi.

Massimo mi diede le fotocopie, che aveva già preparato, e mi chiese a che cosa mi servissero. Non ricordo la conversazione che ne seguì. Forse mi fece una lezione seduta stante, come suo solito, forse non disse nulla perché non capiva a che cosa davvero mi servisse quell’anticipo di traduzione (Peirce e la poesia visiva?), forse mi offrì un succo di frutta.

Lo rividi più di dieci anni dopo, nel 1991, quando lo invitai a tenere tre lezioni di semiotica per un corso di aggiornamento all’Istituto d’Arte di Monza, dove insegnavo. In effetti, in prima battuta, non avevo pensato a lui, ma a una giovane e promettente ricercatrice del Dams. Poi il caso volle che, per un contrattempo dell’ultimo momento, la ricercatrice del Dams si rese indisponibile, ma io non potevo fare brutta figura con i miei colleghi. Così mi ricordai che Massimo abitava a due fermate di tram da casa mia. Ma abitava ancora a Milano? Sì, anche se insegnava a Napoli. Sarebbe stato disponibile a sprecare tre pomeriggi per noi? Lo era, già al telefono mi disse subito di sì. La sua vocazione di intellettuale militante lo rendeva disponibile a qualsiasi impegno, anche in una sperduta scuola di provincia.

In quell’occasione mi regalò i primi due volumi del Club Psòmega: La forma dell’inventiva (1986) e Il pensiero inventivo (1988). In mezzo il suo la semiosi e l’abduzione (1987), che avevo già da tempo comprato per conto mio.

Cinque anno dopo, nel 1996, è lui che mi telefona, per avermi come cultore della materia al Politecnico di Milano, nel nuovo corso di laurea in Disegno industriale.

Da quel momento in poi, e fino al 19 febbraio scorso, ci siamo visti quasi tutte le settimane. Dapprima nel suo primo ufficio al Poli: uno scantinato polveroso pieno di vecchi faldoni e carta straccia; poi anche a casa sua (anche se c’erano da correggere pochi esercizi degli studenti lui mi bloccava per tutta la sera, cena compresa); alle volte nel mio ufficio grafico-editoriale, dove gli piaceva stare come se fosse alla Bompiani.

Massimo aveva sempre un programma davanti a sé. Gli inviti di Psòmega, i libri da pubblicare, le lezioni da preparare, un viaggio da organizzare. Mi accoglieva sempre con un foglietto scritto a mano: la scaletta, diceva lui. L’ordine del giorno, dicevo io. Punto per punto sbrigavamo sempre tutto. A volte erano faccende che avremmo potuto sbrigare con una telefonata, di dieci minuti, ma lui voleva sempre qualcuno davanti a sé.

Così, dallo scantinato al tinello della sua ultima abitazione, oltre alla semiotica, alla sua semiotica neopeirceana (così amava chiamarla), che imparai soprattutto ascoltandolo nei suoi chilometrici “monodialoghi”, a unirci sono sempre state queste due parole: inventiva e progetto. Parole e princìpi regolatori, che serpeggiavano anche quando si parlava di politica e di storia (le sue grandi passioni), di gialli e di ciclismo (i suoi maggiori divertimenti), di vino e di giornali (i suoi soliti vizi).

“Monodialogo” è un termine che escogitai io, ma non ho mai avuto il coraggio di diglielo. Lui teorizzava la dialogicità, come base di ogni forma di comunicazione e come strumento della conoscenza. Però poi parlava sempre e (quasi) solo lui, anche se non poteva prescindere da un interlocutore. L’interlocutore era il suo specchio: Massimo dava spesso l’idea di essere uno che pensava parlando, o che usava il parlare per rafforzare, verificare, chiarificare il proprio pensiero.

Ma torniamo alla storia iniziata nello scantinato del Poli, dove si ricevevano gli studenti e si svolgevano gli esami. A me fu subito chiaro che la triade semiotica-inventiva-progetto era ciò che da tempo cercavo e che la mia mente distratta non aveva ancora saputo trovare. Perché il pensiero semiotico produce inventiva e l’inventiva dà corso a ogni progetto. E perché ogni progetto è un atto semiotico. O meglio: semiosico.

Il Mab che ho conosciuto io, e che andrei volentieri ancora a incontrare ogni settimana in qualche osteria dell’Ade, è soprattutto questo: il filosofo dell’inventiva.

 

Seconda puntata. Giovedì 15 marzo 2018

Ora sono in viaggio per Napoli. In treno preparo una lezione che terrò domani al Dottorato di Architettura: Abduzione e progetto.

Sabato scorso sono stato quasi tutto il giorno a casa sua, insieme ai figli Bertrando e Carlo. Ho iniziato a mettere occhi e naso dentro i grossi faldoni di cartone del suo archivio. Ne ho guardati solo un terzo. In quei faldoni – e in una quindicina di quaderni “cinesi” – è registrata tutta la vita intellettuale di Massimo. Con un po’ di pazienza, sarebbe possibile stilare una cronistoria di ogni sua attività di studioso e organizzatore, come diceva lui: schede di lettura dai tempi della Statale, articoli per ogni tipo di rivista e giornale, programmi e locandine di conferenze, lezioni. E soprattutto il Club Psòmega.

In alcuni faldoni ho trovato diverse copie di diversi estratti di suoi articoli in riviste e libri. E altri opuscoli. Ecco, mi viene da promettere, sarà bene stilare una sua bibliografia, seguire le tracce dei diversi contributi che Massimo ha lasciato. E mi viene in mente che, a dire il vero, Massimo ha scritto un’infinità di articoli, saggi, interventi, per diverse occasioni, ma pochi libri. Non raggiungono forse la decina i volumi che lo vedono come autore unico, ma sono più di cento i libri (e i “libretti”) da lui curati o scritti insieme ad altri. Massimo era un disseminatore, più che un autore. Era decisamente egotista, come con ironica sincerità si definiva, ma il suo ego doveva sempre stare in mezzo a un consesso dialogico. Non cercava il successo editoriale, ma non mancava di scrivere per ogni occasione che gli si presentava e di coinvolgere anche l’ultimo arrivato nei suoi progetti.

