- Momenti, fra Obama e la crisi di Occupy
New York, Concrete jungle where dreams are made of, Ther’s nothing you can’t do, Now you‘re in New York, these streets will make you feel brand new, the lights will inspire you, lets here it for New York, New York, New York.
Atterrare qui significa ritrovarsi in un Empire state of mind che ti avvolge tra i fragori di Jay-z e Alicia Keys, il dedalo di storie che ha fatto innamorare Sinatra e De Niro, l’utopia irrealizzata che ha partorito eroi come Superman e Batman e mostri come Godzilla, che non poteva materializzarsi in altro loco se non tra i grattacieli intorno a Wall Street.
Il primo anno ci sono passato poche volte davanti a Wall Street. Ricordo di essere stato in quella zona in occasione del September Eleven e di essere incappato in un fronteggiamento tra una manifestazione a favore della costruzione del centro islamico a pochi blocchi dal Ground Zero, e dall’altra parte una folla di fanatici che invocava Gesù e paragonava questo centro ad un santuario nazista da costruire accanto ai luoghi dell’Olocausto. In quelle settimane, da Obama in giù, qui a New York si parlava solo di questo, e in termini di pro o contro. Un po’ come si parla oggi del faccia a faccia presidenziale. Nel fronteggiarsi degli schieramenti, le vittime di quell’11 settembre 2001 passavano in secondo piano: i fatti di quel giorno nella memoria degli abitanti assumevano dimensioni sempre più surreali, persino quel poco di umanità che la tragedia aveva regalato a questa gente di corsa appariva ormai sfumata del tutto. Da quel che mi avevano raccontato infatti, nei mesi e anni successivi al fallout del September Eleven i new yorkers avevano sviluppato una coscienza maggiore di vivere in una metropoli vulnerabile, si era sprigionato un nuovo senso di socievolezza e solidarietà, sorridevano perfino agli stranieri, grazie alla vulnerabilità che li aveva colti di sorpresa e che li aveva costretti ad empatizzare con la vulnerabilità degli altri. Un senso di calore e reciprocità che dopo dieci anni appare lontano, giacchè la stragrande maggioranza di coloro che vivono nella city risultano di nuovo e sempre busy, so busy, crazy busy!
Ricordo che era stato più emozionante passarci la prima volta accanto a Ground Zero, una sera di agosto, attratto dal vuoto che si apre tra i grattacieli di Tribeca e dal rumore delle ruspe che lavoravano giorno e notte. E ancora oggi è pieno di operai al lavoro nel grande cantiere. Gli stessi operai che nell’agosto 2010 hanno scoperto un vascello del Settecento rimasto sottoterra indisturbato per oltre 200 anni. Al di là dei vari memoriali che ci han costruito intorno, mi aveva incuriosito il recinto che circondava il cantiere: era arredato di cronologie sugli eventi accaduti quel fatidico e triste giorno, e di cartelloni che descrivevano nei dettagli il progetto futuro in quel luogo. Narrazione americana, appunto. Vera e propria immaginAzione: le vestigia del passato proiettate verso il futuro.
E poi mi avevano colpito i turisti che con le macchine fotografiche tentavano di riprodurre il nulla. Come si fa a riprodurre un’assenza? Come si fa a fotografare il vuoto? Me lo chiedevo mentre guardavo gli aerei che lo attraversano quel vuoto, e al contempo mi rendevo conto che mi ero lasciato troppo suggestionare dalle immagini televisive.
