- Il primo dibattito elettorale e impressioni di ottobre
Il primo dibattito presidenziale faccia a faccia di mercoledì a Denver, Colorado, sembra averlo vinto Mitt Romney. O, magari – come dice l’amico Del Pero – lo ha perso, male, Barack Obama. Il Presidente in carica ha deluso. Lo sfidante è stato decisamente più incisivo. Obama sembrava stanco e parlava come un burocrate, piu‘ che come un leader. Romney, senza troppo esagerare in aggressività, si è presentato come il campione di un ceto medio in difficoltà. Forse in molti non gli hanno creduto, ma di certo ha dato bene l’impressione di essere competente ed empatico.
Seguito in Tv da oltre 60 milioni di americani, molti dei quali non hanno ancora deciso per chi votare, il dibattito presidenziale pare rendere tutti molto nervosi. Quelli che parteggiano da una parte, e quelli che si schierano dall’altra. Tutti tranne me. Forse perché non voto, e dunque non mi sento troppo coinvolto. O magari perché sono tra quelli che non credono a ciò che i candidati raccontano in tv. Anche perché il faccia a faccia presidenziale mi sono ritrovato a guardarlo da una prospettiva diversa: in un vecchio bar di Manhattan, Yippie Museum, in compagnia del movimento Occupy Wall Street. O di quel che ne resta oggi, sarebbe più appropriato dire.
È di nuovo autunno a New York, ed è il terzo anno consecutivo che trascorro il Fall Semester presso la New York University, nel cuore di questa metropoli che si fa chiamare Empire State. Al di là di un lieve pregiudizio figlio dell’antimericanismo diffuso un tempo in Italia, amplificato a dismisura dal doppio mandato guerrafondaio di Bush, quando per la prima volta mi sono ritrovato avvolto da questa meravigliosa illusione che è la city, mi sono subito sentito al centro del mondo. In un luogo fantasmagorico dove tocchi con mano il desiderio non solo di guardare al futuro, ma di provare a immaginarlo e finanche realizzarlo. Perché questo sono gli Stati Uniti, un luogo dove non ci si stanca mai di coniugare futuro e immaginAzione. E a New York, forse più che in ogni altra città americana, si sente la voglia d’inventare, ripensarsi e proiettarsi in avanti di questo paese che pullula di contraddizioni e ineguaglianze. Qui convive il più vertiginoso sviluppo edilizio con gli attivissimi community gardens, lo skyline di Manhattan popolato da oltre metà dei residenti che vivono da soli, perché se lo possono permettere, mentre fuori dalle finestre ospita 1.5 milioni di residenti che vivono sotto la soglia della povertà.
Quando atterrai da questa parte della luna tre anni fa mi sembrava di aver già visto tutto, e al contempo essere stato catapultato in un mondo nuovo. Le ore trascorse a bordo di una metropolitana inaugurata più di un secolo fa, e ancora capace di operare 24 ore al giorno e di trasportare quotidianamente quasi 5 milioni di passeggeri, sono state le più emozionanti. Impossibile annoiarsi nella miriade di volti intorno; impossibile perdersi, che qualcuno è già pronto a riorientarti. E poi sbuchi come bruco nella Grande Mela e ti ritrovi in uno scenario da Empire of the Ephemeral, l’impero che grazie all’emporio ha conquistato il mondo. Attraente, seducente, stimolante, affascinante: nel cuore della Consumer’s Republic si consumano eventi, oggetti e marche come fosse un lavoro atto ad assecondare l’obsolescenza velocissima del tutto.
di Pierluigi Musarò