Autore: Giampaolo Proni

Un brano di Dostoevskij

Non resisto a diffondere questo bellissimo brano di Dostoevskij, tratto da L’adolescente. Forse noto agli esperti ma che non conoscevo. L’autore lo inserisce come detto dal narratore, il giovane protagonista della storia. Un romanzo che sotto certi aspetti prefigura A Catcher in the Rye (Il giovane Holden) per il virtuosismo con il quale l’autore empirico (ma perché dobbiamo sempre escluderlo? lui è l’artefice del testo) sa rendere i pensieri e le emozioni tipiche dell’adolescenza. Il brano in realtà è visibilmente un minisaggio di Dostoevskij, che lo adatta con qualche tratto alla mentalità adolescenziale, ma non ci riesce del tutto, perché il complesso del testo è troppo maturo, acuto, ricco di esperienza, per poter veramente essere farina di un sacco giovanile. Ma il tema “riso come vera espressione dell’indole umana”, è troppo brillante e ben condotto per non procurarci un piacere che solo testi di alto livello sanno procurare. L’esordio “riso come comportamento ripugnante” (si pensi alla retorica dell’inno alla gioia Schilleriano!) è grandioso. Buona lettura.

 

Io ritengo che, quando una persona ride, nella maggior parte dei casi diventi ripugnante guardarla. Il più delle volte, nel riso delle persone si manifesta qualcosa di volgare, qualcosa che in qualche modo sminuisce colui che ride, sebbene quasi sempre questi non sia consapevole dell’impressione che produce. Proprio come ignora, come tutti in generale ignorano, che faccia abbia quando dorme. Taluni hanno una faccia intelligente anche quando dormono, mentre ad altri, benché intelligenti, la faccia nel sonno diventa stupida e perciò ridicola. Non so da che cosa ciò derivi: voglio soltanto dire che chi ride, come chi dorme, per lo più non sa nulla della propria faccia. Un’enorme quantità di persone non sa affatto di ridere. D’altronde, qui non è questione di sapere: si tratta di un dono che non si apprende. Lo si può soltanto coltivare, nel senso che è possibile educare se stessi, migliorarsi e combattere le cattive tendenze del proprio carattere: in tal caso anche il riso di una persona del genere potrebbe assai verosimilmente mutare in meglio. Talune persone si tradiscono completamente attraverso il riso e voi improvvisamente scoprite tutti i loro lati nascosti. Persino il riso indiscutibilmente intelligente a volte è ripugnante. Il riso richiede innanzitutto sincerità, ma dov’è mai la sincerità nella gente? Il riso richiede assenza di malignità, mentre il più sovente la gente ride malignamente. Un riso sincero e privo di malignità è l’allegria, ma dov’è mai nella gente, al giorno d’oggi, l’allegria? (Questa sull’allegria nella nostra epoca è un’osservazione di Versilov che mi è rimasta impressa). L’allegria è il tratto che rivela maggiormente la persona, fino in fondo. Certi caratteri rimangono a lungo indecifrabili, ma basta che quella persona si metta a ridere assai sinceramente e di colpo tutto il suo carattere vi apparirà chiaro come se lo teneste nel palmo della mano. Soltanto, grazie al più alto e al più felice sviluppo, l’uomo sa essere allegro in maniera comunicativa, ossia irresistibile e bonaria. Non sto parlando del suo sviluppo intellettuale, ma di quello del suo carattere, dell’uomo nella sua interezza. Quindi, se volete farvi un giudizio su una persona e conoscere tutta la sua anima, non fate attenzione a come tace, o a come parla, o a come piange, o persino a come si commuove per le idee più nobili, ma guardatela piuttosto quando ride. Se una persona ride bene, significa che è una brava persona. Cercate di cogliere, inoltre, tutte le sfumature: bisogna, ad esempio, che il riso di una persona non vi sembri in nessun caso stupido, per quanto essa sia allegra e semplice. Non appena noterete la più piccola traccia di stupidità nel suo riso, significa, senz’ombra di dubbio, che quella persona è di intelletto limitato, anche se non ha fatto altro che sciorinare idee. Se poi anche il suo riso non è stupido, ma la persona stessa, mettendosi a ridere, improvvisamente vi è parsa per qualche ragione ridicola, sia pure un pochino, sappiate che quella persona manca, per lo meno in parte, di dignità propria. Oppure, infine, se questo riso, benché comunicativo, tuttavia per qualche ragione vi appare alquanto volgare, sappiate che anche la natura di quella persona è alquanto volgare e che tutto ciò che di nobile e di elevato avete notato in lui in precedenza o è qualcosa di intenzionalmente finto, o è qualcosa di inconsciamente imitato, e che quella persona, infallibilmente, in seguito muterà in peggio, si occuperà di n«cose utili» e rigetterà senza rimpianto le idee nobili, come errori e infatuazioni di gioventù.