Torniamo ai faldoni. In uno di questi trovo un opuscolo del 1992, un quaderno della Facoltà di Architettura di Napoli, Scuola di specializzazione in Disegno industriale. Ma non dell’Orientale, dove ai tempi Massimo insegnava, della Federico II, dove io sono ora diretto e dove domani terrò la mia lezione. In questo quaderno c’è un articolo di Massimo: L’abduzione architettonica. Insomma, mi viene da notare, ventisei anni dopo il destino mi mette ancora sulle sue tracce. E l’abduzione inventiva è il filo che ci tiene ancora insieme.

Poi leggo il suo intervento. Si tratta la riscrittura di una conferenza di un paio di anni prima, un testo scritto “come un discorso parlato”. Leggendo sembra proprio di sentirlo parlare. Del resto, Massimo è del tutto dentro questo testo, soggetto dell’enunciazione che enuncia sé stesso, con tanto di data: «Adesso che sono qui che batto a macchina il testo della conferenza, è il 16 marzo 1989, mi viene in mente che …». Rileggo: sedici marzo. Ma domani è il sedici marzo. No, non penso al quarantesimo anniversario del sequestro Moro, penso che è proprio domani, 16 marzo 2018, che io terrò la lezione sull’abduzione nel progetto architettonico. Il filo è davvero forte.

Sono solo coincidenze, mi dico. E mi ripeto la nota sentenza di John Locke (non il filosofo, quello di Lost): “Non confondere le coincidenze con il destino”. Infatti, va da sé, io non coincido con Massimo, sono sempre state troppe le differenze fra di noi (di gusto, di comportamenti, di interessi); ma forse il caso ha voluto destinarmi verso i luoghi della sua filosofia.

continua…

Nutella e catastrofi

Quando i semiotici discettano di effetti della comunicazione spesso si concentrano sui cosiddetti ‘effetti di senso’, che vengono per lo più intesi come spostamenti o variazioni nel sistema semantico-pragmatico dei valori, o enciclopedia individuale, collettiva, ecc.

Se si parla di costruire brand equity, di valori della marca, in genere si sottolinea come si tratti di processi a lungo termine, di abiti costruiti in anni di comunicazione costante e coerente.

Circola inconsapevolmente un’idea della brand come qualcosa di etereo, astratto, che al massimo viene influenzata dalle varie brand experiences che il consumatore può vivere.

E’ sempre uno shock quando la brand diventa il driver di comportamenti di massa improvvisi e incontrollati. E’ questo il caso di un supersconto sulla Nutella lanciato dalla catena francese, che vedete documentato in questa pagina web di Le Progrèshttp://www.leprogres.fr/loire-42/2018/01/25/la-guerre-pour-du-nutella

Uno sconto promozionale del 70% ha evidentemente rimosso un ostacolo di prezzo che calmierava l’acquisto della famosa crema di nocciole. Nutella è un prodotto a lunga conservazione, e il lotto scontato era ad esaurimento, dunque la congiungimento con l’Oggetto di Valore era, come si usa dire, first come first served. Valeva dunque la pena acquistare diverse confezioni contemporaneamente. Evidentemente Nutella è stata in grado di superare il nazionalismo alimentare dei francesi e si sono scatenate scene drammatiche, documentate anche sul sito della BBC: http://www.bbc.com/news/world-europe-42826028

Di solito riporto sempre casi di questo genere quando insegno comunicazione commerciale, per chiarire che il messaggio di marketing non è necessariamente un oggetto semiotico allusivo e complesso. Non sono solo i raffinati fashion movies di Chanel a muovere il mercato con lente e potenti strategie di brand, ma un semplice volantino stampato a grandi caratteri può mettere in moto ondate di acquisti spasmodici. Sono casi esemplari nei quali una leva, quasi sempre il prezzo, viene applicata con forza (il 70% di sconto) e scatena il potenziale di appeal in questo caso dell’etichetta, non del brand corporate (non sarebbe la stessa cosa con qualsiasi prodotto Ferrero). Ma è sempre la forza della brand che scatena l’energia esplosiva dei comportamenti.

Considerando l’evento da un punto di vista più generale, come fenomeno sociale, è interessante perché ci fa capire quanto sono elevati i potenziali latenti delle marche commerciali. Non sempre siamo in grado di rilevarli perché le relazioni tra prezzo-distribuzione-frequenza di acquisto-potere d’acquisto si situano in una omeostasi controllata e costante. Vale a dire che il consumatore di Nutella la acquista senza dover attuare comportamenti anomali perché ha sempre lo stesso prezzo, la trova in certi punti vendita, la consuma entro parametri normali e può permettersi di comprare la quantità che mediamente usa. Ma sotto i comportamenti regolari scorrono per così dire le correnti libidiche che legano il consumatore al prodotto, e che hanno potenziali molto variabili. Il produttore in qualche modo può inferire quanto una label sia sexy attraverso diversi strumenti di analisi del consumer behaviour, ma questi esperimenti sono sicuramente verifiche significative.

Di qui si potrebbe partire per una analisi semiotica della Nutella, ma preferisco linkare un vecchio film del 1974 di Dušan Makavejev, indicando la sequenza della cioccolata, che inizia a 1.30.33 https://www.youtube.com/watch?v=Ue_0lDD3MpY

In conclusione, è evidente che il consumo di massa rappresenta tuttora un ambito che incanala impulsi solo in apparenza moderati. Aggressività e competizione sembrano essere controllate dalle norme sociali solo superficialmente. In sostanza il regime di ‘abbondanza per tutti’ della società dei consumi non pare da solo capace di garantire una vera assimilazione dei principi di tolleranza e reciproco rispetto, spesso considerati conseguenze naturali del benessere. E’ solo una tregua nell’homo homini lupus,  basata sull’accesso equanime a un vasto insieme di risorse. Sospettare che un restringimento anche minimo di questo accesso, cioè un’ineguaglianza che ecceda una data soglia, possa portare a drammatiche tensioni sociali, non sembra oggi un pensiero così peregrino. Verrebbe da dire che il passaggio da integrazione ad apocalisse è probabilmente descrivibile come una catastrofe. Ovviamente nel senso di Thom (https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_delle_catastrofi).