Quando ci sono tornato l’anno successivo, a parte le commemorazioni per il decennale, mi è invece sembrato che le smisurate torri di cemento e vetro avevano retto l’urto terrificante degli aerei sulle Twin Towers solo per potersi trovare oggi ancora li, a dominare i protesters accampati da ormai 3 settimane a Liberty Square. Che poi il nome ufficiale ho scoperto essere Zuccotti Park, ma sarà che (ri)nominare è sempre un po‘ dominare, nelle lunghe serate d’autunno quel quadrato di cemento in mezzo ai grattacieli lo si chiamava così: Liberty Square, appunto. Incredibile l’effetto che facevano le centinaia di giovani e meno giovani lì costretti tra il traffico di Down Town e le gru del Ground Zero, stipati in pochi metri quadri di aiuole, con i cartelli We are the 99% e Kick off the criminals from Wall Street, i sacchi a pelo sui cartoni, perché le tende sono vietate, il cibo pronto da distribuire ma senza fornelletto che è vietato, così come è vietato l’uso del megafono, per cui passando di lì dalle 7 alle 8 di sera si sentiva un coro di voci che ripetevano la stessa frase diffondendola nell’aria. Era il modo ingegnoso che avevano trovato per comunicare in 200, nel mezzo del delirio della city, senza supporti tecnologici: uno va al centro e parla, e tutti gli altri in cerchio ripetono la sua frase voltandosi verso quelli dietro. Ingegnosi e creativi, certo, anche se poi diventava davvero difficile risucire a capire quel che si discuteva.
Ero stupito dal modo in cui i partecipanti di Occupy Wall Street agivano con forza e determinazione e al contempo rispettavano la legge. La marcia del 5 ottobre 2011 sembrava una transumanza di vacche: costrette tra le transenne, più di diecimila persone, di ogni età e stato d’animo, si sono riunite in Folsey Square, davanti a Capital Hill, e io con loro, e da lì ci hanno fatto transitare verso Liberty Square, ma solo sui marciapiedi, che le strade erano transennate e guai a chi osava scavalcare o anche solo spingere, che una quantità in(de)finita di robo-cops erano lì pronti con le loro reti arancioni, il pepper spray e le manette di plastica bianca ad arrestare in massa. Come avevano già fatto il sabato prima, quando sul Brooklyn Bridge se ne sono caricati 700. Ricordo che dopo aver urlato per un bel pezzo One day One week, Occupy Wall Street, avevo seguito due amici verso casa, per poi trascorrere la serata incollati al live stream del movimento, a commentare quel che accadeva comodamente seduti sul divano ad ingurgitare birre e hamburger, da bravi “mmerigani” che vivono nella mediapolis, più che nella metropolis.
Checchè se ne dicesse sui giornali, a me i giovani e meno giovani che occupavano Liberty Square stavano proprio simpatici. Disorganizzati e general-ingenui quanto si vole e pote, ma almeno sono gli unici che agiscono, e che pur non avendo idea di come e fino a che punto si possa realizzare la rivoluzione, hanno smesso di lamentarsi e inseguono la loro utopia: immaginare un’alternativa nel cuore di un impero che ha come slogan Not an alternative. Questo pensavo lo scorso anno. E lo penso ancora. Tanto piu‘ di fronte alla noia mortale del dibattito presidenziale in tv.
Mentre sullo schermo si passano gentilmente la parola i due candidati, mi viene in mente che lo scorso ottobre avevo raccontato in una mail collettiva le mie sensazioni a Liberty Square… La city assorbe il dolore e la memoria, tutto assorbe la city, pure il bisogno di condividere e il tormento di essere lontani da casa. Mentre non assorbe l’ansia. No, quella anzi la genera e la distribuisce in parti uguali, che almeno in questo appare democratica. O forse no. Quando siedo in cerchio nella general assembly di Liberty Square e l’ansia si attenua un po‘ mi accorgo che questo stato emotivo è legato alla solitudine tipica di questa città che vuole vedere se sei capace di adattarti, di superare il trauma dell’approdo, l’angoscia intensa e generalizzata di essere qui, al centro dell’universo, e al contempo in nessun luogo, che tutto è fittizio e stressante eppure così iperreale da ingenerare un profondo disagio duro da scavalcare.
Occupy l’ansia, dunque, mi dico mentre mi avvio verso lo spazio occupato a lato di Wall Street, che la partecipazione fa sentire meno soli e poi questa sensazione di contribuire a costruire una narrativa diversa mi attrae come fosse una donna avvenente ma che non se la tira, una di quelle che ti fanno venire le farfalle in pancia ma senza sindrome da prestazione. Che se non dovesse andare, mi dico, va bene poi lo stesso. Importante è partecipare.
