Verità A Richiesta (VAR)

Com’è noto, nel campionato di calcio di serie A 2017/2018 è entrato in funzione il VAR, acronimo di Video Assistant Referee, che funziona più o meno così: due assistenti di gara collaborano a distanza con l’arbitro, esaminando i filmati in alcune situazioni incerte che vengono definite match-changing situations (situazioni che possono cambiare una partita): gol dubbi, falli da rigore, falli da espulsione, errori di identità nei casi di ammonizione o espulsione. Solo l’arbitro può chiedere di visionare un episodio dubbio, in un apposito monitor che è collocato a bordo-campo, o su sua iniziativa o su segnalazione degli assistenti di gara: in quel caso sospende la partita indicando con le mani la forma di uno schermo, come l’aruspice che con il bastone ritaglia un lembo di cielo. Sarà lui ad avere l’ultima decisione. Ma in realtà richiamando il VAR l’arbitro esaudisce un desiderio maturato in anni e anni di trasmissioni televisive, processi, moviole e movioloni, discussioni estenuanti del lunedì sera coordinate dal fu Aldo Biscardi, che con aspra cadenza molisana invocava la moviola in campo già negli anni Ottanta. Ora è arrivata, e per uno strano gioco del destino proprio poco prima che Biscardi morisse. Ma cosa ci possiamo aspettare davvero da questo nuovo sistema?

Gli arbitri senza VAR sbagliavano perché il gioco del calcio è complesso, il campo molto ampio, il ritmo veloce, i contatti spesso dubbi e le simulazioni ben mascherate. Ma le trasmissioni sportive anziché praticare una benevola indulgenza, spesso per ragioni di share adombravano dubbi sulla limpidezza del sistema e persino sulla buona fede dei direttori di gara, scatenando così le reazioni anche aggressive dell’opinione pubblica. Un vecchio e geniale Presidente dell’Ascoli, Costantino Rozzi, parlava sempre della sudditanza psicologica che avrebbero gli arbitri nei confronti dei grandi club. Del resto Michel Foucault ci ha insegnato che la verità (anche quella calcistica) è sempre legata al (e determinata dal) potere. Di qui la richiesta pressante del controllo tecnologico in campo, per ristabilire – appunto – la verità. Va ricordato però che le riprese video sono una rappresentazione di ciò che succede nella realtà del campo, sono una racconto di quanto è accaduto: il cronista della carta stampata descrive con le parole, il vignettista rappresenta con i suoi disegni, la televisione ripropone la realtà con le sue telecamere, con le sue postazioni e le sue tecniche, con le velocità alterate (slow-motion e fast-motion) e le prospettive modificate. Non esiste una rappresentazione neutra della realtà, e già negli anni Settanta Umberto Eco spiegava al pubblico ancora poco scaltro come anche le riprese in diretta, lungi dal riportare la realtà oggettivamente, costruiscono “effetti di realtà” attraverso l’uso dei propri mezzi, le angolazioni, le luci, i rumori. La diretta è un insieme di scelte effettuate per costruire “effetti di veridizione” (si pensi alla classica telecamera traballante del videomaker embedded sugli scenari di guerra, con il noto effetto tremblé, o bugée: il segno mosso come diceva Ėjzenštejn). Oggi dopo decenni di studi massmediologici è ampiamente diffusa l’idea che la televisione traduce la realtà con i propri mezzi e le proprie tecniche: e ogni traduzione, si sa, è un po’ infedele. Del resto nessuno si sognerebbe mai di dire che il telegiornale descrive in modo neutro e oggettivo la realtà. Curiosamente, invece, si pensa di poter trovare la “verità calcistica” proprio nella rappresentazione televisiva. Il pubblico si acquieta perché “lo dicono le immagini”, ma Roland Barthes ha dimostrato che le immagini, con la loro forza iconica, seducono e illudono, fanno sembrare neutro e naturale ciò che è costruito con la tecnica e la strategia. Peraltro proprio i vecchi processi serali mostravano come non ci fosse quasi mai accordo tra i commentatori nell’esame di certi episodi incriminati. Ora con il VAR gli assistenti e l’arbitro stesso devono in ogni caso interpretare le riprese televisive: il che induce a sospettare che la vecchia sudditanza psicologica (l’influenza del potere sulla verità, direbbe Foucault) possa ripresentarsi sotto mentite spoglie, davanti a un monitor che sembra svolgere la funzione dell’Oracolo di Delfi.

