L’eredità immateriale di un materialista. Ricordo di Massimo A. Bonfantini

He knew then that men died at haphazard like that, and lived only while blind chance spared them.
Sapeva che gli uomini potevano morire in fatalità come quella, e vivevano solo finché il caso cieco li risparmiava.
(Dashiel Hammett, Il falcone maltese1


Quando parliamo di eredità morale, ovvero di tutela e presidio di un valore immateriale, quale una testimonianza di vita, un edificio teorico, un patrimonio di cultura o di conoscenza, le cose cambiano. Non esistono leggi di successione, ma solo norme, atteggiamenti, schemi di comportamento. E dunque possibilità di inventare.

La prendo così per parlare dell’eredità morale e intellettuale che ho ricevuto da Massimo Bonfantini.

Tra le cose che dalla vita credo di aver appreso (perché ci si può sempre aspettare che una teoria sia scalzata da un nuovo fatto) c’è che le eredità morali si trasmettono in due modi.

Il primo è osmotico: consiste nell’assimilazione inconsapevole di abiti. Con un esempio semplice, se per anni sei abituato a stare assieme a persone puntuali, non è certo, ma è più probabile, che tu stesso lo diventi. Nulla di nuovo, ma non sempre ne valutiamo le conseguenze. E c’è una premessa importante: rispetto agli insegnamenti che riceviamo consapevolmente, possiamo reagire conformandoci o opponendoci, ma rispetto a quelli inconsapevoli non siamo in grado di fare nulla. Di solito si parla di abiti come quelli religiosi e culturali, e una persona dice “Ho avuto un’educazione cattolica”, o “Sono cresciuto in una famiglia ebrea” per spiegare certe caratteristiche profondamente assimilate. Ma non sono solo quelli. Dunque, possiamo cambiare idea sul giudizio che diamo a ciò che abbiamo appreso, ma non possiamo cancellare ciò che abbiamo imparato né gli effetti di tale apprendimento. Possiamo solo contrastarli, sostituirli, correggerli.

Un altro principio che l’età ci insegna è che quando scegliamo comprendiamo poco, e man mano che comprendiamo di più, scegliamo sempre di meno. Che cosa sapevo della filosofia quando mi iscrissi al corso di laurea era, per quanto possa essere stato uno studente sfaticato, meno di quanto sapevo al termine di esso. Non si può mai scegliere un percorso di apprendimento avendo la piena consapevolezza di ciò che sapremo e saremo alla fine di esso, perciò si sceglie senza sapere. E quando si sa, non si può più scegliere un percorso che ci renda diversi, perché siamo già diventati qualcosa.

In conclusione: come è vero che siamo parlati dal linguaggio (lo scrissero Heidegger e Derrida ma non sono mai riuscito a trovare i passi precisi), così siamo formati dalla formazione, e la scelta di quale soggetto ci formerà, determinando il modo in cui vedremo il mondo e valuteremo la nostra stessa formazione, è in gran parte casuale, non solo, ma i criteri sulla base dei quali la scegliamo (o crediamo di sceglierla) non sono stati influenzati da essa, perché non possiamo conoscerla veramente. Così, per esempio, non può essere l’esperienza diretta della vita militare che mi fa scegliere la carriera militare. Le esperienze formative, allo scopo di rassicurare chi le ha scelte, includono sempre una valutazione positiva di sé stesse: anche per loro funziona la legge della dissonanza cognitiva. Quindi qualsiasi scelta io faccia, tale scelta affermerà di essere la scelta migliore. Dunque, siamo quello che siamo in gran parte per caso.

Una fondamentale differenza tra le persone è tra coloro che ammettono questa casualità e coloro che la rifiutano.

Chi rifiuta la casualità della propria identità o lo fa perché ha fede in qualche forma di Provvidenza, e dunque ne riconosce la casualità soggettiva ma non oggettiva, o perché mente. In genere, mente per non dover ammettere che difende il proprio essere anche se esso dipende in gran parte dal caso. Spesso la casualità viene rifiutata anche perché implica l’ammissione che le scelte degli altri sono simili alle nostre, e dunque in parte giustificabili (ma non per questo sempre accettabili, ovviamente).

Tra le persone che ammettono la propria casualità, alcuni si convincono che le loro scelte, comunque fatte, sono tuttavia le migliori, altri arrivano a maturare un certo distacco da esse. È superfluo ma utile notare che i primi, che chiamerò ‘convinti’, tendano ad essere valutati molto di più dei secondi, gli ‘scettici’.

Per come l’ho messa giù, ora pare che gli scettici siano più intelligenti. E confesso di essere uno di loro. Ho anche delle ipotesi sul perché io lo sia, ma non tedierò il lettore con fatti così poco interessanti. Comunque, non è vero: nessuno è meglio dell’altro, e spero di mostrarlo tra poco.