Colloco qui di proposito questa lunga tirata sul riso, sacrificando anche il corso del racconto, perché la considero una delle più serie riflessioni della mia vita. E la raccomando soprattutto a quelle fanciulle fidanzate che sono già pronte a sposare l’uomo da loro prescelto, ma ancora lo osservano con perplessità e diffidenza, non riuscendo a decidersi definitivamente. E non ridano del misero adolescente che propina i suoi ammaestramenti sulla questione del matrimonio, della quale non comprende un’acca. Questo fatto soltanto comprendo, però, che il riso costituisce il più sicuro saggio dell’animo. Guardate un bambino: soltanto i bambini sanno ridere in maniera perfetta, ed è per questo che sono incantevoli. Un bambino che piange lo trovo ripugnante, mentre un bambino che ride e si rallegra è un raggio del paradiso, è una rivelazione del futuro, quando l’uomo diventerà finalmente puro e semplice di cuore come un bambino.

Dostoevskij L’adolescente (BUR p. 358 sgg.)

Schiamazzi digitali

È successa una cosa molto divertente proprio venerdì 21 luglio. L’Università di Bologna, attraverso il suo braccio chiamato ‘Human Resources Strategy for Researchers’, ha inviato una mail a tutti i ricercatori (che sono tanti), chiedendo di rispondere a un questionario online. Con una certa ingenuità, come spesso accade peraltro dentro Unibo, non è stato usato un indirizzo ‘no reply’, e neppure lo stratagemma di mettere i destinatari in ccn, cosa che ormai sanno anche i bambini. Ma tutti potevano vedere l’indirizzo di tutti, perciò, cliccando su ‘rispondi a tutti’, si poteva scrivere praticamente a tutti i ricercatori dell’Ateneo.
Ebbene, il questionario, come a volte capita con analoghi strumenti della nostra amatissima Alma Mater, non era stato testato a sufficienza e molti si sono trovati a disagio, rilevando errori e difficoltà di invio del test. Tutti sanno quanto sia irritante rispondere a 30-40 domande e poi scoprire che non è stato inviato il form e le devi rifare tutte. Se capita due volte, quasi ogni essere umano, se non vi sono cospicui premi in denaro o dure sanzioni, manda a quel paese il quiz e chi lo ha fatto.
Un collega, però, dopo tale rinuncia, ha pensato bene di scrivere a tutti, mettendo in cc il prorettore alla ricerca, facendo presenti le sue difficoltà.
Immediatamente, con il noto effetto che porta a imitare chi scaglia la prima pietra, tutti quelli che avevano avuto problemi con il famigerato questionario, chi perché ‘io ho il mac’, chi perché ha scoperto un bug, insomma per innumeri motivi, hanno cominciato a loro volta a cliccare su ‘rispondi a tutti’ avanzando le loro critiche.
Io leggevo le mail e mi chiedevo quando sarebbe iniziata la seconda fase della crisi di una lista non moderata: il ‘cancellatemi per favore’.
Ed ecco, inevitabilmente, alla ventesima mail di critica arrivano le prime ‘per favore non scrivete a tutti’, che ovviamente sono inviate da tante persone simultaneamente, e dunque generano altro spam e altre ‘per favore non scrivete a tutti’, ovviamente inviato a tutti. Diciamo che venti mail di protesta, più dieci di ‘non scrivete a tutti’, fanno sclerare subito chi ha lo smartphone. Lo smartphone ha abbassato la soglia di fastidio da spam, perché ad ogni mail emette un segnale, che va da un discreto bip a scampanellii e orchestre di ottoni. Immaginate il sereno professore universitario, che venerdì 21 luglio se ne sta in montagna o al mare o a casa a scrivere un articolo che doveva consegnare due settimane prima, che improvvisamente vede impazzire il proprio iphone o android.
Ed ecco piovono le mail di ‘cancellatemi per favore da questa lista’. I poveri docenti non hanno capito che non è una lista con opt out. Ci sei iscritto perché sei un ricercatore. E in ogni caso è venerdì e non c’è assolutamente nessuno che gestisce la lista. Infatti Giovanna Cosenza, che di media se ne intende, lo fa presente con una mail: “Guardate che fino a lunedì nessuno vi cancella. Smettete di inviare mail.” Ma anche questa è una mail. E qui vediamo un principio assolutamente basilare nella comunicazione dei primati (nel senso di scimmie): quando in un gruppo di umani tutti iniziano a parlare sovrapponendo le voci, la spinta imitativa diventa fortissima e tutti vogliono dire la loro. A un certo punto il contenuto che tutti vogliono esprimere è ‘smettete di fare casino’, e un numero sempre maggiore di individui inizia a urlare ‘smettete di fare casino’, ‘silenzio’, ‘silenzio’. Tipicamente, il silenzio arriva dopo che quasi tutti si sono messi a urlare ‘silenzio!’, e poi, guardandosi intorno, hanno visto che qualcuno ha smesso di parlare. In genere, c’è un’ultima lotta per stabilire l’ultimo che grida ‘basta, silenzio!!!’ E poi, finalmente, il silenzio arriva.
Subito dopo, emerge l’impulso irresistibile a raccontarsi e commentare ciò che è accaduto.
Lo staff della ‘Human Resources Strategy for Researchers’ ha così potuto accertare che molti docenti della Grande Mamma non conoscono i meccanismi comunicazionali dei social network. I ricercatori, a loro volta, che i raffinati autori dei questionari non sanno che quando hai molti destinatari spedisci a te stesso e li metti in ccn.

