Una nota di pragmatica storica: fino ad alcuni anni in Italia fa si diceva ‘Buona Pasqua’ e nessuno si chiedeva se il ricevente del saluto fosse credente o praticante o ateo o ebreo ecc. Anche i più anticlericali, massoni e comunisti ricevevano l’augurio e ricambiavano. Il senso del discorso non era in alcun modo inclusivo. Per capirci, non era analogo ad augurare “Buon gay pride!” o “Felice iòm Kippùr”, il che implica che il destinatario faccia in qualche modo parte di un gruppo sociale o religioso che si riconosce in tali festività. Eravamo insomma una cultura non consapevole della propria matrice cristiano-cattolica, vale a dire dei codici sociali impliciti. Tuttavia, era raro sentirsi porgere “Auguri di Santa Pasqua”. L’uso dell’aggettivo era limitato a preti, suore e persone di particolare fervore religioso. Non si riteneva necessario calcare sull’aspetto sacro della festività se non, appunto, in determinate situazioni di interazione. Quest’anno, qualche collega del mio Dipartimento si è premurato di porgere per e-mail gli auguri di Pasqua. Qualcun altro ha risposto usando il termine “santa Pasqua”. Un collega ha replicato precisando di essere ateo e chiedendo di essere dispensato dagli auguri. Le mail si sono succedute, con auguri di Pasqua e Santa Pasqua.
Perché dei laici, in un ambiente di lavoro, hanno adottato questa locuzione? Evidentemente qualcuno desidera marcare una propria adesione alla Pasqua propriamente religiosa. Allo stesso tempo, la logica simmetrica del saluto e dell’augurio richiede che l’enunciatario risponda o in un modo o nell’altro. Se un vicino di casa vi saluta con uno squillante “Buona sera” e voi rispondere con un mugugnato “…sera”, in qualche modo vi dissociate dal valore euforico del saluto. Rispondere con semplici auguri di Pasqua a una ‘Santa’ Pasqua, allora, implica una non-condivisione della santità pasquale, marcando un’assenza. Sul motivo di questa assenza, come in molte interazioni sociali, non vi sono conclusioni certe, ma ipotesi. “Non voglio mettere in mezzo la religione”, oppure “Non sono credente”, oppure “Non voglio dire se sono o non sono credente”.
Tuttavia, non è dalla parte dell’enunciatario che qualcosa non va, bensì dalla parte dell’enunciatore. Il significato dell’atto linguistico, in questo caso, dipende in gran parte dalla situazione di interazione comunicativa. E’ una questione di pragmatica.
In un ambiente nel quale le posizioni religiose e culturali sono dichiarate ed evidenti (per es. un’azienda nella quale i musulmani sono tutti provenienti dal Marocco, i cristiani sono italiani, e vi sono italiani e marocchini non credenti) qualsiasi augurio si faccia, religlioso o laico, la risposta non porta particolari informazioni.
Diverso è il caso in cui, invece, si fanno allusioni a posizioni personali in un gruppo nel quale le posizioni delle persone non sono note. Se qualcuno se ne esce con una frase del tipo “Ma come si fa a mangiare un agnello?”, è evidente che una risposta qualsiasi scopre le carte. L’enunciato mira a provocare una risposta di condivisione, possibilmente sullo stesso tono: “E’ una cosa vergognosa!”. Una risposta evasiva: “Si può fare in fricassea o alla brace” ha già un valore ironico, dunque potenzialmente di non coinvolgimento e dunque di opposizione per un vegetariano militante. Se i valori in gioco sono strategici o comunque identitari, e se le posizioni dei membri del gruppo sociale non sono note, questo tipo di domande assume l’aspetto di una indagine indiretta: “Ti sfido a dire se condividi questo valore, ma non te lo chiedo apertamente.” Si configura una ‘conta’ delle persone sulla base di valori senza che la richiesta sia esplicita. Infatti, in certe situazioni, un discorso di questo tipo significa: “Voglio capire chi è carnivoro senza chiederlo”. Comportamenti di questo tipo, per esempio, vengono attuati da eterosessuali che vogliono spingere un omosessuale non dichiarato a ‘tradirsi’, oppure a simulare un orientamento sessuale.
Il motivo per il quale l’enunciatore non può chiedere apertamente è che la domanda sarebbe invasiva per i codici dell’ambiente sociale in questione. E’ però anche consapevole che una provocazione implicita può ricevere una risposta falsa, e comunque non è mai esplicita, dunque non ha valore ufficiale. Perché allora lo chiede? La risposta più verosimile è che chi fa tali domande mira a verificare l’esistenza di una maggioranza (o comunque una corposa minoranza) di persone che ‘fanno sapere’ di condividere una posizione senza tuttavia dichiararla. Se questa posizione, inoltre, non è pertinente alle dinamiche esplicite dell’ambiente (in un Dipartimento di una Università statale la religione dei membri non ha nulla a che vedere con le questioni di lavoro), una simile indagine sottotraccia assume un carattere esibitivo di un’appartenenza non pertinente: “Noi facciamo sapere che ci siamo”.
Del tutto diverso da un esplicito atto religioso: ogni anno nella sede Universitaria dove lavoro un sacerdote cattolico impartisce la benedizione pasquale, in modo aperto e con invito rivolto a tutti, e adesione ovviamente volontaria.
In un ambiente multiculturale, nella quale si è consapevoli delle diversità, emergono per contrasto anche le identità. Le libere manifestazioni esplicite si contrappongono al rispetto e alla neutralità delle interazioni non personali, ma il territorio intermedio, quello della non consapevolezza, non è più praticabile. E così simili tentativi di ‘conta’ impliciti si devono considerare atti imbarazzanti che infrangono il galateo della nostra epoca.