 

 

Le fake news e il loro ambiente

La UE in armi contro le fake
Mercoledì 17 gennaio 2018 il Parlamento della UE a Strasburgo discuterà in seduta plenaria sull’influenza della propaganda russa nei paesi UE e i suoi supposti tentativi di influenzare le elezioni in alcuni stati membri attraverso l’uso della disinformazione. https://multimedia.europarl.europa.eu/en/russia-influence-of-propaganda-on-eu-countries_I149371-A_a

Non è dunque fuori luogo che il dizionario Collins abbia scelto come ‘parola dell’anno’ del 2017″fake news”, come riporta la BBC (http://www.bbc.com/news/uk-41838386). La definizione del Collins è “informazione falsa, spesso sensazionale, disseminata sotto le spoglie di notizia di stampa (news reporting)”. “L’espressione -continua BBC- è associata con dichiarazioni del Presidente Donald Trump quando se la prendeva con i media”.

L’interesse semiotico per il concetto è evidente: tutto ciò che serve a mentire è affar nostro, secondo la famosa affermazione di Eco. Proviamo allora a riflettere sinteticamente sul fenomeno.

Che la menzogna, abbia le gambe corte o meno, sia cosa antica quanto l’uomo è innegabile. Ci sono però molte categorie di menzogne. Fake news, nello specifico, è messaggio ‘disseminated’, propagato ad arte, non semplice bugia in risposta a domande scomode. Le menzogne diffuse per un disegno, ben preciso o genericamente mirato, sono strumenti che il mentitore adopera per procurare danno agli avversari e vantaggi a sé e la sua parte.

Fake News e Gossip
Non si devono confondere fake news e pettegolezzo. La differenza può sfuggire, perché spesso la fake si maschera da gossip. Vengono rivelati affari privati di persone importanti che (si presume) esse non vorrebbero far sapere. Ma sono falsi. Quando riguarda un personaggio, dunque, la fake è equivalente alla calunnia o diffamazione a mezzo stampa. Assieme alla calunnia, tuttavia, viaggia anche la sorella, l’adulazione, che viene in genere stigmatizzata nelle dittature e nelle democrature, dimenticando i servizi elogiativi su questo o quel politico che compaiono su magazine e siti web di paesi democratici, le raffinate photoshoppature dei manifesti elettorali, le interviste inginocchiate di giornalisti e host televisivi compiacenti.

Calunnia o adulazione, il gossip non è fake news. Esse però lo parassitano, si mascherano con la sua effigie. La diceria in cui consiste il pettegolezzo (sul quale mi permetto di rinviare a “Per una semiotica del gossip”, in Gossip. Moda e modi del voyerismo contemporaneo, BUP 2010) non è fake news, in quanto il valore del pettegolezzo è nella sua autenticità. Il gossip fiorisce proprio quanto più rivela aspetti veri, per quanto spiacevoli, di una società che li cela. Il gossip può a volte essere calunnia, diffamazione, maldicenza, ma non può esserlo sempre o a lungo. Infatti, nel momento in cui l’iniziatore del pettegolezzo mente, la rete dei pettegoli si divide in chi inganna e in chi è ingannato, e se colui che rivende una notizia falsa senza sapere che è falsa viene sbugiardato, rompe il legame di fiducia con il propagante e cessa di ascoltarlo o comunque di propagare le sue notizie. Siccome il gossip si basa sulla diffusione riservata dei messaggi in una rete sociale, la rottura del contratto fiduciario distrugge una porzione della rete. Per questo il pettegolezzo preferisce l’iperbole, la deformazione, alla menzogna tout court. Questo non toglie che porzioni di una rete di gossip possano dedicarsi, per un certo tempo e con un certo numero di complici, alla denigrazione o al mobbing.

Fake News e mass media
Avendo provato a definire come fake e gossip si distinguono e si mescolano, è però necessario allargare l’orizzonte ai media, in quanto le fake sono solo un fenomeno mediatico, mentre il gossip esiste sia nei gruppi sociali sia su media ad esso dedicati.

Le fake news come fenomeno mediatico si rifanno certamente alla propaganda, politica o bellica, definibile come “tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto.” (http://www.treccani.it/enciclopedia/propaganda/). La propaganda, tuttavia, non è necessariamente menzognera, anche se il termine implica comunque “un certo grado di occultamento, manipolazione, selettività rispetto alla verità” (ib.). In situazioni di forte contrapposizione tra parti, come guerre, conflitti sociali e politici o campagne elettorali, l’intensità e la falsità della propaganda tendono ad aumentare, in ossequio al tanto criticato ma altrettanto praticato assioma machiavelliano sul fine e sui mezzi. Durante la prima guerra del Golfo CNN produsse probabilmente notizie del tutto false (https://www.youtube.com/watch?v=jTWY14eyMFg), ma praticamente tutte le guerre sono accompagnate dalla propaganda. Allo stesso modo, le campagne di disinformazione hanno attraversato tutti i decenni della guerra fredda, e continuano tuttora, trovando nella rete un ambiente particolarmente adatto. Non c’è molto da meravigliarsi se la Russia attua o favorisce campagne di informazione in rete: Putin viene dal KGB sovietico, che è l’inventore della dezinformatzija (https://it.wikipedia.org/wiki/Disinformazione), validamente emulata dai servizi occidentali.