Incroci ed eccessi di senso

L’altro giorno percorrevo in bicicletta il Corso della città di Rimini, l’antico decumano, oggi piuttosto stretto e in parte ancora occupato da auto. Come capita spesso nei vecchi centri storici italiani, pedoni, mamme con carrozzine, scooter, bici – elettriche e non – si incrociano e si superano senza regole precise. Capita allora che si veda arrivare verso di noi un pedone o un’altra bicicletta che va in direzione opposta. Non è detto che l’incrocio avvenga sempre a norma del codice della strada, vale a dire ognuno sulla propria destra. Dipende dagli altri pedoni, dalle altre biciclette, da oggetti mobili e immobili che occupano la via.

Succede allora che uno dei due ‘allarghi’ in una certa direzione per facilitare il passaggio.

Mentre lo faccio, noto che questa deviazione viene spesso fatta con un angolo più ampio per comunicare la parte dove si vuole passare.

Per meglio dire, se decido di passare a sinistra, mi sposto a sinistra un po’ di più di quello che sarebbe sufficiente per la semplice sicurezza dell’incrocio, proprio per dire “Sto andando a sinistra, okay? Tu passa alla mia destra”.

Rifletto che questo è un ‘eccesso’ di azione che ha uno scopo semiotico. Non serve al processo fisico di due corpi in moto che devono incrociarsi senza entrare in collisione. Se fossimo due robot dotati di sensori questo ‘plus’ di deviazione sarebbe superfluo. Il margine di deviazione serve per eccesso di prudenza, per avere maggiore sicurezza che l’apparato cognitivo della persona che ci viene incontro possa comprendere da che parte passare.

Possiamo estendere questa considerazione ad altri aspetti del comportamento umano?

Direi di sì.