Eravamo però partiti dai due modi di ricevere un’eredità morale, e abbiamo visto il primo. Che possiamo concludere dicendo che l’eredità per osmosi è in sostanza casuale e che i suoi effetti in gran parte sono incancellabili, ma che ad essi possiamo opporci consapevolmente. Rispetto a questo, Massimo era ben consapevole della sua educazione di borghesia illuminata e robustamente ancorata a una Resistenza più che militante, militare. Ad essa era ancorato, ma ad essa aveva apportato robuste e faticose modifiche e integrazioni. Dal padre aveva preso abitudini e convinzioni pratiche, altre le aveva costruite da sè.

Vi è comunque un secondo modo di ricevere un’eredità morale, ed è quello consapevole. Esso si sviluppa in genere parallelamente e successivamente all’inizio della trasmissione osmotica, e non ne può prescindere. Una persona cresciuta nella fede cattolica può sviluppare dubbi e incertezze su di essa fin dalle prime lezioni di catechismo, e giungere più tardi e razionalmente a farne una piena assunzione o un’interpretazione personale o a respingerla. Credenti ed ex, alla fine, condivideranno però la prima fase della propria educazione, e un background comune ineliminabile.

In ogni caso, nelle persone che diventano consapevoli di un livello inconsapevole di formazione di sé stessi, si produrrà dunque una separazione tra abiti appresi per osmosi e incancellabili, anche se rifiutati e controllati, e nuovi abiti assunti consapevolmente.

Da Massimo Bonfantini ho ricevuto entrambe le forme di eredità, e di quanto ho ricevuto, di alcune cose neppure so, a qualcosa mi oppongo, di altro sono grato, altro ancora cerco di evolverlo.

Nella mia disciplina, la semiotica, ho avuto tre maestri. Uno virtuale, Charles Peirce, due materiali, Umberto Eco e Massimo Bonfantini. Solo con Massimo però ho approfondito l’amicizia al punto di sentirmi quasi parte della famiglia.

Prenderò a esempio il nostro rapporto, dunque, per cercare di mostrare come i due atteggiamenti rispetto alla propria casualità, i convinti e gli scettici, siano in definitiva equivalenti, ma assolutamente non uguali. Complementari, ma non speculari.

Prima però alcune righe di biografia intellettuale.

Puntava sempre al sodo, anche se a volte vi giungeva per vie tortuose, e non aveva alcun dubbio di essere arrivato a possedere la teoria migliore, e la sua personale. Il suo modo di lavorare era nettamente diviso tra l’ambito orale e quello scritto. Cosa rara in un umanista, non prendeva appunti. Io almeno non l’ho mai visto farlo, se non in qualche raro caso, come quando ti chiedeva i riferimenti di una pubblicazione. Quando parlava non seguiva gli appunti, o pochissimo. Questo gettava nel panico i presidenti delle conferenze, perché era impossibile prevedere quando il fiume verbale si sarebbe interrotto. Esaurirsi, mai, non è mai successo che finisse per non aver niente da aggiungere.

Nello scrivere era invece metodico, aveva uno stile unico e di grande efficacia. Era scarno, essenziale ma forte nelle espressioni; sceglieva con cura le parole, le metteva giù come un posatore mette giù le piastrelle: senza poterle più togliere. Qualcosa correggeva, ovviamente, ma non rifaceva quasi mai. Nell’impianto razionale e illuminista del suo testo, inseriva espressioni e modi di dire che erano leit motiv di spessore teorico. Tra tutti penso a una delle sue frasi preferite: “fa materia di problema”.

Massimo si è sempre comportato come se fosse dovere di ogni studioso di filosofia formulare una sua teoria, o almeno specificare una posizione. Dalla combinazione di Peirce, Marx e Mao, arrivò al ‘socialismo ecologico’ e al ‘materialismo storico pragmaticista’; lavorò su temi quali l’abduzione, la forma dell’inventiva, la fantascienza come utopia, il dialogo, il progetto e la storia del ’900 italiano. Questi elementi sono tutti interconnessi, e costituiscono un approccio del tutto originale, pur non formando un sistema di vecchio stampo.

Della scuola di Bologna, vale a dire il gruppo di studiosi che si formò attorno alla cattedra di Eco, includendo anche Paolo Fabbri, che allievo di Eco non si può definire, Bonfantini è l’unico che osa e pratica un tale obiettivo teorico. In un certo senso lo vive, come ho detto, come dovere. Il suo approccio alla filosofia è rigoroso, e ha solide basi morali e politiche. Nonostante non sia tra i filoni che prediligeva, vi è nel suo lavoro una componente esistenziale, sia pure scevra di qualsiasi fatalismo o passività. Sempre ha deriso atteggiamenti quali ‘Ascoltare l’essere…’, così come il ‘pensiero debole’ da una parte, la futurologia e i peana del marketing dall’altra. La sua lettura di Platone, che rappresenta l’ultimo grande contributo, è un esempio degno di rispetto e ammirazione. Che un non classicista legga e commenti l’intera opera di Platone appare certamente ai super-specialisti un gesto avventato, ma quando Bonfantini si confronta con un pensatore, che sia Marx, Peirce o Platone, è così concentrato sui temi specifici e così rigoroso nel procedere, che qualsiasi accusa di rispecchiamento narcisista è insostenibile, quanto altresì qualsiasi forma di sottomissione intellettuale. Massimo rivendica la sua visione teorica di fronte a qualsiasi testo, e la dichiara senza fraintendimenti. Platone non è il ‘suo’ Platone, è un percorso di lettura robustamente sostenuto e legittimato, ma originale e ‘orientato’.

