Il tempo al tempo del Coronavirus

1.

In quasi tutte le trasmissioni sul Coronavirus, talk show o servizi di telegiornale, ricorre un discorsetto che non mi convince del tutto: quello secondo cui, passato questo periodo di quarantena ed emergenza, la nostra vita sociale ne guadagnerà. Avremo, si dice, maggiore attenzione per le politiche della salute, una più accorta consapevolezza delle nostre abitudini, riscopriremo il valore delle relazioni, del rispetto e delle regole di convivenza, riporteremo il fattore umano al centro della nostra civiltà, e altro ancora. Insomma, direbbe Lucio Dalla, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno.

L’emergenza del Coronavirus, penso, lascerà certamente molte tracce nelle nostre esistenze, individuali e sociali; se non altro produrrà, come già accade, un’ingente quantità di aneddoti e racconti. Tutti ricorderanno come avranno vissuto nei mesi del Coronavirus – sperando che siano soltanto mesi. Ma alla fine di questa emergenza, temo, tutto tornerà pian piano come prima. All’agio e al benessere nessuno vorrà rinunciare, nemmeno per riscoprire valori e tantomeno per mettere in discussione discutibili abitudini. Del resto, non siamo diventati davvero ambientalisti, consci dei limiti delle nostre risorse, dopo le domeniche senza auto del 1973.

2.

Tuttavia, c’è stata un’osservazione di Stefano Massini, in Otto e mezzo del 13 marzo 2020 (qui), su cui mi piace ritornare.

Lo scrittore osservava che stiamo facendo una diversa esperienza del tempo, non solo (aggiungo io) perché chiusi in casa cerchiamo in tutti i modi il modo migliore di “far passare” il tempo, riscoprendo letture e visioni in streaming, ma perché per la prima volta nella nostra esistenza non sappiamo quando un certo fenomeno avrà fine. Non sappiamo quando tutto ritornerà come prima. All’inizio si trattava di giorni, poi di settimane, ora saranno sicuramente mesi: due, tre, cinque, nove – o più? Non lo sappiamo.

Massini osservava che siamo abituati, noi umani-digitali, a gestire il tempo secondo i nostri desideri, ad esempio a programmare l’arrivo di un acquisto di un prodotto sul web: ad avere ciò che vogliamo quando lo vogliamo. Poter manipolare il tempo – tutto now! – accelera la soddisfazione. Non ci eravamo ben resi conto che la nostra organizzazione sociale aveva posto il tempo al servizio dei nostri desideri; mentre ora ci ritroviamo costretti dalle circostanze a essere noi a chiedere al tempo che cosa possiamo fare. Stiamo tutti in silente attesa, come un bravo maggiordomo che aspetta un cenno del padrone. Certo, possiamo ingannare il tempo, riempirlo in modo creativo, cercando che cosa guardare e cosa leggere da casa (con PornHub che regala piacere a distanza: qui), ma non abbiamo possibilità di programmarlo. Le agende durano al massimo una settimana, poi è il nulla.

3.

Un professore all’università di Tehran, Alireza Ajdari, giusto un anno fa mi spiegava, con ironia, che nella pratica discorsiva iraniana i tempi verbali sono quattro, non tre: passato, presente, futuro e poi “Era dello Scià”. Come se il periodo della monarchia di Reza Pahlavi fosse una enorme parentesi avulsa dalla storia del paese. Oggi per noi è il futuro un agglomerato avulso dal nostro presente: una zona buia. Il tempo di colpo non è un dato su cui possiamo contare; e nemmeno una quantità che possiamo calcolare. I giorni e i mesi davanti a noi si riducono a un generico “dopo il Coronavirus”. Non sappiamo con chi trascorreremo la Pasqua; possiamo al massimo sperare di sapere dove passare il Natale.

Il futuro, in queste condizioni, non è né deducibile né ipotizzabile. Quando tutto si ferma, il futuro esce dal nostro orizzonte cognitivo. Se qualcuno domanda quando finirà l’emergenza Covid-19, l’unica risposta è quella dell’apologo di Uccellacci e uccellini di Pasolini: Boh!

4.

Nell’Era del Coronavirus, mi sono detto, siamo noi a servire il tempo perché ci troviamo palesemente, e non più metaforicamente, in balia del non sapere. Il socratico “sappiamo di non sapere” non è più un artificio metodologico: è proprio così. In questi giorni scopriamo che l’universo della precisione di Alexandre Koyré esiste fino a un certo punto. Siamo ritornati (momentaneamente?) nel mondo del pressappoco. Anche quelli di noi che si sentono bene non sanno se per caso non siano portatori asintomatici: ospitiamo microrganismi patogeni, e potremmo trasmetterli, senza avere sentore alcuno della malattia.

Tutti noi abbiamo vissuto l’epopea del progresso scientifico e tecnologico, ci siamo nati e cresciuti dentro. Abbiamo sempre inconsciamente escluso la totale ignoranza. Se infatti è vero che sono indefinite le cose che non sappiamo, è anche vero che abbiamo a disposizione strumenti che ci permettono di averne conoscenza con poco sforzo e quasi immediatamente. In questo senso, Wikipedia è il modello del possiamo-sempre-conoscere-tutto. Ma nell’Era del Coronavirus no. Nemmeno gli scienziati sanno che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Cercano di sapere, perché è il loro mestiere, e noi speriamo che ci riescano presto. Ma a ogni occasione dichiarano la precarietà di ogni loro previsione, come a proposito della durata dell’immunizzazione dopo l’infezione (qui).

5.

Se così nell’era del Coronavirus il tempo e il sapere sono un terreno buio davanti a noi, per quali vie un tantino illuminate possiamo camminare?

La via epistemologica, abbiamo detto, è quella del futuro indeterminato. Sulla via fenomenologica, però, possiamo sospendere ogni giudizio e zittire ogni angoscia (già, esiste anche la via psichiatrica), non pensare al futuro e spremere il presente di ogni suo succo.

Poi c’è la via poetica, che spesso consola e a volte insegna. E così m’è venuta in mente una canzone di Fabrizio De André e Francesco De Gregori del 1972: Canzone per l’estate. È un discorso rivolto a un tizio – il classico uomo comune, borghese o imborghesito, o proletario soddisfatto – che vive la propria esistenza con ordine e programma, dentro una quotidianità consolata da azioni ripetute: la moglie che lava i piatti, la figlia vanitosa, il cane e le rose in giardino, “ogni giorno un altro giorno da contare”, e soprattutto niente per potersi vergognare (riascoltatela). Insomma, chi più chi meno quel tizio siamo tutti noi. Ma a quest’uomo viene rivolta un’ironica domanda: com’è che non riesci più a volare?

Riascoltando la canzone, parrebbe che De André e De Gregori oggi ce la canterebbero così: “Beh, con tutta la vostra scienza com’è che non riuscite nemmeno a sapere quanti giorni dovete rimanere chiusi in casa?”. Ma sappiamo che la metafora del riuscire a volare è un implicito consiglio: non menatevela con la vostra vita in perenne ricerca di “tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente”; il giorno in cui arrivasse uno sgambetto della natura, come un inconoscibile virus, la vostra vita perfettamente ordinata e programmata rischierebbe di saltarvi in aria. Meglio se imparate a camminare anche per ignoti sentieri, senza sapere dove e quando arriverete. Conviene imparare a volare.

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