Goffman, credo in La vita quotidiana come rappresentazione, ipotizza una spiegazione per tanti gesti che facciamo per strada, come guardare l’orologio e il portone mentre aspettiamo una persona sotto casa. Un gesto che non ha funzione pratica ma comunicativa, che serve a dire “Non sono una persona che ciondola per strada, sto aspettando qualcuno”.

Come possiamo definire questo eccesso di comportamento? È una specie di ‘sovraccarico semiotico’ che ha scopo comunicativo.

Oltre agli aspetti semantici e enunciativi, è interessante valutare anche gli aspetti energetici: per produrre questo ‘semiotic overload’ devo impiegare energia. Ecco, una semiotica dell’energia, intesa come lavoro umano per la produzione di senso, forse manca nella nostra disciplina.

Come far diventare fatalisti dei ricercatori

Quando ci troviamo di fronte a quelle grandi impostazioni culturali che a volte si chiamano ideologie, altre volte mentalità, altre ancora attitudini o filosofie o concezioni, ci si trova spesso a discutere da quali cause originano. Prendiamo il fatalismo (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Fatalismo e http://en.wikipedia.org/wiki/Fatalism).

Mi è capitato di recente, nell’ambito di una ricerca universitaria, di trovarmi a coordinare un gruppo di lavoro. Oltre un anno fa, all’approvazione della Legge Gelmini, (30/12/2010) entrò in vigore una norma che cambiava alcune regole amministrative. Questo faceva sorgere dei dubbi interpretativi sull’applicazione della legge. Richiesi dunque un chiarimento. Il chiarimento è arrivato al sottoscritto oggi, 24 gennaio 2012.

In oltre dodici mesi, il coordinatore e il team di ricerca hanno prima verificato di non poter sapere se potevano o no fare una cosa. Dunque abbiamo atteso. Non sapevamo né SE qualcuno avrebbe risposto né, se mai lo avesse fatto, QUANDO. Non sapevamo neppure CHI avrebbe dovuto rispondere né SE avrebbe dovuto farlo.

Questa situazione costruisce inevitabilmente, anche nelle menti razionali e pragmatiche di ricercatori professionisti quali (indegnamente, indegnamente) noi siamo, un paradigma fatalista. Per prima cosa, il non poter sapere ci ha resi indecisi e contradditori. Infatti, ignoravamo se una regola che avrebbe cambiato il nostro comportamento era o non era valida. Ma dovevamo comunque decidere cosa fare, perché avevamo l’impegno di condurre la nostra ricerca. L’assenza di risposta ci metteva nella condizione di dover decidere qualcosa senza avere i dati completi per farlo. E’ questa l’essenza del fatalismo: non poter sapere e quindi non poter né fare né non fare. Dunque, a tratti ci comportavamo come se la risposta fosse positiva, a tratti all’opposto. Inoltre, abbiamo maturato una progressiva sfiducia nei confronti dell’autorità che governa il nostro lavoro. La nostra sensazione è stata che questa Autorità fosse lontana e del tutto disinteressata a quanto facevamo. Infine, spesso abbiamo rinunciato a fare cose che avrebbero potuto esporci a rischi in caso di risposta negativa. Ci siamo comportati come i più fatalisti musulmani dell’Africa profonda, che alla mia parola ‘domani’ rispondevano inevitabilmente: “Domani? Domani se Iddio vuole!”

Questa è una dimostrazione pratica di come il fatalismo sia prodotto da comportamenti sociali, nella fattispecie la mancanza di informazione su quanto si può o non si può fare da parte di chi ‘governa’ un sistema. Il fatalismo in questo caso è prodotto in modo causale, diretto, inevitabile, in un sistema rigido di cause ed effetti. La forme mentali, se stiamo a questi fatti, si determinano come comportamenti forzati dal sistema.

Queste riflessioni possono essere applicate all’attuale periodo che l’Italia attraversa.

