Nel maggio del 1983 fui invitato a partecipare ad un viaggio della memoria in alcuni campi di detenzione, tortura e sterminio di Austria e Germania. Ero ospite dell’associazione dei reduci in rappresentanza della mia scuola, l’ISA di Pisa. Oltre alla visita di alcuni infrastrutture austriache ’ minori’, centri in cui si compivano esperimenti pseudo scientifici che avevano come vittime prescelte varie categorie di infelici ed emarginati sociali, due dei cinque giorni di viaggio furono dedicati alle visite di Dachau (vicino a Monaco di Baviera) e di Mauthausen (vicino a Linz). I due campi, anche per fatti accaduti durante le fasi della liberazione si sono conservati in modi molti differenti. Dachau era, ed è, un museo in cui l’orrore è neutralizzato. Infatti, le baracche di Dachau furono tutte bruciate per un’epidemia di tifo esplosa subito dopo l’arrivo degli americani. Inoltre, nella primavera del 1983 (ma il Web dice che è ancora così) i forni crematori e l’area delle esecuzioni erano immersi in un floridissmo e fiorito giardino che annullavano l’orrore di ciò che erano stati. È ridicola mi apparve anche l’unica baracca che era stata ricostruita ex novo nello sterminato spazio del campo. Aveva appesa al suo interno la sua brava gigantografia pronta a illustrare chi e come, ai confini dell’umano, popolava quei loculi cosà lindi e profumati di ottimo legno alpino. Senza dimenticare l’immancabile cestino dei rifiuti, non solo in linea con gli standard allestitivi della museografia tedesca, ma messo là per evitare che i turisti sporcassero un luogo sacro.
Mauthausen, invece, in una giornata grigia e piovosa si manifestò subito assai più tetro. Gli austriaci sono stati ben attenti a conservare l’alea di orrore del luogo e hanno arricchito di cartelli, mappe, didascalie ogni luogo, dispositivo ed oggetto. Sì, è un luogo museificato anche quello ma aveva/ha (non ci sono più tornato) la capacità di rappresentare la caratteristica saliente di quella indicibile impresa, quella che almeno a me ha fatto maggiormente effetto. Si tratta della dimensione sistematica e industriale dello sterminio. Certo, senza gli innumerevoli cartelli di oggi la fortezza-prigione in cui si penetra non ha una faccia orribile, anche se non maschera la sua natura di spazio reclusivo duro e opprimente. Un orrore smisurato emerge invece appena si passa a guardare le mappe e si comincia a ragionare su come quello spazio era organizzato; quali funzioni avevano le varie aree; la ratio terribile della successione di passi che conducevano all’annientamento dei prigionieri nei loro ultimi e progressivi atti di spoliazione dei loro residui di identità (protesi e abiti); come la struttura, se non ne manteneva il segreto assoluto, celava la vista del massacro perché le stesse vittime non avessero piena consapevolezza dell’immediato compiersi del loro destino. L’orrore sta infatti nell’agghiacciante logica progettuale che opera per l’abominio e simultaneamente per il suo nascondimento e questo è un contenuto testimoniale che i campi mantengono ancora intatto. Solo a guardare le mappe si capisce infatti come tutto quello spazio concentrazionario convergesse con estrema lucidità programmatoria nel luogo di annientamento e tutto concorresse a tenere nascosto quel luogo, la sua funzione e i processi in corso. Quella che posto qui è una foto sintomatica in questo senso (fonte è il Web). Da una delle porte entravano i prigionieri condotti a lavarsi. Una volta chiusa la porta i vapori dello zyklon-b si liberavano dai diffusori delle docce e quando dallo spioncino della seconda porta si poteva constatare l’avvenuta formazione della tipica piramide di corpi avvinghiati nella disperata ricerca di aria respirabile la gassificazione cessava. Era il momento di far circolare aria pulita. Quindi la seconda porta si apriva e i corpi venivano tratti verso i forni. Percorso unicursuale: irreversibile ed efficientemente protetto.