Negli ultimi anni la semiotica – o almeno la semiotica che da noi va per la maggiore – pare che abbia sempre più voglia di contaminarsi con altre scienze: prima la sociosemiotica, poi la psicosemiotica e più recentemente l’etnosemiotica. Per qualche tempo, mi sono chiesto se non si dovesse dar vita – nell’ambito delle collaborazioni fra la semiotica e le discipline progettuali, dal design all’ingegneria – a una “ergosemiotica”. Il termine, del resto, è già stato coniato, nell’ambito della Human-computer interaction, da Gennady Uzilevsky e altri.
Perché?
Questa tendenza all’estensione non dovrebbe meravigliare più di tanto. Da sempre la semiotica è una disciplina “collaborativa”, strumento scientifico di altre scienze. E poi, ognuno di noi già di per sé sposa la semiotica ad altri mondi, spesso fra loro distanti (filosofia, letteratura, arte, medicina, media, storia, cucina, religioni, ecc.). Siamo un po’ come i profughi di Lost (ultimo episodio proprio oggi) appena precipitati sull’isola: ognuno porta con sé il proprio passato.
Il problema non sta qui. Il problema forse sta nel fatto che le “altre” discipline, per quanto aperte ad accogliere i metodi e gli sguardi semiotici, non sembrano avere esplicitamente fatto richiesta del sapere della scienza dei segni. La accolgono, ma forse senza cercarla.
Ad esempio: perché persiste una certa distanza (di sicurezza?) fra l’epistemologia e la semiotica? E fra la semiotica e le neuroscienze? E perché la semiotica dei “filosofi” mal s’accoppia con la semiotica dei “semiologi”?
Si tratta di una (mia) sconfortata impressione, di un problema, o di una cosa da nulla?