La rivoluzione dell’accesso
Le fake news, soprattutto, nascono e vivono nella rete, e il loro impatto è dovuto al cambiamento epocale che il “news report” ha subito nei processi produttivi, distributivi e ricettivi dell’informazione. Dalla nascita dei mass media all’avvento di internet le notizie erano tali perché provenienti da una fonte che corrispondeva a un’organizzazione; oggi invece non solo le fonti si sono moltiplicate immensamente, ma si sono polverizzate fino a corrispondere, in molti casi, a iniziative individuali. Blogger, youtuber, social networker anche molto famosi, sono spesso singoli individui, che danno vita a organizzazioni se e quando i profitti lo permettono. Non solo, ma creare un sito web o un account corrispondente a una qualsiasi pseudo-organizzazione è facilissimo. Le fonti delle notizie possono apparire e scomparire nella rete come bollicine nell’acqua.

A questo si aggiunga che gli oggetti digitali (testi di qualsiasi tipo) si possono duplicare infinitamente senza perdita di qualità, e in gran parte si possono anche manipolare senza lasciare traccia o quasi. Immagini e video possono essere ritoccati e alterati molto facilmente, rendendo possibile la trasformazione di una notizia vera in fake, l’assemblaggio di falsità e verità, la mimetizzazione delle fonti, e altri trucchi.

Dal lato della ricezione, quindi, non c’è da meravigliarsi se troviamo una grande confusione nella validazione delle fonti. Il pubblico generico non è stato educato ad analizzarle e giudicarle, forse anche perché i pochi grandi emittenti non avevano molto interesse a farlo. La diffidenza nei confronti dei media ‘ufficiali’, quindi, non si è diffusa nell’opinione pubblica solo a causa dei tweet di Trump o della propaganda putiniana o nordcoreana, ma in parte è giustificata da casi evidenti di produzione di notizie false e di un generalizzato uso dello spin e dell’agenda setting a vantaggio dei punti di vista degli emittenti e dei loro stake holders.

Echo chambers e nebulizzazione delle fonti
Tutti questi fattori, e altri, hanno contribuito a creare una situazione di confusione nella quale il post proveniente da una fonte ignota o da un passaparola assume la stessa o maggiore validità di quello di un autorevole quotidiano. Il fenomeno delle echo chambers (https://en.wikipedia.org/wiki/Echo_chamber_(media)) è legato alla tendenza di ogni individuo ad aggregarsi ad altri che la pensano in maniera analoga, ma si fonda anche sulla costante svalutazione dell’autorevolezza dei media ‘ufficiali’. E non è un fenomeno del tutto nuovo. Negli anni 60-70, in Italia e non solo, gli ambienti alternativi avevano costruito reti di controinformazione che si ponevano proprio come fonti alternative ai poteri dell’informazione. Di conseguenza la nozione di informazione si è dilatata fino a perdere la precisione del contorno: oggi la notizia è quello che un utente riceve dai canali news ai quali è connesso abitualmente, o in risposta a stringhe che digita su Google. Se non ha una competenza specifica sulla qualità e tipologia delle fonti, sulla produzione di notizie e sulle tecniche di manipolazione, se non ha il tempo e l’attitudine per il debunking, il suo sistema di opinioni e credenze rischia di essere colonizzato da credenze false fino al ridicolo. Sia detto per inciso, la formazione liberal, laica e politically correct, che si astiene dall’insegnamento di principi ideologici, etici o tradizionali, se non è accompagnata da una rigorosa educazione alla critica razionale, alla logica argomentativa, alla retorica e alle strategie di propaganda, non fornisce alla persona gli strumenti per formare adeguatamente la propria opinione. Il saggio “Come rendere chiare le nostre idee”, di Charles Peirce, a mio parere uno dei più bei testi mai scritti su questo argomento, oggi è ancora pienamente attuale.

Siamo tutti broadcaster
La storia dei media, dalle affissioni alla TV generalista, è stata quella di una continua estensione dell’audience, fino alla ‘mondovisione’. La tecnologia dell’accesso praticamente consente a tutti i soggetti riceventi di essere anche emittenti: il costo di produzione e distribuzione dell’informazione si riduce in pratica a zero. Oggi non c’è nessun ostacolo tecnico a che un video prodotto in casa da un non professionista venga visto da un miliardo di persone.

In una tale situazione, un soggetto organizzato può, utilizzando alcuni accorgimenti informatici come i bot, piccoli programmi che simulano il comportamento umano, far arrivare una notizia di qualsiasi tipo a un gran numero di utenti senza rivelare la fonte. E’ l’ordine di grandezza che è cambiato: i partecipanti a una comunicazione personale di un privato cittadino, prima di internet, erano quelli ai quali poteva inviare una lettera o telefonare, al massimo poteva usare la pubblica affissione, stampare libelli o distribuire volantini, ma doveva sottostare a determinate regole ed era facilmente controllabile. Mentre scrivo, i followers di Donald Trump su Twitter sono 46,4 milioni, e queste persone sono a distanza zero -in termini di filtri- dallo smartphone del Presidente degli USA. Ma la distanza è la stessa per qualunque utente. E infatti, sotto i tweet di Trump è possibile leggere i commenti di chi è d’accordo e di chi non lo è, postare foto contro le sue proposte di legge e criticare quello che scrive. In genere i media tradizionali riportano solo i tweet del presidente, e quasi nessuno sottolinea come gli utenti rispondano a questi tweet, a volte anche in modo piuttosto veemente. Internet ha abbattuto la distinzione tra comunicazione di massa e comunicazione privata. Oggi l’individuo deve difendere la propria comunicazione privata dall’invasività di messaggi gestiti come media di massa. Non esiste più un canale totalmente riservato: call center e spamming hanno colonizzato i due canali one-to-one per eccellenza, telefono e posta. La messaggistica consente di selezionare i propri contatti, ma con difficoltà.