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Credo che questa “illusione di verità” sia in parte alimentata dal progresso tecnologico. Già la tecnologia ha favorito una maggiore spettacolarizzazione del calcio e abbiamo visto tutti come le numerose telecamere che si muovono per il campo, le regie mobili e immobili, le strumentazioni avanzatissime che consentono di spaccare in quattro i fotogrammi abbiano modificato comportamenti e riti calcistici: i giocatori oggi esultano con fantasiose coreografie teatrali e se sbagliano un tiro si mettono le mani nei capelli, guardano il cielo e sgranano gli occhi come personaggi caravaggeschi, mentre Riva e Rivera avevano modi controllati e direi discreti sia di esultanza che di sofferenza. Oggi gli allenatori parlano con le mani davanti alla bocca per coprire il labiale, proprio come i ministri in Parlamento: accorgimenti che Trapattoni e Mazzone, com’è noto, non hanno mai preso. Ora stiamo osservando le novità che il VAR impone alla liturgia del calcio: i nuovi gesti dell’arbitro che richiede supplementi di verità (Verità A Richiesta), la sosta piena di suspense dell’arbitro davanti al monitor, le nuove pause per mangiare le noccioline o fare due chiacchiere, come già avviene in altri sport tecnologizzati. Ma soprattutto la tecnologia ha rafforzato la sensazione di poter controllare e riprodurre fedelmente ciò che avviene in campo, di poter ricostruire una verità oggettiva. Ma un fallo di mano in area che appare evidentemente involontario, nello slow-motion della moviola apparirà probabilmente volontario: dov’è la verità, nel campo o nel video?

Beninteso, io non sono contro l’uso del VAR e della tecnologia nello sport (nel tennis abbiamo visto all’opera l’«occhio di falco»). Non conviene mai fare battaglie in nome della conservazione e del passatismo, e il VAR può senz’altro aiutare nel prendere certe decisioni. Voglio solo sostenere che se in campo un episodio risulta dubbio, non sarà il VAR a fornire una verità incontrovertibile. Il VAR può dare forse l’illusione di una certezza, ma deve essere chiaro che è solo una versione in più con cui fare i conti. Kurosawa nel suo celebre Rashomon ha descritto in modo magistrale come un fatto (in quel caso un omicidio) possa essere ricostruito in tanti modi diversi, con la verità che si disgrega davanti agli occhi del giudice e dello spettatore. In Blow up di Antonioni un fotografo si accorge nella camera oscura di aver fotografato un omicidio: ma nel momento in cui va a fare un ingrandimento per vedere meglio, l’immagine comincia a mostrare un altro scenario e la realtà si dissolve. L’omicidio è avvenuto realmente? E il fallo in area di rigore?

I filosofi del «nuovo realismo» (Maurizio Ferraris in testa) potrebbero dire che la mia è una posizione relativistica e nichilistica (Nietzsche diceva che non esistono fatti ma solo interpretazioni!). Non è così, io credo che la realtà esista (in questo caso sono i fatti che avvengono in campo): piuttosto non ho mai creduto alla Verità Unica e – per così dire – “innocente”, cioè avulsa da un sistema di forze e controforze. I tifosi potrebbero pensare invece che io sia anti-VAR perché tifoso della Juventus, una squadra che sembra sia stata fortemente avvantaggiata da scelte arbitrali pre-VAR (ma sarà vero?). Non è così. Ho un forte attaccamento, e da molti anni, per i colori bianconeri: ma sono quelli dell’Ascoli.

