Al Virtual Reality Movie Festival di Modena, fino al 29 maggio, fiction e documentari in realtà virtuale esibiscono la gemmazione interattiva di generi consolidati. Il trailer che potete vedere qui restituisce solo parzialmente gli effetti percettivi e di senso che la ripresa e il racconto immersivi producono. Mi ha colpito perché la camera senza operatore (nei documentari il soggetto non è più influenzato dalla presenza del cameraman), e una distanza ravvicinatissima, innestano l’occhio dell’osservatore nella vita di queste coraggiose amazzoni yazide, così a ridosso da risultarmi imbarazzante.
E’ un nuovo e interessante filone del racconto per immagini che pone nuove domande a registi e fruitori sulla costruzione di storie e sul guardare e vedere. Dentro le maschere immersive, infatti, non si è più completamente condotti dalla storia e si diventa in qualche modo responsabili dell’esercizio del proprio guardare. Si è soli, però è curioso, come raccontava Omar Rashid (regista) durante un talk, che ai festival, dopo la fruizione individuale le persone si trovino numerose a discutere collettivamente di ciò che hanno visto. Certamente i festival sono ambienti fruitivamente artificiali, però è interessante che la sensazione di poter aver perso qualcosa di utile ad una comprensione più completa possa far desiderare il confronto tra gli spettatori. E lo stesso Rashid sosteneva come la fruizione collettiva fosse a suo giudizio una pratica essenziale e qualificante di questo genere. Saremmo quindi di fronte ad una rigenerazione del dibattito da cineforum che stavolta scaturirebbe da una tecnologia che rende la fruizione massimamente individuale. Interessante.
Autore: Davide Gasperi
La divulgazione della Storia dell’Arte in Italia
Ci si lamenta sempre di quanto in Italia sia poco diffusa la cultura scientifica. Vero. Ma è altrettanto vero che anche quella artistica è poco diffusa ed è divulgata male. E certamente con il ridimensionamento dello studio della Storia dell’Arte dalla scuola superiore non andrà meglio. Della Storia dell’Arte manca la divulgazione dei fondamenti. Ieri sera, ad esempio, ho seguito la puntata dedicata ai Bronzi di Riace di Ulisse. Ebbene, gli Angela, che fanno della buona divulgazione scientifica, storica e tecnologica, sono soliti ricondurre il senso e il valore delle opere che trattano a questi aspetti senza mai toccare i contenuti artistici ed estetici nelle loro specificità.
Ieri sera, Alberto Angela, in una puntata un po’ raffazzonata e con testi a tratti approssimativi, ha presentato un collage di pezzi di repertorio per spiegare la storia e soprattutto le tecnologie di restauro e conservazione delle sculture, giubilandone continuamente la bellezza ma senza spiegarla mai. Non ha parlato della tecnica di modellazione e fusione a cera persa che nei Bronzi consente di impreziosire le tensioni cutanee e muscolari con l’affioramento delle vene che al tempo stesso rendono più complessa la tensione plastica e sensibile l’anatomia bronzea. Quindi, appunto, della felice riuscita del contrasto tra la sensibilità di quei corpi e la durezza del metallo, che è anche un esempio di appropriata adozione della tecnica a fini espressivi (sterminato e sofisticato tema tecnico-artistico). Non ha poi sfruttato l’ottima occasione di spiegare come, in due opere simili e poco distanti, si manifesti il passaggio da una concezione idealizzata della figura, che ancora caratterizza la “Statua A”, a quella più naturalistica della “Statua B”. Non ha spiegato la bellezza delle pose e la felice dialettica tra stasi e tensione. Alla fine, per parlare del particolare tipo di bellezza dei Bronzi non ha potuto esimersi dal commentare come la ridotta attribuzione virile sia dovuto alla valorizzazione, nella stauaria classica, delle qualità eroiche. Grazie, è una faccenda ideologica ma anche di genere artistico: i Bronzi non sono dei satiri.
Insomma, nella divulgazione televisiva si passa dagli ammiccamenti dotti rivolti ai già iniziati di Daverio agli inquadramenti enciclopedici degli Angela senza toccare lo specifico delle Arti. Alla fine, senza eccessi formalistici, nessuno ci insegna a capire il perché e il come le opere ci appaiono belle o interessanti.
Lo sterminio come progetto
Nel maggio del 1983 fui invitato a partecipare ad un viaggio della memoria in alcuni campi di detenzione, tortura e sterminio di Austria e Germania. Ero ospite dell’associazione dei reduci in rappresentanza della mia scuola, l’ISA di Pisa. Oltre alla visita di alcuni infrastrutture austriache ’ minori’, centri in cui si compivano esperimenti pseudo scientifici che avevano come vittime prescelte varie categorie di infelici ed emarginati sociali, due dei cinque giorni di viaggio furono dedicati alle visite di Dachau (vicino a Monaco di Baviera) e di Mauthausen (vicino a Linz). I due campi, anche per fatti accaduti durante le fasi della liberazione si sono conservati in modi molti differenti. Dachau era, ed è, un museo in cui l’orrore è neutralizzato. Infatti, le baracche di Dachau furono tutte bruciate per un’epidemia di tifo esplosa subito dopo l’arrivo degli americani. Inoltre, nella primavera del 1983 (ma il Web dice che è ancora così) i forni crematori e l’area delle esecuzioni erano immersi in un floridissmo e fiorito giardino che annullavano l’orrore di ciò che erano stati. È ridicola mi apparve anche l’unica baracca che era stata ricostruita ex novo nello sterminato spazio del campo. Aveva appesa al suo interno la sua brava gigantografia pronta a illustrare chi e come, ai confini dell’umano, popolava quei loculi cosà lindi e profumati di ottimo legno alpino. Senza dimenticare l’immancabile cestino dei rifiuti, non solo in linea con gli standard allestitivi della museografia tedesca, ma messo là per evitare che i turisti sporcassero un luogo sacro.
Mauthausen, invece, in una giornata grigia e piovosa si manifestò subito assai più tetro. Gli austriaci sono stati ben attenti a conservare l’alea di orrore del luogo e hanno arricchito di cartelli, mappe, didascalie ogni luogo, dispositivo ed oggetto. Sì, è un luogo museificato anche quello ma aveva/ha (non ci sono più tornato) la capacità di rappresentare la caratteristica saliente di quella indicibile impresa, quella che almeno a me ha fatto maggiormente effetto. Si tratta della dimensione sistematica e industriale dello sterminio. Certo, senza gli innumerevoli cartelli di oggi la fortezza-prigione in cui si penetra non ha una faccia orribile, anche se non maschera la sua natura di spazio reclusivo duro e opprimente. Un orrore smisurato emerge invece appena si passa a guardare le mappe e si comincia a ragionare su come quello spazio era organizzato; quali funzioni avevano le varie aree; la ratio terribile della successione di passi che conducevano all’annientamento dei prigionieri nei loro ultimi e progressivi atti di spoliazione dei loro residui di identità (protesi e abiti); come la struttura, se non ne manteneva il segreto assoluto, celava la vista del massacro perché le stesse vittime non avessero piena consapevolezza dell’immediato compiersi del loro destino. L’orrore sta infatti nell’agghiacciante logica progettuale che opera per l’abominio e simultaneamente per il suo nascondimento e questo è un contenuto testimoniale che i campi mantengono ancora intatto. Solo a guardare le mappe si capisce infatti come tutto quello spazio concentrazionario convergesse con estrema lucidità programmatoria nel luogo di annientamento e tutto concorresse a tenere nascosto quel luogo, la sua funzione e i processi in corso. Quella che posto qui è una foto sintomatica in questo senso (fonte è il Web). Da una delle porte entravano i prigionieri condotti a lavarsi. Una volta chiusa la porta i vapori dello zyklon-b si liberavano dai diffusori delle docce e quando dallo spioncino della seconda porta si poteva constatare l’avvenuta formazione della tipica piramide di corpi avvinghiati nella disperata ricerca di aria respirabile la gassificazione cessava. Era il momento di far circolare aria pulita. Quindi la seconda porta si apriva e i corpi venivano tratti verso i forni. Percorso unicursuale: irreversibile ed efficientemente protetto.