La condivisione dei contenuti è sempre più selettiva
In questo ambiente brulicante di informazione gli individui tentano naturalmente di costruire e presidiare reti di connessione personali, non sempre echo chambers. Molti hanno alcuni servizi dai quali ricevono notizie, e una rete più o meno ampia di amici, parenti e conoscenti che gli inoltrano informazioni e ai quali le inoltrano a loro volta. Ognuno assegna un grado di credibilità a ogni pezzettino di informazione, ma non solo. Anche un grado di piacevolezza, divertimento, ecc. Se ricevo news, ad alcune credo più che ad altre. Se ricevo barzellette, alcune mi fanno ridere più di altre. Il grado di credibilità assegnato dipende dalla competenza e dall’orientamento di ogni individuo. Il gradimento è un dato soggettivo, influenzato da molti fattori, individuali e circostanziali. Ma quanto la credibilità vale il gradimento. Se ricevo su WhatsApp una barzelletta pesantemente anti-governativa, specie se è allusiva o volgare, il gradimento può dipendere anche dalla mia posizione politica, e la scelta delle persone alle quali inoltrarla dipenderà anche dalla reazione che immagino possano avere. In una società nella quale il rispetto per le opinioni altrui è tale che la mera espressione delle proprie idee può essere considerata offensiva, si genera una pressione verso una condivisione dei contenuti selettiva: ognuno finisce per esprimersi liberamente solo con chi ritiene affidabile. Ancora una spinta verso le echo chambers. Uno spazio sociale chiuso entro i confini di un orientamento ideologico diventa terreno fertile per la disseminazione di fake news, anche involontarie.

Post-verità, militanza e terroristi del post
Verità e gradimento sono aspetti cognitivi ed emotivi, mentre la comunicazione, come la semiotica ha detto da tempo, possiede un fondamentale aspetto performativo. Non solo dice, ma fa.

Se affrontiamo infatti le fake news solo dal punto di vista della verità e della condivisione andiamo poco lontano: riusciamo a spiegare perché circolano, ma non perché si diffondono con tanta pervicacia e perché suscitano tanto allarme. Spesso si sente lamentare l’ignoranza delle persone, che continuano a far girare, per esempio, notizie false che gettano in cattiva luce la classe politica italiana e in particolare il governo. Il fatto è che a molti non interessa affatto se le notizie sono vere o false. Il desiderio di fare del male ai politici, specie se visti come espressione del potere, in quanto soggetti disonesti e incapaci che si arricchiscono con il denaro dei cittadini, prevale su ogni preoccupazione di verità. Siamo appunto nel dominio della post-verità, che infatti fu parola dell’anno del 2016 secondo l’Oxford English Dictionary (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). La post-verità è legata a una parola molto meno di moda: la militanza, così importante nella formazione ideologica dei partiti e di altre affiliazioni. Il militante non si deve chiedere se la notizia che gli viene chiesto di accettare e diffondere è vera, ma solo se giova al partito e nuoce ai nemici. Se un tempo la militanza avveniva entro i partiti e le organizzazioni, oggi ogni utente di uno smartphone è un potenziale partigiano nascosto che per qualche minuto al giorno compie i suoi piccoli atti di ribellione all’interno di un processo di massa. In realtà ognuno di noi è un terrorista dormiente del whatsapp… Molti messaggi diffusi nei social sono accompagnati da inviti espliciti: “E’ una vergogna, invia questo messaggio a più persone che puoi”, e altrettanto spesso si usano espressioni come “Non troverai questa notizia sui giornali e in TV, perché non vogliono farcelo sapere!” Si tratta di una facile profezia: dato che la notizia non esiste, o è stata deformata, non si troverà certamente da nessuna parte. Raramente queste notizie forniscono indicazioni su come avere una conferma dei fatti asseriti. Ma chi siamo ‘noi’? Chi è questo enunciatore implicito al quale i messaggi fanno appello? Quando viene descritto è generalmente raffigurato come ‘il trombato’, il contribuente salassato dal fisco, l’automobilista tartassato dall’autovelox, il lavoratore licenziato, in sintesi una vittima di un sistema opprimente in genere identificato con lo Stato o i politici che lo rappresentano.

In generale, la verità della notizia passa in secondo piano rispetto al suo impatto emotivo e pragmatico. Il singolo ricevente-emittente, indignato, si chiede semplicemente se il suo atto contribuisce alla lotta alla quale sta partecipando come guerrigliero dei social. Le fake news si diffondono perché ‘risuonano’ con un atteggiamento di rivolta, aggressività e protesta nei confronti di persone o istituzioni, non perché sono vere.

Strategie divisive
E’ evidente che in questa situazione vi sono molte opportunità per azioni strategiche di disinformazione. In occasione di elezioni, per esempio, la diffusione capillare e massiccia di fake news può effettivamente orientare la scelta di certi profili di elettori, dagli indecisi ai ‘decisori dell’ultim’ora’.

In generale, sono agevolate le strategie che si appoggiano su questioni divisive. Se troviamo un argomento, per esempio l’atteggiamento verso i migranti, che divide l’opinione pubblica in due parti comparabili, più o meno due metà, la strategia sarà di diffondere messaggi che rafforzano entrambe le posizioni. A un video che elenca stupri fatti da immigrati, corrisponderà d’altra parte la notizia di un gruppo di attivisti di ultradestra che prende a botte una coppia di colore. Il risultato è che il primo messaggio circolerà tra gli anti-immigrati, i quali trascureranno l’altro, e viceversa. Ma quello che è più importante in questo tipo di strategia è confondere la grande massa di chi non ha una posizione pregiudiziale. Chi cerca di avere un’opinione ragionevole si troverà nella necessità di ragionare, discriminare, costruire la sua posizione su distinzioni. Si produce così un modello di valori che contrappone idee nette ed emozionali (“Basta immigrazione! Fuori i clandestini!” VS “Bandire i neofascisti! Solidarietà e protezione per i migranti!”) a idee articolate e razionali (“Gestire e regolare l’immigrazione, ma garantire i diritti e la sicurezza di tutti”). Nel marketing si sostiene che i messaggi emozionali tendono a prevalere su quelli razionali. Sicuramente vi sono dati sperimentali che lo confermano, ma personalmente la vedo un po’ diversamente.