Eco: ottanta anni e qualche riflessione

Abbiamo festeggiato gli ottanta anni di Umberto Eco.
Sono occorrenze che ispirano qualche riflessione.
Ho visto Eco la prima volta nel 1975, nella vecchia sede del DAMS (doveva ancora uscire il Trattato). Da studente, andai alla prima lezione del suo corso, in Strada Maggiore. L’aula era piccola e straripava. In prima fila le signore bene dell’intellettualità bolognese. Lui si mise dietro alla cattedra e, senza dire una parola, iniziò a lanciare palle di carta sugli astanti. Mugolii di ammirazione. Esordì: “Ecco, questo è un segno.”
Fui affascinato dalla semiotica e non mi ripresi per molto tempo, forse ne sono ancora innamorato. Per il nostro Maestro attraversai le fasi che ogni discepolo percorre: stupore, ammirazione incondizionata, desiderio di vicinanza, orgoglio di essere ammesso alla ‘scola’, emulazione, delusione, realismo, ribellione, affetto, stima, distanza, amicizia, devozione.
Ricordo quando, col successo del Nome della rosa, tutto cambiò e Umberto diventò una personalità mondiale. Noi, che gli eravamo vicini, restammo sbalorditi. E anche lui, a dire il vero. Fu un shock, perché quando si superano determinate soglie la persona che conoscevi ti viene di fatto sottratta, e ci rimani male. Dopo di allora Eco non poté più vivere come gli altri. Se ne è fatto una ragione e lo ha sempre accettato con disinvoltura. Anche la settimana scorsa qualcuno si è dovuto occupare di respingere alcune persone che non erano invitate e che avrebbero creato disagio.
A parte augurare vita lunga e felice a Umberto Eco, oggi mi viene però da pensare a quell’esplosione di successo che ha fatto di un brillante professore italiano una star intellettuale mondiale.
All’epoca del Nome della Rosa (1980), due cerchie stavano attorno a Eco: i colleghi più giovani, quasi tutti ricercatori, e gli allievi di prima generazione. I primi subirono un impatto devastante: l’esplosione di un personaggio che anche prima espandeva naturalmente il proprio spirito spinse alcuni di loro a tentare un’emulazione impossibile, altri a rinunciare per sempre ad ambizioni commensurabili. Entrambe le strade, ahimè, sono dettate dal confronto e dunque vincoli, in qualche modo, ombre sulla propria, grande o piccola, individualità. Quasi tutti col tempo si ripresero e divennero ciò che erano, in modi diversi brillanti, operosi, abili, autorevoli.
Noi della seconda cerchia subimmo effetti meno diretti; la nostra emulazione non aveva l’età per essere seria, ma proprio questa distanza la rendeva più insinuante, più ideale, più profonda. Io stesso sognai di essere docente universitario e scrittore, e devo dire che lo sono diventato. Ma in sedicesimo. Posso fungere da Eco in formato tascabile, al massimo. Le vicende degli altri sono analoghe. Per ora. Si può sempre vincere un Nobel fino all’ultimo giorno della vita.
Questo non è un lamento. Ho imparato da Umberto tante cose, altre le ho apprese da altri. Innumerevoli le ho apprese da me stesso. E comunque, questa esplosione di fama che ha illuminato tanti satelliti, ha messo in moto grandi energie. Così come ha inghiottito interi brani di esistenze.
Una cosa credo di poter concludere: l’idea che abbiamo dell’individuo che coincide con i propri confini corporei è del tutto errata. Ogni individuo crea un campo simile al campo gravitazionale, esteso più del suo corpo o anche meno: un campo semiotico, vogliamo chiamarlo? Quando lo è di più, ingloba altri individui, in toto o in parte, e li muove secondo le sue traiettorie. Quando lo è di meno, viene attratto nel campo di altri. Alcuni individui sono dotati di un campo semiotico più ampio della media. Vuol dire che trasportano altri pezzi di persone o persone intere. È difficile sia stare loro vicini sia starne lontani. Solo la consapevolezza di quanto questa relazione sia interessante ci aiuta a gestirla.

Facciamo quadrato?

