Abbiamo festeggiato gli ottanta anni di Umberto Eco.
Sono occorrenze che ispirano qualche riflessione.
Ho visto Eco la prima volta nel 1975, nella vecchia sede del DAMS (doveva ancora uscire il Trattato). Da studente, andai alla prima lezione del suo corso, in Strada Maggiore. L’aula era piccola e straripava. In prima fila le signore bene dell’intellettualità bolognese. Lui si mise dietro alla cattedra e, senza dire una parola, iniziò a lanciare palle di carta sugli astanti. Mugolii di ammirazione. Esordì: “Ecco, questo è un segno.”
Fui affascinato dalla semiotica e non mi ripresi per molto tempo, forse ne sono ancora innamorato. Per il nostro Maestro attraversai le fasi che ogni discepolo percorre: stupore, ammirazione incondizionata, desiderio di vicinanza, orgoglio di essere ammesso alla ‘scola’, emulazione, delusione, realismo, ribellione, affetto, stima, distanza, amicizia, devozione.
Ricordo quando, col successo del Nome della rosa, tutto cambiò e Umberto diventò una personalità mondiale. Noi, che gli eravamo vicini, restammo sbalorditi. E anche lui, a dire il vero. Fu un shock, perché quando si superano determinate soglie la persona che conoscevi ti viene di fatto sottratta, e ci rimani male. Dopo di allora Eco non poté più vivere come gli altri. Se ne è fatto una ragione e lo ha sempre accettato con disinvoltura. Anche la settimana scorsa qualcuno si è dovuto occupare di respingere alcune persone che non erano invitate e che avrebbero creato disagio.
A parte augurare vita lunga e felice a Umberto Eco, oggi mi viene però da pensare a quell’esplosione di successo che ha fatto di un brillante professore italiano una star intellettuale mondiale.
All’epoca del Nome della Rosa (1980), due cerchie stavano attorno a Eco: i colleghi più giovani, quasi tutti ricercatori, e gli allievi di prima generazione. I primi subirono un impatto devastante: l’esplosione di un personaggio che anche prima espandeva naturalmente il proprio spirito spinse alcuni di loro a tentare un’emulazione impossibile, altri a rinunciare per sempre ad ambizioni commensurabili. Entrambe le strade, ahimè, sono dettate dal confronto e dunque vincoli, in qualche modo, ombre sulla propria, grande o piccola, individualità. Quasi tutti col tempo si ripresero e divennero ciò che erano, in modi diversi brillanti, operosi, abili, autorevoli.
Noi della seconda cerchia subimmo effetti meno diretti; la nostra emulazione non aveva l’età per essere seria, ma proprio questa distanza la rendeva più insinuante, più ideale, più profonda. Io stesso sognai di essere docente universitario e scrittore, e devo dire che lo sono diventato. Ma in sedicesimo. Posso fungere da Eco in formato tascabile, al massimo. Le vicende degli altri sono analoghe. Per ora. Si può sempre vincere un Nobel fino all’ultimo giorno della vita.
Questo non è un lamento. Ho imparato da Umberto tante cose, altre le ho apprese da altri. Innumerevoli le ho apprese da me stesso. E comunque, questa esplosione di fama che ha illuminato tanti satelliti, ha messo in moto grandi energie. Così come ha inghiottito interi brani di esistenze.
Una cosa credo di poter concludere: l’idea che abbiamo dell’individuo che coincide con i propri confini corporei è del tutto errata. Ogni individuo crea un campo simile al campo gravitazionale, esteso più del suo corpo o anche meno: un campo semiotico, vogliamo chiamarlo? Quando lo è di più, ingloba altri individui, in toto o in parte, e li muove secondo le sue traiettorie. Quando lo è di meno, viene attratto nel campo di altri. Alcuni individui sono dotati di un campo semiotico più ampio della media. Vuol dire che trasportano altri pezzi di persone o persone intere. È difficile sia stare loro vicini sia starne lontani. Solo la consapevolezza di quanto questa relazione sia interessante ci aiuta a gestirla.