Cultura del desiderio e scelte emozionali
Ogni individuo e ogni gruppo prendono decisioni sia su basi razionali sia su basi emozionali, o mescolando le due motivazioni. Pensate a come fate la vostra scelta dal menu di un ristorante. Chiunque non abbia seri problemi mentali sa che le decisioni prese senza riflettere sono rischiose, anche se a volte gratificanti. Tuttavia le mode culturali sono molto influenti, e la nostra cultura è fortemente orientata a considerare la soddisfazione del desiderio l’obiettivo più importante della vita. E il desiderio di per sé è irrazionale, istintivo, libero, creativo e forse sovversivo. Ciò non toglie, tuttavia, che il desiderio sia anche fortemente influenzabile.

Molti di noi, per esempio, vorrebbero essere ricchi, perché in tal modo pensano che potrebbero prendere più decisioni d’impulso e soddisfare più desideri. Decidere in maniera più o meno razionale è un abito che dipende in buona parte dall’educazione e dall’ambiente in cui viviamo. Penso che dalla nascita e dallo sviluppo della società consumistica la spinta a prendere sempre più decisioni emotive sia aumentata notevolmente, non tanto per un immorale interesse dei grandi manipolatori (primo tra tutti il sistema pubblicitario) ma per il fatto che prendere decisioni impulsive ed emozionali viene collegato alla soddisfazione dei propri desideri. D’altra parte, mai una società era esistita nella quale l’unico ostacolo tra un individuo e qualsiasi bene o servizio disponibile fosse solo il denaro e il denaro stesso fosse ottenibile in tanti modi diversi e continuamente crescenti.

Se in una cultura, meglio ancora in una civiltà, l’atteggiamento verso il desiderio è questo, è determinato in modo speculare anche l’atteggiamento verso il suo opposto: il fastidio, la repulsione. Se ci riflettiamo un attimo, i prodotti che risolvono un fastidio sono pubblicizzati quanto e con gli stessi schemi di quelli che soddisfano un desiderio. E anche in questo campo non si può negare che enormi cambiamenti sono avvenuti. Dall’aria condizionata agli antidolorifici, dai deodoranti agli abiti confortevoli, sforzi immensi vengono fatti ogni giorno per risolvere i problemi dei consumatori e dei cittadini. Mi viene in mente una serie di cartoons della Disney la cui sigla si conclude ogni volta con le parole “…e il problema non esiste più!” Il leit motiv è insegnare al bambino che ogni problema si può risolvere con il ragionamento e i giusti strumenti. Entrambi però appaiono come per magia al momento giusto.

Purtroppo, materie come la logica, il decision making, la valutazione delle fonti (che persino un contadino che andava alla fiera a comprare una vacca sapeva fare…) non fanno parte dei curricula scolastici e non hanno molta audience in TV.

Vax e no-vax: un tema esemplare
Se non inquadriamo il problema delle fake news in questo orizzonte culturale epocale, non riusciremo a risolverlo. Uno dei terreni più insidiosi, per esempio, è quello delle vaccinazioni. Una vera guerra tra parti opposte è in corso in Italia e in tutto il mondo. Ma alla base vi sono due fattori fondamentali: la sfiducia nella sanità pubblica e l’ansia delle madri per la salute del proprio figlio. Il carattere statistico dell’efficacia delle campagne vaccinali e la complessità della relazione causa-effetto nella valutazione delle reazione avverse non consentono di semplificare a sufficienza la comunicazione, mancando le basi culturali nei riceventi. In particolare in Italia, metodo scientifico e teoria della probabilità restano materie estranee alla formazione scolastica. In tal modo l’echo chamber antivax è difesa da invalicabili muri di notizie di bambini vaccinati soggetti a patologie gravi e compromissione dei politici con le multinazionali dei farmaci, quest’ultime spesso non fake. E’ ovvio che le stesse mamme antivax si incatenerebbero davanti alle ASL se ci fosse un’epidemia di polio e i vaccini venissero lesinati o negati. Ma non c’è nessuna epidemia percepibile, e nessuno si è curato di introdurre la storia della sanità nei programmi scolastici, mentre i media sono pieni ogni giorno di notizie sulle grandi aziende avvelenatrici e inquinatrici. Quindi il terreno è fertile per le fake e per le quasi-fake e per le notizie semplicemente vere. E il ragionamento più semplice ed emotivamente facile prevale: il vaccino è obbligatorio (imposto da uno Stato inaffidabile e da politici compromessi), lo vedo, viene inoculato, e può far male. Questo è vero. La malattia non c’è, non è grave, è invisibile e non è detto che il bambino la prenda, e anche questo è vero. Dei due rischi, individualmente è più alto il primo. Si elimina un fastidio, dato che l’ansia da vaccino prevale sull’ansia da malattia. La teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero, sono tutte cose che nessuno si preoccupa di insegnare a scuola o spiegare in televisione.

La decisione di impulso è facile, è più piacevole. Se poi si sceglie una posizione emozionalmente, e se si frequenta l’echo chamber adatta, tutto diventa più facile ancora. Amici e nemici sono nettamente separati e si può diventare un partigiano militante: postare e condividere, commentare e rilanciare.

Semiosi della liquidità
Ancora una volta vediamo che la comunicazione, e la semiosi come flusso che costruisce l’enciclopedia individuale e collettiva, sono processi a spirale, che giro dopo giro configurano e riconfigurano credenze, opinioni, giudizi, valori. Il cambiamento epocale è, al momento, nella grande complessità di voci che parlano al singolo, spesso in maniera dissonante, su argomenti e temi del tutto diversi. E il singolo, a sua volta, formato in una cultura della rapida soddisfazione del desiderio, cerca soluzioni semplici e facili, e rifiuta i fastidi, disorientato da una complessità che non ha gli strumenti per affrontare.

E’ un dato facilmente verificabile che, in questa cultura, costruire e mantenere opinioni solide e durature, connesse tra loro da una logica legata a principi generali, cioè quella forma di mentalità (chiamiamola borghese?) prevalente fino agli ultimi decenni del secolo scorso, non viene più considerato il comportamento proprio di un individuo o cittadino maturo e consapevole. Oggi la mutevolezza dei pareri, la fluidità delle opinioni, persino la continua revisione delle credenze (ciò che si crede vero) è accettata come diritto e praticata anche da politici importanti e capi di stato. Di conseguenza, siamo tutti liquisi, continuamente aperti alle ultime notizie, alle ultime novità, ai cambiamenti, ci adattiamo alle stagioni come il leoncello dantesco “che muta parte dalla state al verno”.

Conclusioni
Concludere questo saggio (che ha già mentito sulla propria lunghezza)  lamentando la crisi dell’occidente sarebbe di scarso supporto al lettore, che spero voglia formarsi un’opinione personale più che ricevere un’ennesima soluzione istantanea. Rinunciando perciò alla mia quota personale di liquidità, assumo l’onere di qualche proposta.

E’ necessario che uno sforzo massiccio venga fatto non verso la repressione delle fake news, che è difficile, probabilmente impossibile, e soprattutto pericolosa per la libertà di espressione. Purtroppo politici di alto livello si sono già espressi in questa direzione in tutto il mondo, domandando leggi ‘anti fake’. Ma se combattere il comunismo e il capitalismo erano già imprese piuttosto ardue, pensare di farla finita con la menzogna appare francamente un obiettivo un po’ al di sopra delle attuali capacità di qualsiasi governo.

Per combattere le fake bisogna somministrare potenti ricostituenti culturali all’opinione pubblica, attraverso i media e il sistema educativo. Bisogna insegnare a pensare meglio, a capire, bisogna spiegare che la verità è qualcosa che si indaga. Bisogna, insomma “rendere chiare le nostre idee”.

Eco: ottanta anni e qualche riflessione

Abbiamo festeggiato gli ottanta anni di Umberto Eco.
Sono occorrenze che ispirano qualche riflessione.
Ho visto Eco la prima volta nel 1975, nella vecchia sede del DAMS (doveva ancora uscire il Trattato). Da studente, andai alla prima lezione del suo corso, in Strada Maggiore. L’aula era piccola e straripava. In prima fila le signore bene dell’intellettualità bolognese. Lui si mise dietro alla cattedra e, senza dire una parola, iniziò a lanciare palle di carta sugli astanti. Mugolii di ammirazione. Esordì: “Ecco, questo è un segno.”
Fui affascinato dalla semiotica e non mi ripresi per molto tempo, forse ne sono ancora innamorato. Per il nostro Maestro attraversai le fasi che ogni discepolo percorre: stupore, ammirazione incondizionata, desiderio di vicinanza, orgoglio di essere ammesso alla ‘scola’, emulazione, delusione, realismo, ribellione, affetto, stima, distanza, amicizia, devozione.
Ricordo quando, col successo del Nome della rosa, tutto cambiò e Umberto diventò una personalità mondiale. Noi, che gli eravamo vicini, restammo sbalorditi. E anche lui, a dire il vero. Fu un shock, perché quando si superano determinate soglie la persona che conoscevi ti viene di fatto sottratta, e ci rimani male. Dopo di allora Eco non poté più vivere come gli altri. Se ne è fatto una ragione e lo ha sempre accettato con disinvoltura. Anche la settimana scorsa qualcuno si è dovuto occupare di respingere alcune persone che non erano invitate e che avrebbero creato disagio.
A parte augurare vita lunga e felice a Umberto Eco, oggi mi viene però da pensare a quell’esplosione di successo che ha fatto di un brillante professore italiano una star intellettuale mondiale.
All’epoca del Nome della Rosa (1980), due cerchie stavano attorno a Eco: i colleghi più giovani, quasi tutti ricercatori, e gli allievi di prima generazione. I primi subirono un impatto devastante: l’esplosione di un personaggio che anche prima espandeva naturalmente il proprio spirito spinse alcuni di loro a tentare un’emulazione impossibile, altri a rinunciare per sempre ad ambizioni commensurabili. Entrambe le strade, ahimè, sono dettate dal confronto e dunque vincoli, in qualche modo, ombre sulla propria, grande o piccola, individualità. Quasi tutti col tempo si ripresero e divennero ciò che erano, in modi diversi brillanti, operosi, abili, autorevoli.
Noi della seconda cerchia subimmo effetti meno diretti; la nostra emulazione non aveva l’età per essere seria, ma proprio questa distanza la rendeva più insinuante, più ideale, più profonda. Io stesso sognai di essere docente universitario e scrittore, e devo dire che lo sono diventato. Ma in sedicesimo. Posso fungere da Eco in formato tascabile, al massimo. Le vicende degli altri sono analoghe. Per ora. Si può sempre vincere un Nobel fino all’ultimo giorno della vita.
Questo non è un lamento. Ho imparato da Umberto tante cose, altre le ho apprese da altri. Innumerevoli le ho apprese da me stesso. E comunque, questa esplosione di fama che ha illuminato tanti satelliti, ha messo in moto grandi energie. Così come ha inghiottito interi brani di esistenze.
Una cosa credo di poter concludere: l’idea che abbiamo dell’individuo che coincide con i propri confini corporei è del tutto errata. Ogni individuo crea un campo simile al campo gravitazionale, esteso più del suo corpo o anche meno: un campo semiotico, vogliamo chiamarlo? Quando lo è di più, ingloba altri individui, in toto o in parte, e li muove secondo le sue traiettorie. Quando lo è di meno, viene attratto nel campo di altri. Alcuni individui sono dotati di un campo semiotico più ampio della media. Vuol dire che trasportano altri pezzi di persone o persone intere. È difficile sia stare loro vicini sia starne lontani. Solo la consapevolezza di quanto questa relazione sia interessante ci aiuta a gestirla.