Il passaggio dal governo Berlusconi al governo Monti sembra fatto apposta per illustrare la nozione semiotica di assiologia, vale a dire di rappresentazione di una categoria semantica nel quadrato semiotico.
Prima, avevamo un Presidente del Consiglio imprenditore, dunque un uomo dedito alla pratica, ora abbiamo un professore, dunque un teorico. Mentre Berlusconi era un uomo di eccessi e appetiti (“Molto lavoro, molto divertimento”, usa dire) ora abbiamo un premier all’insegna della sobrietà e del controllo, il divertimento del quale è visitare musei.
In un primo quadrato avremo:

Il quadrato semiotico ci mostra nei sub-contrari i punti deboli di Berlusconi: mancanza di una teoria (programma, visione) difficoltà nel controllo (di sé, del suo partito), che hanno portato alla fine prematura del governo da lui presieduto. Saranno anche i sub-contrari i rischi del governo Monti? Già i primi fatti ci indicano che possono esserlo: mancanza di contatto con la pratica (la vita quotidiana), carenza di passioni e slanci. Se fossi lo Spin Doctor di un Monti candidato, dovrei consigliarlo di lavorare su questi punti deboli.

Soprattutto, però, colpisce una opposizione che pare fatta apposta per il quadrato semiotico: Berlusconi non aveva i voti neppure del suo partito (a partire dalla defezione dei finiani e dalle ‘campagne acquisti’ successive); Monti ha i voti di partiti non suoi (poiché non ha un partito).
Proviamo dunque a scrivere questo quadrato:

Questo quadrato rivela anche di più, sempre osservando i sub-contrari: Berlusconi ha dovuto rinunciare al mandato perché, nonostante l’emergenza, non era in grado di costituire un governo di unità nazionale, raccogliendo i voti di partiti di opposizione (i voti dei non suoi). Il sub-contrario del negativo, invece, non va ridotto con logica algebrica a “Ha i voti dei suoi” eliminando la doppia negazione. Ma leggendo “Non è vero che non ha i voti dei suoi”, o, tirando un po’ la logica per i capelli (ma la semiotica non è deduttiva, è strumento per descrivere il senso) “Non può non avere i voti dei suoi”. E infatti, Monti si regge di fatto su una non-opposizione, più che su una maggioranza.
E questo, ancora una volta, è ovviamente il suo rischio: stare seduto su un “non poter non sostenere” il governo invece che un “voler sostenere”.

Volli goes sharing

Ugo Volli mi scrive or ora “dato che […] ho un sacco di lavoro virtualmente invisibile perché sepolto in riviste difficili da trovare o libri fuori commercio, ho deciso di mettere tutta questa roba in un formato protetto ma scaricabile su un sito – almeno tutta quella che secondo me potrebbe avere ancora qualche interesse per studenti e colleghi”.

Una scelta importante, che inizia ad aprire anche nel nostro settore una riflessione sull’obsolescenza del supporto cartaceo ma soprattutto sulla insensatezza della custodia di testi che non hanno valore commerciale ma hanno un importante valore scientifico.

Volli è un autore che ha al suo attivo titoli che sicuramente hanno dato un risultato economico, ma la maggior parte degli studiosi di semiotica non ricava nulla in termini di diritti, anzi, la pubblicazione di molti testi è finanziata da fondi universitari, sotto diversi titoli.

Dall’altro lato, le richieste degli editori stanno diventando sempre più vessatorie. Di recente ho visto un contratto che imponeva al firmatario, oltre all’ormai diffuso impegno ad adottare il testo per i propri corsi (a volte con comunicazione del numero degli studenti… come se gli studenti comprassero i libri…), l’impegno a ricomprare le copie invendute… Mi sono informato con una legale, ed è assolutamente contrario al principio stesso del diritto d’autore imporre clausole di questo tipo. L’editore, da sempre, rischia assieme all’autore. Non può avere gli utili e scaricare le perdite sull’autore…

Detto questo, la circolazione cartacea dei testi di semiotica in Italia, con poche e salutari eccezioni, è veramente minima. Le tirature sono basse e dopo uno o due anni il libro, se non va in ristampa, è introvabile, sempre che ci sia qualcuno che lo voglia trovare.

In ogni caso, i diritti che gli autori percepiscono sono minimi. C’è da chiedersi veramente perché, a fronte di questa situazione, il vantaggio di una diffusione potenzialmente illimitata in rete non venga scelto più spesso.

Ocula lo sta sperimentando. Alcuni dei nostri articoli sono dei punti fermi in alcuni settori di studio, anche dopo anni, e vengono continuamente scaricati. Tra l’altro, la verifica dei tassi di download dei diversi testi consente di monitorare l’andamento dell’interesse del lettore e dunque anche quello del valore scientifico del testo stesso. Pensare che il valore di un testo non dipenda infatti dal numero di lettori (non dico soltanto da questo…) è abbastanza illogico. La posizione di Eco o di Barthes nella semiotica non si può certo scindere dal numero di copie vendute delle loro opere. Forse questo vale meno per Greimas o Peirce, ma è comunque un fattore indicativo.

L’idea di Ugo Volli è dunque importante. Anche Gianfranco Marrone da tempo mette e disposizione diversi suoi testi (gianfrancomarrone.it), e lo stesso fa Paolo Fabbri (paolofabbri.it), e forse ce ne sono altri, e i commenti a questo post potranno integrare l’elenco. Il sintomo è importante.

I testi accademici in lingue minoritarie come l’Italiano, a mio parere, migreranno presto quasi tutti sul web, in quanto non vi è alcun incentivo economico a pubblicarli. Resta l’incentivo accademico, ma ancora per poco. In questo modo i fondi che si spendono per stampare libri di carta si potrebbero usare per altre iniziative.

I testi di Ugo Volli si trovano all’indirizzo:

sites.google.com/site/profugovolli

E il lavoro di pubblicazione è ancora in corso…

Regolarità

Oggi vado a fare jogging sulla pista ciclabile del Marecchia. A un certo punto ho davanti a me due signore che passeggiano, affiancate, nel mio stesso senso di marcia, a destra, e di fronte un’altra con una carrozzina, che si dirige verso di me, alla mia sinistra. Io mi sposto più veloce. O per meglio dire, loro si muovono più lente, visto il mio passo da mezzofondista di mezz’età. La velocità e la direzione di ognuno dei tre oggetti in moto fa sì che siamo destinati, se non cambiamo il vettore, ad affiancarci tutti e quattro (da sinistra: la carrozzina, io, le due signore) per un istante. Vedo questo e calcolo che possiamo passarci tutti. Lo stesso fa la signora con la carrozzina, che si sposta solo leggermente alla sua destra, come io mi sposto leggermente alla mia sinistra. Per un istante formiamo una linea retta:

carrozzina – io – signora 1 – signora 2

Poi io supero le due signore e la carrozzina continua in senso opposto.

Mi trovo in quel momento a pensare: “Strano, questi allineamenti super-temporanei, sia camminando, sia in bicicletta, sia in auto (per es. in una autostrada a 3 corsie) avvengono più spesso di quanto dovrebbero avvenire se tutti procedessero semplicemente a velocità costante. Non sarà che cerchiamo magari inconsapevolmente di farli avvenire?”

Ma, mah. No, questo non è possibile. E’ vero che un certo istinto porta le persone a prendere la misura da lontano e a effettuare il passaggio in simultanea per avere maggiore controllo degli ingombri, soprattutto alla guida di un veicolo. Ma statisticamente non c’è nessuna prevalenza di allineamenti. Non vi è nessuna legge, né fisica né sociologica, che lo può giustificare.

E’ che, semplicemente, il nostro cervello è costruito in modo da dare maggiore attenzione alle forme regolari e semplici. Se in un bosco per puro caso tre alberi sono in linea retta, l’occhio e il cervello subito colgono questa forma. Così se una nuvola è rotonda, o un lago è a forma di Y (come il lago di Como). Mentre il Lago di Lugano, che non ha una forma semplice, è più difficile da cogliere e da descrivere.

Questa capacità è così forte da farci pensare che le forme ‘significative’ (che hanno figuratività, ma anche regolarità plastica o comunque eidetica) sono addirittura più frequenti o più grandi di quanto sia veramente. In ogni caso, sono più importanti per il soggetto. Allo stesso modo, non appena il rumore del treno, o quello delle ruote dell’auto su lastre di cemento di un viadotto, si avvicina a un ritmo regolare, il percetto attraversa la barriera dell’attenzione e inizia un percorso interpretativo che può cessare subito ma anche arrivare lontano. Forme, forme del senso che emergono e si propagano, si mescolano, risuonano.