Come succede in questo spazio di tende e libertà appunto, dove si dà inizio a qualcosa di cui non si intravede neppure la fine, eppure non ci si tira indietro per questo, non ci si demoralizza prima ancora di iniziare, perché nel mentre si ha la sensazione di dare vita a qualcosa di rivoluzionario, una diversa architettura della coscienza per esempio, un nuovo ordine che emerga dal caos. New paradigm under construction, please pardon the mess! Recita così il mio cartello preferito.
Geniali questi americani che reclamano la dignità di esistere, il diritto di immaginare un mondo diverso, discutendo per ore col loro mic check che riempie l’aria e i cuori degli astanti. l’altra sera, per esempio, si discuteva se donare 20mila dollari agli Occupy di Oakland, arrestati dopo gli scontri con la polizia, perché qui a New York ne hanno raccimolati ben 140mila in piccole donazioni, mentre lì ci sono da pagare gli avvocati. Tra i cori che fanno l’eco agli interventi dei singoli e le mani alzate ad esprimere l’accordo saremo andati avanti 2 ore buone, e quando il consenso sembrava ormai raggiunto, al momento della votazione finale due ragazze ben vestite hanno incrociato le braccia per bloccare la proposta, esprimendo il loro veto e costringendo i quasi 200 partecipanti a proseguire ancora il dialogo, sino a quando l’approvazione diventava unanime e finalmente si decideva di devolvere la somma a favore dei compagni di Oakland (anzi degli occupanti, che nonostante lo slogan The only solution is WorldRevolution, anche qui compagni suona sempre troppo comunista).
E una volta raggiunto il consenso, come mossi da un’energia improvvisa, son partiti i tamburi, i berimbau e le cornamuse e ci si è lanciati direzione City Hall al grido unanime Whose streets? Our streets! E dovevate vedere quei 4 poliziotti presenti che faccia avevano, come a dire What the fuck, occupate le strade senza avvertirci prima?
Ebbene si, senza preavviso la massa di persone si lancia sulle strade intorno a Wall Street come fosse l’incarnazione fisica della speranza. Qui si è coscienti che la speranza ha i suoi costi, che non è facile o confortevole, che richiede sacrificio e fede. Si dorme tra pioggia e neve ogni notte, coi vestiti bagnati ci si ciba di burro di arachidi e pizza come non ci si sarebbe immaginato un mese fa. Per poi continuare a protestare, cantando e discutendo in interminabili assemblee, marciando coi cartelli contro lo spray al peperoncino e i calci della polizia, lasciandosi arrestare senza reagire alla violenza nell’attesa e col desiderio che qualcosa cambi, che si trovi un modo per uscire dal labirinto del potere delle corporations. Questo significa oggi essere vivi per quelli che sono i migliori tra noi, penso correndo e urlando nel labirinto di grattacieli… ma il tutto dura un attimo intenso e prolungato, un lungo interminabile momento di gloria, durato il tempo dell’arrivo dei rinforzi, a piedi e con gli scooter a tirar schiaffoni e pedate ai pedoni non autorizzati che mai reagiscono alla brutalità della divisa nera, e i trucks rossi dei firefighters di traverso a bloccare gli accessi, e quelli a cavallo e persino in elicottero, da vera scenografia hollywoodiana. E io spettatore-partecipe che non me l’aspettavo mi son fatto prendere dalla trama del movie e per poco non ci finisco tutto intero nella trama, che quando ho visto le reti arancioni intorno ai miei jeans e il manganello a mezzo metro dal naso mi son detto Shit! E’ finita l’avventura… ma la paura è passata quando hanno arrestato i due che mi urlavano affianco, mentre io quatto quatto mi defilavo.
Emozioni intense di un autunno che pare avvenuto tanti decenni fa, eppure sono trascorsi solo pochi mesi. Primavera, estate, e ancora autunno… a New York. Un’altra New York, nella stessa America.
di Pierluigi Musarò