 

2 comments

  1. Giampaolo Proni says:

    Condivido la posizione di Stefano Traini. E anch’io mi dico realista. Che dietro ogni interpretazione ci siano dei fatti, lo dimostra il fatto (appunto) che gli sport non sono tutti ‘VAR-sensitive’ nella stessa misura. Nel tennis e nella pallavolo molte volte si tratta di capire se la palla è rimbalzata dentro o fuori le linee del campo. C’è la palla e ci sono le linee, ovvero un oggetto statico e uno in moto. La videocamera può essere fissa, e il responso è quasi sempre indubitabile. Tuttavia, fisicamente non si può escludere che la palla rimbalzi esattamente metà dentro e metà fuori della linea. Ma ancora fisicamente non si può escludere che, disponendo di una misurazione più precisa, la metà si riveli di meno o di più. In questi casi decide l’arbitro. Il rugby, sport che apprezzo molto, è invece sotto certi aspetti persino meno VAR-sensitive del calcio (nel rugby il sistema si chiama TMO, comunque). In certe partite succede che la meta venga chiamata dagli attaccanti ma il preteso ‘touch down’ è avvenuto (se è avvenuto) sotto una piramide di energumeni divincolanti, così che nessuno degli arbitri umani può aver visto che cosa è accaduto, né costoro possono pretendere sensatamente di averlo visto. Capita così che le immagini di due o tre diverse telecamere vengano esaminate, e questo aumenta ovviamente (dato che i fatti esistono, cioè la palla ha toccato il campo o non lo ha toccato) le probabilità che si possa dirimere la questione. Tuttavia anche tre occhi digitali in più non sempre riescono a penetrare il viluppo di corpi. In tal caso l’arbitro di solito annulla. Non solo, ma l’arbitro di TMO si rivolge all’arbitro autorizzandolo ad assegnare o meno la meta, prendendo così la responsabilità del giudizio. Vi sono comunque altre differenze, che possiamo leggere a questo link https://www.rugbymeet.com/it/news/tecnologia/tecnologia-in-campo-le-differenze-tra-var-e-tmo . Le regole di uso della tecnologia video rendono dunque molto diversa la costruzione della verità, cioè dell’interpretazione del fatto. Per esempio, nel rugby solo l’arbitro può richiedere il TMO, quindi spetta all’arbitro dichiarare un fatto ‘difficile da vedere’. Ora, il fatto è ‘ontologicamente’ difficile da vedere o lo è soggettivamente? E’ evidente che la risposta è la seconda. L’arbitro si può trovare in una posizione dalla quale non vede accadere il fatto (per esempio un fallo compiuto alle sue spalle) mentre tutto lo stadio lo vede. La visione dell’arbitro è per definizione soggettiva (è questo che spesso le trasmissioni biscardiane fingono di ignorare. A volte pare di assistere a una discussione metafisica, come se l’arbitro dovesse essere Dio). Nel rugby, dunque, si ritiene l’arbitro sufficientemente oggettivo da capire quanto è soggettiva la sua visione. In ogni caso, vi sono situazioni nelle quali difficilmente il direttore di gara si può esimere dall’uso del TMO. Un realismo intelligente può dunque sostenere che ogni percezione del mondo è oggettiva (magari in parte), ma non che tutte lo siano allo stesso modo. D’altra parte, un realismo intelligente non può equiparare un giudizio dato in seguito a un breve esame dei fatti e sulla base di teorie mai dimostrate e un giudizio prodotto applicando il massimo rigore e la massima capacità di indagine. Sostenere che Gentiloni vincerà le elezioni perché ha Marte in Gemelli non è la stessa cosa che lavorare a sondaggi di opinione e applicare gli strumenti previsionali della scienza politica. Entrambi possono avere successo o fallire, dato che parliamo di fenomeni sociali complessi e non determinabili, ma la descrizione del secondo metodo ci porta a esplorare i fatti e soprattutto produce previsioni autocorrettive e conclusioni fallibili. E’ proprio la fallibilità, ci insegna Peirce, e lo ripeterà Popper, a garantirci che abbiamo a che fare con dei fatti. La realtà è quello che produciamo usando al massimo gli strumenti che abbiamo a disposizione, non quello che sta dietro al velo di Maya. Che in qualche modo i due sistemi corrispondano o tendano ad avvicinarsi, per Peirce era una certezza, per noi oggi credo che sia un’ipotesi.

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