Non ha mai creduto nell’analisi semiotica dei testi come ricerca del loro significato immanente, ma li ha sempre usati per condurre l’indagine secondo le sue prospettive. Così, la sua lettura di Peirce programmaticamente tiene ai margini le posizioni metafisiche e la fenomenologia più tarda, così come le venature idealistiche. Riesce tuttavia a costruire un Peirce coerente e a operare i tagli in modo sensato, così da non tradire l’autore pur offrendone un profilo ‘ottimizzato’. È il giovane Peirce, lo scienziato empirico, il detective, quello che Bonfantini individua. Essendo io l’autore di un libro nel quale ripercorro la fondazione matura della semiotica di Peirce proprio sulla base della fenomenologia e nel quadro del suo sistema filosofico, includente la metafisica, non parlo pro domo mea, quando dico che fu opportuno che Massimo producesse quel Peirce, influendo notevolmente anche sulla prima ispirazione peirceana di Eco. Il Peirce completo, maturo, è più coerente e sistematico, ma richiede professioni di fede filosofica non sempre accettate dagli studiosi del secondo ’900. La classificazione dei segni della Grammatica Speculativa, quasi tutta dei primi del ’900, se avulsa dalla fondazione faneroscopica, non riflette la posizione di Peirce. Tuttavia è in questa veste che Eco e la semiotica interpretativa la accolgono negli anni ’60-’70. Di per sé, la triade Icona-Indice-Simbolo ha generato mostri quanto il sonno della ragione, prima di rivelarsi uno strumento poco adatto all’analisi dei segni e dei testi così come la semiotica li ritrova nei media e nel discorso comune. Ma se la semiotica degli anni ’60-’70 non fosse stata così sicura di sé, con le sue categorie nuove e sconcertanti, interpretative o strutturaliste che fossero, l’intero mondo mediatico attuale non sarebbe quello strumento poderoso che è diventato. Dato che l’eterogenesi dei fini non è volta, vichianamente, a un disegno superiore, ma alla presa in giro di chi tenta di prevederne uno, oggi, rileggendo le pagine di analisi dei media di quei decenni, apocalittiche o integrate che fossero, appare evidente che l’industria di Hollywood e il marketing le hanno lette meglio dei riformatori della società. Ecco perché chi crede nella propria strada e la percorre con convinzione e coerenza (i convinti) non è secondo a chi non riesce a evitare una certa ironia nello sguardo. Costoro sono impegnati ad andare da qualche parte, e testimoniano all’uomo il fatto che nessuno di noi ha alcuna funzione se non nell’insieme degli eventi, pur non essendo mai in grado di sapere quale, e dunque rappresentano una forma fondamentale del coraggio.

Di questa forma del coraggio intellettuale (e non solo) Massimo Bonfantini è stato un esempio fino all’ultimo. Ha voluto il più possibile determinare la propria vita, ed ha avuto la sorte di poter essere se stesso fino all’ultimo giorno.

Come suo allievo, pur riconoscendomi tra gli scettici e ironici, rivendico un coraggio del secondo tipo, che è quello di accettare la natura casuale delle cause e degli effetti dell’essere umani. Se in questa posizione vi è un minor coraggio nell’azione, ve ne è uno maggiore nella consapevolezza. Entrambe le forme di coraggio, in una inevitabile semiosi, ne producono una terza, un interpretante, che contemporaneamente afferma che siamo solo umani, ma nel farlo dimentica la parola ‘solo’.

Tutelare l’eredità morale dei nostri maestri e amici è forse questo: condividere i pensieri e gli affetti in qualche modo depositati nel nostro cervello e corpo e generare discorsi che trasmettano e trasformino le tante sfaccettature dell’unicità che sono stati.

1 Massimo citava spesso questo passo di Hammett, dove si racconta la storia di un certo Flitcraft, il quale, scampato per un capello a un incidente mortale del tutto casuale, cambia la propria vita di punto in bianco. Il nome che assume nella sua nuova identità è, curiosamente, Charles Pierce, assai simile a Charles Peirce. Questo gli faceva ipotizzare che Hammett in qualche modo lo conoscesse, anche perché l’episodio è strettamente legato a una filosofia del caso, elemento molto importante nella visione di Peirce.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *