Gianni Colombo al Castello di Rivoli, tra fruizione e conservazione

Recentemente, durante un viaggio a Torino, abbiamo visitato una mostra su Gianni Colombo (Milano 1937-Melzo 1993), allestita nella Manica lunga del Castello di Rivoli. Mostra antologica, ben curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marco Scotini, all’interno della quale abbiamo potuto ammirare alcune delle opere più significative dell’artista milanese del “Gruppo T” e dove è stato possibile ricostruire il suo percorso artistico, dall’interesse per il Surrealismo di Max Ernst e per la poetica di Paul Klee, fino alla sua ricerca più originale, degli anni Cinquanta e Sessanta, caratterizzata da sperimentazioni di strutture percettive e linguaggi. Nella mostra sono state esposte opere in ceramica, progetti grafici, opere materiche e cinetiche fino a varie installazioni, progettate per essere “praticabili” dai visitatori. Su queste ultime ci vogliamo soffermare, perché richiamano uno dei principi fondanti la poetica dell’arte programmata, cioè la fruibilità e la praticabilità delle opere, che in questa mostra è diventato un aspetto problematico poiché i pezzi esposti hanno ormai alcuni decenni e il tempo, che fa il suo lavoro, li ha un po’ deteriorati. Inoltre, alcuni meccanismi specifici di altre opere, sebbene perfettamente funzionanti all’inizio della mostra, si sono usurati nel mentre; in altri casi invece si sono potuti mostrare solo i modelli progettuali. Mostra sicuramente “impegnativa” per i curatori e per gli organizzatori, che evidenzia maggiormente un problema assai complesso e dibattuto che riguarda più in generale la conservazione e il mantenimento in attività delle opere di arte contemporanea.

L’archivio Gianni Colombo, proprietario delle opere esposte, aveva, per esempio, negato ai curatori la facoltà di sostituire parti di opere, anche minime, una volta rotte; si potevano aggiustare i meccanismi ma ogni pezzo dell’opera doveva rimanere integralmente “originale”.

Tutto ciò è legittimo e ragionevole da un certo punto di vista, ma ci ha anche fatto riflettere su alcuni aspetti circa la conservazione e il funzionamento semiotico di tali opere, rese fragili dal tempo e quindi, per consentire la loro futura integrità, non più fruibili pienamente dall’attuale visitatore. E questo è ancora più paradossale, volendo, se si tiene conto che le opere di arte cinetica sono state costruite sulla base di progetti, talvolta molto dettagliati, rivolti programmaticamente ad attivare l’azione del fruitore; sono di fatto il primo esempio di arte programmaticamente interattiva della storia. E’ superfluo qui ricordare come siano state questo genere di opere che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, hanno inaugurato la stagione del rapporto tattile e corporeo con l’arte (e non solo con quella contemporanea). Stagione che si è poi conclusa negli anni Ottanta con il progressivo riallontamento del fruitore dalle singole opere, con grande fatica per i custodi dei musei di mezzo mondo…

L’inutilizzabilità effettiva di alcune di queste opere ci ha restituito dunque un senso di insoddisfazione, ma ci ha anche stimolato a pensare a quali “nuovi” processi semiosici si possono attivare di fronte a questa specifica condizioni di fruizione.

La mancanza di una effettiva esperienza di alcune opere non avveniva infatti solamente per la loro inattività forzosa: ausilii di immaginazione e completamento cognitivo erano necessari anche per altre come, ad esempio, per le installazioni cacogoniomentriche di cui, per evidenti motivi di ingombro, erano esposti solo i modellini.

Ma il tipo di esperienza percettiva programmata dalla serie intitolataArchitettura cacogoniometrica (anni Ottanta)in particolare la consapevolezza di quanto l’assetto corporeo influisca sulla percezione del nostro intorno spaziale, poteva essere recuperata e “immaginata” dopo aver percorso un’altra opera presente in mostra, questa perfettamente fruibile; si trattava di Bariestesia (1974-75), percorrendo la quale ci si trova ad affrontare una successione di piani variati in inclinazione e ampiezza che enfatizzano il disturbo percettivo creato dal frequente cambiamento di assetto spazio-corporale.