Semiotica, scienza collaborativa. Con chi?

Negli ultimi anni la semiotica – o almeno la semiotica che da noi va per la maggiore – pare che abbia sempre più voglia di contaminarsi con altre scienze: prima la sociosemiotica, poi la psicosemiotica e più recentemente l’etnosemiotica. Per qualche tempo, mi sono chiesto se non si dovesse dar vita – nell’ambito delle collaborazioni fra la semiotica e le discipline progettuali, dal design all’ingegneria – a una “ergosemiotica”. Il termine, del resto, è già stato coniato, nell’ambito della Human-computer interaction, da Gennady Uzilevsky e altri.

Perché?

Questa tendenza all’estensione non dovrebbe meravigliare più di tanto. Da sempre la semiotica è una disciplina “collaborativa”, strumento scientifico di altre scienze. E poi, ognuno di noi già di per sé sposa la semiotica ad altri mondi, spesso fra loro distanti (filosofia, letteratura, arte, medicina, media, storia, cucina, religioni, ecc.). Siamo un po’ come i profughi di Lost (ultimo episodio proprio oggi) appena precipitati sull’isola: ognuno porta con sé il proprio passato.

Il problema non sta qui. Il problema forse sta nel fatto che le “altre” discipline, per quanto aperte ad accogliere i metodi e gli sguardi semiotici, non sembrano avere esplicitamente fatto richiesta del sapere della scienza dei segni. La accolgono, ma forse senza cercarla.

Ad esempio: perché persiste una certa distanza (di sicurezza?) fra l’epistemologia e la semiotica? E fra la semiotica e le neuroscienze? E perché la semiotica dei “filosofi” mal s’accoppia con la semiotica dei “semiologi”?

Si tratta di una (mia) sconfortata impressione, di un problema, o di una cosa da nulla?

Quanto vivrà ancora la semiotica italiana?

Taccio nome dell’autore e titolo e persino argomento: ci conosciamo tutti e si rischiano amicizie, carriere ecc.

Ma mi sembra giusto raccontarlo. Mi chiede un appuntamento la figlia di un amico che frequenta un Corso di Laurea in cui vi è un insegnamento di semiotica. Ha difficoltà e chiede qualche consiglio. Mi è già capitato, lo faccio volentieri. Non influisco su alcun risultato, non dò lezioni, solo qualche professorale suggerimento. Mi sottopone i libri da portare all’esame. Assommano a circa 1.000 pagine. So che questo è già un indizio, ma è significativo, non posso trascurarlo.

Scorro gli indici e leggo qua e là, alla fine conversiamo per oltre novanta minuti, i più li passo leggendo e cercando di spiegare il significato del testo. A volte faccio fatica, devo rileggere, ridire, riformulare. Lo stile è involuto, alterna metafore a termini semiotici molto specifici. Spesso l’autore fa riferimento a posizioni di altri, criticandole e proponendo soluzioni alternative, ma non vi sono citazioni né nomi; nebulosamente scorgo il profilo di alcune teorie. Spesso le revisioni -proposte dopo pagine di sottili distinzioni- deviano così impercettibilmente dalla dottrina criticata da apparire quasi indistiguibili, se non per una farraginosa ri-enunciazione in un idioletto difficoltoso e incostante ad un tempo. Testi forse interessanti, ma molto difficili, oscuri, pieni di concetti semplici, a volte banali, espressi in modo barocco e involuto. Del tutto inadatti a un uso didattico. Francamente, assegnati a uno studente nel 2010, semplicemente crudeli.

Ricordo, negli anni ’70, quando -come molti di noi- mi innamorai della semiotica di Umberto Eco, l’entusiasmo con il quale si salutava un nuovo modo di scrivere, uno stile aperto, semplice, rispettoso del lettore, alcuni dicevano (osando) ‘americano’… Una saggistica brillante, colta, illuministica, in cui bibliografie esaurienti e internazionali, un apparato di note robusto, una suddivisione razionale e chiara in paragrafi e sottoparagrafi, sorreggevano una indagine condotta sempre con tensione e arguzia, ampiezza di visione culturale e fervore nel costruire una nuova disciplina. Ogni nuovo libro di Eco era un piacere, per noi giovani appassionati dei segni, e mai si sentiva dire che non si potesse capire o che fosse oscuro o che esuberasse dai limiti di buon senso in quantità o modo.

Certamente, Umberto resta un maestro nella scrittura saggistica italiana, non si pretende di superarlo.

Ma cosa potevo dire alla simpatica matricola? Pensare alle mille pagine di acqua -se non calda- tiepida, che si doveva sorbire mi ha riempito di tristezza. Per la prima volta, di fronte a un esame della mia disciplina, che ho praticato per circa 35 anni, non ho potuto che dirle “Porti pazienza, legga, veda se può capire, come vede, anch’io faccio fatica. Certamente i suoi colleghi non potranno superare di molto la comprensione che ne ha avuto lei. Vedrà che l’esame in qualche modo lo passerà.”

Desolante. Ovviamente non generalizzo. Ci sono autori italiani che riescono a produrre testi di semiotica chiari, se non appassionanti almeno capaci di portare a una conclusione, e a volte persino utili. Francamente, di rado memorabili, ma questo non lo si può pretendere. Tuttavia, credo che questa disciplina volga pacatamente e debolmente verso l’estinzione. Verrà in qualche modo -probabilmente- smembrata tra sociologia, linguistica, filosofia del linguaggio e logica, magari antropologia e ovviamente marketing. E’ il marketing oggi il mare magnum in cui le scienze umane vanno ad immettersi. Ma di questo, magari, in un altro momento.