Su queste regolarità è facile appoggiare una convenzione, costruire un codice, dar vita a un testo estetico.

Quanto vivrà ancora la semiotica italiana?

Taccio nome dell’autore e titolo e persino argomento: ci conosciamo tutti e si rischiano amicizie, carriere ecc.

Ma mi sembra giusto raccontarlo. Mi chiede un appuntamento la figlia di un amico che frequenta un Corso di Laurea in cui vi è un insegnamento di semiotica. Ha difficoltà e chiede qualche consiglio. Mi è già capitato, lo faccio volentieri. Non influisco su alcun risultato, non dò lezioni, solo qualche professorale suggerimento. Mi sottopone i libri da portare all’esame. Assommano a circa 1.000 pagine. So che questo è già un indizio, ma è significativo, non posso trascurarlo.

Scorro gli indici e leggo qua e là, alla fine conversiamo per oltre novanta minuti, i più li passo leggendo e cercando di spiegare il significato del testo. A volte faccio fatica, devo rileggere, ridire, riformulare. Lo stile è involuto, alterna metafore a termini semiotici molto specifici. Spesso l’autore fa riferimento a posizioni di altri, criticandole e proponendo soluzioni alternative, ma non vi sono citazioni né nomi; nebulosamente scorgo il profilo di alcune teorie. Spesso le revisioni -proposte dopo pagine di sottili distinzioni- deviano così impercettibilmente dalla dottrina criticata da apparire quasi indistiguibili, se non per una farraginosa ri-enunciazione in un idioletto difficoltoso e incostante ad un tempo. Testi forse interessanti, ma molto difficili, oscuri, pieni di concetti semplici, a volte banali, espressi in modo barocco e involuto. Del tutto inadatti a un uso didattico. Francamente, assegnati a uno studente nel 2010, semplicemente crudeli.

Ricordo, negli anni ’70, quando -come molti di noi- mi innamorai della semiotica di Umberto Eco, l’entusiasmo con il quale si salutava un nuovo modo di scrivere, uno stile aperto, semplice, rispettoso del lettore, alcuni dicevano (osando) ‘americano’… Una saggistica brillante, colta, illuministica, in cui bibliografie esaurienti e internazionali, un apparato di note robusto, una suddivisione razionale e chiara in paragrafi e sottoparagrafi, sorreggevano una indagine condotta sempre con tensione e arguzia, ampiezza di visione culturale e fervore nel costruire una nuova disciplina. Ogni nuovo libro di Eco era un piacere, per noi giovani appassionati dei segni, e mai si sentiva dire che non si potesse capire o che fosse oscuro o che esuberasse dai limiti di buon senso in quantità o modo.

Certamente, Umberto resta un maestro nella scrittura saggistica italiana, non si pretende di superarlo.

Ma cosa potevo dire alla simpatica matricola? Pensare alle mille pagine di acqua -se non calda- tiepida, che si doveva sorbire mi ha riempito di tristezza. Per la prima volta, di fronte a un esame della mia disciplina, che ho praticato per circa 35 anni, non ho potuto che dirle “Porti pazienza, legga, veda se può capire, come vede, anch’io faccio fatica. Certamente i suoi colleghi non potranno superare di molto la comprensione che ne ha avuto lei. Vedrà che l’esame in qualche modo lo passerà.”

Desolante. Ovviamente non generalizzo. Ci sono autori italiani che riescono a produrre testi di semiotica chiari, se non appassionanti almeno capaci di portare a una conclusione, e a volte persino utili. Francamente, di rado memorabili, ma questo non lo si può pretendere. Tuttavia, credo che questa disciplina volga pacatamente e debolmente verso l’estinzione. Verrà in qualche modo -probabilmente- smembrata tra sociologia, linguistica, filosofia del linguaggio e logica, magari antropologia e ovviamente marketing. E’ il marketing oggi il mare magnum in cui le scienze umane vanno ad immettersi. Ma di questo, magari, in un altro momento.