In questo caso, c’era un altro particolare a rendere l’esperienza un po’ paradossale: chiunque volesse percorrere gli scalini variabili dell’opera, doveva firmare una liberatoria che sottraeva il museo dalle responsabilità di eventuali danni personali conseguenti alla fruizione; effetto certo dei cambiamenti normativi intercorsi, ma anche di un radicale cambiamento culturale.

Certamente le sensazioni prodotte dalle successive, biograficamente, opere cacogoniometriche sviluppavano ulteriormente il tipo di percezione spaziale che si può avere quando il corpo si muove su un piano irregolare e il campo visivo deve fare i conti anche con elementi verticali niente affatto ortogonali. Ma dato il limite spaziale disponibile, gli allestitori hanno confidato sull’efficacia stimolatoria dei modelli, anche se, crediamo, solo coloro che hanno avuto occasione in passato di indugiare all’interno di cacogoniometrie potevano comprendere appieno come l’artista avesse sottilmente modulato l’inquietudine scaturita dal percorrimento di un piano curvilineo, in cui la percezione muta progressivamente senza poter mai fidarsi di una qualsivoglia planarità, magari anche sghemba.

Ma certamente le opere più mute ed enigmatiche erano quelle cinetiche come, ad esempio, Strutturazione fluida (1960).

Mutili, alcune, del loro dispiegamento motorio, richiedevano sforzi immaginativi che la guida cercava generosamente, quanto vanamente, di riempire. Ed è ovvio constatare come il senso di un’opera interattiva possa solo blandamente essere compresa cognitivamente. Creati come dispositivi destinati a sollecitare risposte comportamentali e quindi a strutturare precise condizioni e stimoli percettivi, la condizione di fruizione contingente ci costringeva a immaginare la loro attività e il campo di stimoli percettivi che avrebbero potuto produrre: il sistema di effetti cinetici e motori che il programma autoriale aveva previsto, senza però poter avere esperienza degli effetti reali. In sostanza, queste opere sono diventate per noi dispositivi per immaginare le varie possibilità produttive, una sorta di doppia virtualità dove è necessario immaginare prima il funzionamento e poi gli effetti prodotti e ricostruibili, enciclopedicamente, su esperienze percettive già provate in passato.

Questa esperienza di visita ci ha in sostanza convinto del fatto che queste opere, per continuare a esistere e a significare, anche solo come testimonianza di un movimento artistico del Novecento, hanno bisogno di essere replicate (come del resto era previsto per molte di loro). E lo diciamo proprio nel pieno rispetto della poetica dell’arte cinetica e programmata. Certamente non si devono trascurare gli originali che, sebbene sempre descritti da accurati progetti, potrebbero contenere dettagli costruttivi e materiali non completamente preordinati, ma definiti in itinere dall’autore e quindi utili per ulteriori pertinentizzazioni interpretative dell’opera. Ci sembra però singolare che, nel momento in cui l’arte interattiva di matrice digitale diventa sempre più sperimentata e praticata, le opere che hanno inventato questa forma di ricerca artistica diventino sempre meno fruibili.

È l’inevitabile conseguenza di un processo di museificazione? E’ una questione della fortuna critica? O forse solo di feticismo degli oggetti “originali”? Qualsiasi siano le motivazioni, anche lecite, per questa situazione, crediamo che comunque sarebbe necessario trovare un modo per una diversa e del tutto meritata valorizzazione di questo importante movimento artistico. Non a caso, come ci raccontava anni fa Giovanni Anceschi, già artista e sodale di Gianni Colombo nel “Gruppo T”, i giovani sviluppatori dei sistemi di realtà virtuale li hanno riconosciuti, già all’inizio degli anni Novanta, come propri precursori.

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